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Ritrarre il presente
La pittura italiana fra meta-dimensione e meta-realtà

Barbara De Vivi, Golden Hour, tecnica mista su tela, 100 x 120 cm, e stampa digitale, 300 x 145 cm, 2021, allestimento della mostra Danae Revisited, Fondazione Francesco Fabbri, Pieve di Soligo, courtesy Galleria Marcolini, foto Gerda studio

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La generazione nata tra la metà degli anni Ottanta e la fine dei Novanta è stata la prima nativa digitale, crescendo e formando la propria identità, personale e artistica, nell’ambito di una negoziazione costante fra spazio digitale e fisico. Dalle PlayStation e i Nintendo degli anni Novanta, alle community online apparse verso il 2000 (Myspace, Netlog, Habbo), fino ai social media, l’identità dei giovani artisti si è plasmata in una dimensione di esperienza, espressione ed esistenza ulteriore rispetto alla realtà fisica. La progressiva normalizzazione e integrazione di questa condizione con il proprio quotidiano l’ha fatta, successivamente e inevitabilmente, entrare anche nel loro lavoro.

I cosiddetti Millennials sono cresciuti con la possibilità di avere, fin dall’infanzia, un avatar con cui proiettarsi in uno spazio altro, più flessibile alle manipolazioni e auto-rappresentazioni rispetto alla realtà. Così l’alter ego digitale si è miscelato nel processo di crescita e formazione identitaria, contribuendo a definirla e ridefinirla, fino a rendere indistinguibile il confine tra identità reale e costruzione/manipolazione del sé ‘altro’.

Tale confine si è ulteriormente diluito con l’arrivo dei social media, Instagram in particolare, ormai usato dagli artisti come naturale strumento di ‘messa in scena’ di sé e della propria pratica, a cavallo tra personal branding e storytelling.

Questo fenomeno di trasformazione delle modalità di espressione identitaria e artistica, va però oltre le mere piattaforme, ed è qui che la relazione tra arte e digitale offre interessanti occasioni di riflessione sul rapporto triadico tra l’individuo, la realtà – intima, personale o esterna – e la sua rappresentazione visiva.

Attualmente l’artista pare abbracciare la realtà offerta dalla dimensione digitale quale opportunità creativa e immaginativa addizionale, accettandone l’intrinseco condizionamento. Anche i medium tradizionali risultano influenzati dall’evoluzione che l’uso dell’immagine e del linguaggio ha avuto in campo digitale.

Così, nell’ultimo decennio, la pittura ha elaborato e assimilato il nuovo immaginario visivo multidimensionale e multimediale portato dal digitale e dai nuovi ‘media’, ma si è trovata anche a conciliare un crescente desiderio di rivolgere lo sguardo all’interiorità, emerso in reazione alla proliferazione dell’immagine digitale e dell’esibizionismo che tali media ‘sociali’ impongono.

Complice di questa tendenza, anche la quarantena dovuta alla pandemia da Covid-19 ha stimolato momenti di profonda meditazione, attraverso cui la pittura ha potuto riaffermare un proprio ruolo, anche nell’orizzonte della ricerca. Osservando le operazioni artistiche di questa generazione, si nota quanto la pittura sia tornata a essere strumento privilegiato di una ricerca più intimista sulla propria identità e sull’idea di rappresentazione del sé e della realtà.

Qui però si apre un divario: quale realtà? Quella materiale o quella virtuale? Non è ormai anche tale meta-dimensione parte dell’esperienza del reale, e del nostro ‘essere sociale’?

Discutendo sul rapporto fra arte e new media art rischiamo di fare una distinzione già obsoleta, perché questi mondi paiono sempre più integrati nella nostra esperienza quotidiana. La stessa definizione classica della pittura, è superata se riferita alla pura dimensione tecnica – il pennello, il pigmento. Come descrivere, infatti, gli esercizi di pittura espansa che contraddistinguono alcune ricerche? In che modo parlare dell’immaginario pittorico, senza riferirsi alla realtà, anche digitale, che gli fa da sfondo? Come nella seconda metà dell’Ottocento la nascita della fotografia e del cinema aveva ispirato rivoluzioni nel concepire lo spazio pittorico, anche il rapporto con il mondo digitale e la sua estetica si riflette inevitabilmente nella pittura dei nostri giorni, persino quando questa si traduce in movimento di reazione, attraverso il ritorno alla tradizione o a una densa materialità.

Gli artisti italiani che hanno scelto la pittura come mezzo espressivo hanno raramente preso una posizione esplicita nei confronti della relazione con l’immaginario digitale; ora, quell’orizzonte si confonde totalmente con il linguaggio, i contenuti e i riferimenti che vengono incorporati nella propria produzione. Eppure, la pratica di ciascuno ha interpretato tale dialogo con prospettive radicalmente diverse, interessanti da approfondire attraverso una panoramica che faccia emergere legami e temi prevalenti.

Vale la pena iniziare da un percorso che si colloca a cavallo tra la riflessione sull’identità e la cultura popolare, osservata tramite le infinite possibilità della rete. È ciò che connota la ricerca di Davide Serpetti (L’Aquila 1990), che muove dal concetto tradizionale di ritratto per cogliere le sfumature più sottili di una ipotetica identità digitale fluida. Parlando della sua mostra personale presso Casa Vuota (2021), sulla scia di una pittura espansa, l’artista rivela il desiderio di «rendere dinamica l’immagine, attraverso un’originale sintesi tra scultura ed elaborazione digitale». La serialità, la reiterazione di uno stesso volto dipinto in maniera differente, interroga la riconoscibilità dei tratti e del sesso, risolta infine nell’androginia, quasi a riflettere il carattere di neutralità della rete. La serie The Sleepers è un’analisi sull’iconografia che parte dalla ripetizione di un ritratto, trasportandoci nella dimensione virtuale del meme.

L’immaginario di Internet è penetrato non solo nella rappresentazione, ma anche nelle tecniche pittoriche. Un caso emblematico è quello di Andrea Martinucci (Roma 1991), che ha realizzato dipinti frutto di un dialogo tra acrilico e digitale. La serie jpeg (2014-2019), si concentra su immagini prese dai social media che fanno da sfondo a una sovrapposizione di piani, dettagli e tratti di pittura figurativa e astratta. Il risultato è un remix delle caratteristiche proprie della rete, intelligentemente accentuate. Questa modalità ha reso particolarmente riconoscibile il suo lavoro, portando nella pittura la stratificazione e il montaggio di layer tipico del web. Interessante osservare anche il movimento successivo della sua attività, una forma di reazione – o forse di evoluzione – che ha portato Martinucci a sostituire l’immaginario digitale con riferimenti più legati alla storia della pittura. Riprendendo un vocabolario apparentemente più convenzionale, ma in grado di veicolare una dimensione più intima e vulnerabile, l’artista ha messo in prospettiva il suo rapporto con l’influsso digitale.

Altro esempio su cui ragionare, in termini di ibridazione e sovrapposizione tra fonti iconografiche contemporanee e memorie personali, è la produzione di Barbara De Vivi (Venezia 1994), che trae la propria materia di lavoro dal flusso mediatico e iconografico che ci circonda, espandendo, ma anche manipolando, la nostra percezione della realtà, presente e storica. Dopo una prima elaborazione e montaggio digitale, successivamente riportato sulla tela, soggetti tratti dalla storia dell’arte si mescolano fluidamente con i suoi ricordi, in opere che si collocano in una sfera trans-storica e trans-personale, come ogni meta-narrazione visiva caratteristica del digitale. Nei lavori più recenti, De Vivi deposita direttamente su tela immagini digitali già elaborate e stampate, su cui interviene pittoricamente, esplorando un orizzonte sempre più libero di integrazione fra dimensione fisica e digitale.

Aspira a sviluppare pienamente l’inerente fluidità e ibrida malleabilità di ogni immagine digitale, la più recente serie pittorica di Pietro Catarinella (Roma 1983), che da tempo lavora con iconografie e iconologie del mediascape contemporaneo. Tra gli artisti che adottano la tecnica della stratificazione, Catarinella frammenta e sovrappone i riferimenti tanto da arrivare a trasmettere visivamente il concetto di data traffic. Questi lavori sembrano condurre all’estremo l’estetica del remix che il digitale ha permesso, mescolando, direttamente su tela, pittura e immagini digitali, per creare vortici iconografici nei quali ogni figura, simbologia o avatar collassa, per quanto si intravedono ancora, nei toni e negli abbozzi di corpi, rimandi alla tradizione.

La rete ha ampliato non solo i richiami al reale, in una mise en abyme di forme e immagini, ma anche al fantastico. Immaginario onirico, surreale, mediatico e digitale si mescolano in un nuovo ‘universo metapittorico’ nelle opere di Giorgia Garzilli (Napoli 1992), Diego Gualandris (Bergamo 1993) e Viola Leddi (Milano 1993), che condividono una trasposizione pittorica di mondi creati e fruiti in primis tramite il digitale. Se il repertorio onirico di Garzilli proviene da un montaggio cinematografico digitale al di là del reale, che genera un realismo magico di corpi immersi in atmosfere sospese, le narrazioni fiabesche di Gualandris si nutrono, invece, di fantasie psichedeliche che danno l’impressione di espandersi in spazi sconfinati, come quelli dell’animazione digitale. Così, forse perché ancora troppo abituati a essere ‘finestra aperta sul mondo’, i suoi quadri sembrano contenere a malapena i paesaggi sterminati cui si dedica, risentendo dei propri limiti materiali. Per questo l’artista ha iniziato a integrare la proiezione di film, che animano e attivano la superficie, estendendola verso uno spazio liminale alla realtà aumentata. In una direzione simile si colloca anche l’interessante transizione di Leddi che, nel desiderio di rovesciare iconografie e stereotipi nella rappresentazione femminile, è passata da forme classiche, più intime e oniriche, a un nuovo realismo magico, che si pone in una meta-dimensione fluida, contaminata dall’onnipresente paesaggio virtuale.

Il virtuale contemporaneo, del resto, è onnivoro, accoglie tutto. Così il digitale si unisce con l’eterno ritorno dell’iconografia classica, perché la storia dell’immagine è da sempre fatta di rimandi e ritorni. Sono ancora tanti, infatti, i pittori italiani che guardano alla tradizione, tra confronto e attualizzazione, come Alessandro Giannì (Roma 1989), che riprende le narrazioni della storia dell’arte, o il duo Brinanovara (Giorgio Brina, Milano 1993, e Simone Novara, Milano 1994) che ha dedicato un ciclo a Paolo Uccello e attinge continuamente all’iconografia dell’arte moderna.

Troviamo, poi, artisti che si interrogano direttamente sul senso di essere, oggi, pittori italiani, utilizzando, pertanto, motivi e tecniche del passato. È il caso di Paola Angelini (San Benedetto del Tronto 1983) che, soprattutto a seguito della residenza veneziana a Ca’ Pesaro, durante l’isolamento della pandemia, si è riconciliata con il ricco patrimonio della tradizione pittorica italiana, in particolare con il classicismo ispirato dall’antichità e dal Rinascimento, o dai primi decenni del XX secolo. Ciò si può osservare nelle sue opere recenti, in cui una materia pittorica stratificata prevede dense preparazioni con colla di coniglio e gesso. La ricerca di una iconicità solida porta l’artista anche a una purificazione delle forme, che rimanda a un primitivismo rinascimentale poi proseguito dal Novecento, generante interessanti e inaspettate analogie con la semplificazione anatomica e fisiognomica di varie animazioni digitali.

Il ritorno a una stratificata materialità pittorica, in reazione alla dematerializzazione dell’immagine, caratterizza anche la pittura di Marco Scarpi (Venezia 1998), che ripresenta sulla tela personaggi iconici, estremamente semplificati ma caratterizzati da simbologie senza tempo, come il pugile o l’angelo. Applicando meccanismi simbolici non dissimili da quelli di avatar o emoticon, queste figure acquisiscono però consistenza materiale e simbolica nella densa fisicità pittorica.

Per concludere, se da una parte, rispetto al passato, la pittura ha, talvolta, subito un impoverimento nella capacità tecnica – da imputare a cause e condizioni che vanno oltre la nascita del digitale – il confronto con virtuale e meta-virtuale produce, oggi, un fermento creativo in grado di rinnovare la relazione con il medium, sia in termini di soggetti e immaginari che di tecniche. La superficie della tela continuerà ad alimentare questo gioco di scambi alla pari degli schermi e permetterà, forse, anche di cogliere meglio, rispetto ad altri mezzi espressivi, cosa succede nel subconscio di questa generazione digital native, risultato di un’auto-osservazione più lenta e intensa, nel tempo e nella introspezione che richiede.

Nell’orizzonte di speculazione che ha avvolto gli NFT e l’avvento del metaverso si spera, poi, che il coinvolgimento degli artisti nell’immaginare questi nuovi mondi possa accompagnare anche una riflessione critica sul loro utilizzo, che inevitabilmente cambierà il nostro rapporto con l’ambiente circostante.