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Identità come performance
L’arte nel metaverso

Gazira Babeli, Grey Goo, 2006, performance, courtesy l’artista

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Qualche tempo fa, un quotidiano locale mi ha chiesto: «conosci artisti bresciani che lavorano con gli NFT?». A farmi riflettere, più che la domanda, è stato il fatto di trovarla istintivamente fuori luogo. Con rare eccezioni, connesse soprattutto all’aver già legato la propria carriera al proprio nome di battesimo, gli artisti attivi nel mondo NFT operano con pseudonimi o domini ‘.eth’; sono parte di una comunità dispersa geograficamente, si riuniscono in canali Discord e Twitter, comunicano prevalentemente in inglese, si manifestano in veste di profile pics, e trattano nome anagrafico, luogo di residenza, età e genere quali ingredienti da aggiungere alla ricetta della loro individualità solo se funzionale, necessario, non dannoso, per l’immagine pubblica che vanno costruendo. Da decenni, le comunità digitali ci hanno condotto a prendere confidenza con un’accezione fluida, ‘liquida’ (Zygmunt Bauman)[1] di identità, che da prerequisito, assunto, rigido sistema di classificazione e, a volte, condanna, è diventata performance.

Scomodando Byung-chul Han, possiamo affermare che la transizione da una società disciplinare repressiva a una società della prestazione, ha cambiato la forma modale dell’identità, da un dover essere a un poter essere[2]. È di per sé meraviglioso, se non fosse che, come notano sia Han che Bauman, la libertà del poter essere finisce per divenire una nuova forma di dovere; le strutture sociali non si sono ancora adattate a tale declinazione performativa dell’identità, sia quando mostrano il loro volto disciplinare, sia quando offrono opportunità: la visibilità sul giornale ‘locale’, il premio per ‘giovani’ artisti, il padiglione ‘nazionale’ alla Biennale, le quote ‘rosa’… Questo non significa che le abitudini prese online non abbiano cambiato il mondo cosiddetto reale, né che l’introduzione di nuove tipologie di verifica dell’identità in rete – come la proof of identity invocata recentemente da un docente della New York University, convinto che la prevalenza di account anonimi e bot si sia evoluta in una piaga sociopolitica[3] – non sarebbe percepita come compimento definitivo della involuzione di Internet in un panopticon contemporaneo.

Più che mettere in dubbio la legittimità del discutere di identità italiana nel metaverso, questo preambolo ha lo scopo di introdurre un aspetto chiave, il più denso di conseguenze in ambito artistico: l’identità come performance. «Il mio corpo può camminare a piedi nudi, ma il mio avatar ha bisogno di scarpe Prada», ha dichiarato Gazira Babeli, la prima artista-avatar[4]. «Gli avatar […] rimpiazzeranno lo specchio del bagno e affosseranno l’industria cosmetica». ‘Nata’ nel mondo virtuale Second Life (SL) nel 2006, Babeli ha cessato qualsiasi forma di attività nel 2010, senza lasciar trapelare nulla sull’identità (individuale o collettiva) che controllava il suo pupazzo. Questo ha conferito al soggetto, ‘Gaz’, una concretezza inedita, ma l’ha reso al contempo un essere ambiguo, mitologico, sciamanico, un ibrido di carne invisibile e software fuori controllo, un’‘anomalia’ (Patrick Lichty[5]). I suoi interventi in SL deformano i corpi, scatenano tempeste di immagini e terremoti, intrappolano e sanzionano gli spettatori, violentano le tradizionali metafore di corpo, spazio e tempo che sviluppatori con scarsa attitudine al rischio hanno tradotto nel metaverso. «La mia arte consiste nello sperimentare in modo ironico e ‘pop’ con gli aspetti, complementari e spesso contraddittori, di un ‘intero mondo’ che, per quanto abitato da ‘pupazzi’, ospita almeno un milione di persone. Persone reali».

Applicare il termine metaverso a SL, potrebbe sembrare problematico a chi si è imbattuto per la prima volta in questa espressione in relazione ai metaversi fondati su blockchain, o in occasione del roboante annuncio di Mark Zuckerberg, che nell’ottobre 2021 ha comunicato la trasformazione di Facebook in Meta, con i conseguenti e cospicui investimenti verso una fusione tra Internet e realtà virtuale. A dire il vero, come tanti hype tecnologici, il metaverso scintilla di novità ma lascia le mani sporche di vernice a chi si avventuri a toccarlo. L’idea è letteraria, e viene introdotta dall’autore cyberpunk Neal Stephenson nel romanzo Snow Crash (1992). Il metaverso di Stephenson rinfresca il cyberspazio di William Gibson, rimpiazzando i suoi astratti e psichedelici flussi di dati con una realtà immersiva, accessibile tramite un visore di realtà virtuale, uno spazio modellato sul reale (con strade, palazzi e mezzi di locomozione) e percorso da corpi (gli avatar degli utenti). Fonde due tecnologie allora in crescita, ma in due stadi differenti di evoluzione: Internet e realtà virtuale. I primi mondi che concretizzano l’immaginario di Stephenson non sono virtuali, ma primitive simulazioni grafiche accessibili tramite software dedicato, come The Palace (1995) e Active Worlds (1995), o attraverso browser, come Habbo Hotel (2000). Il primo intervento artistico in un metaverso a me noto, Homeport, risale al 1997: uno spazio progettato per The Palace da Lawrence Weiner con il supporto della piattaforma digitale äda ’web, una chat room neutra come un white cube e abitata da alcuni dei celebri Statements dell’artista[6]. Il secondo è Chelsea (1998-2001), la ‘città virtuale per l’arte e l’architettura’ ideata da Miltos Manetas e Andreas Angelidakis in Active Worlds per «fare esperienza del nuovo senso dello spazio che Internet stava introducendo»[7], usata da Manetas per installare il suo floating studio, condurre interviste, organizzare esposizioni, sviluppare estensioni virtuali di mostre reali.

Manetas è una figura centrale per l’arte nei metaversi, avendo affermato con forza la realtà degli spazi virtuali, il legame inscindibile tra avatar e giocatore, la necessità di raccontare la ‘versione estesa della realtà’ che erroneamente chiamiamo videogiochi[8]. Nel corso degli anni Zero, sono queste le istanze che attirano gli artisti verso videogiochi online quali World of Warcraft e Counter Strike, e in mondi virtuali come il già menzionato SL. Quest’ultimo, nato nel 2003 per iniziativa della Linden Lab, compagnia fondata da Philip Rosedale con un debito dichiarato verso il metaverso di Stephenson (e il festival Burning Man), catalizza una vivace community di artisti, a ragione non solo della sua attrattiva (nel 2013 raggiunge quota un milione di utenti attivi) ma anche per la flessibilità con cui si presta a intervenire sullo spazio e sull’avatar. La presenza italiana è consistente, sia per quantità che per qualità. Marco Cadioli, che dal 2003 si dichiara net photographer, immortalando momenti di ‘vita’ in chat grafiche e videogame è riuscito a convertire temporaneamente una presa di posizione artistica in una professione, quando le testate giornalistiche hanno cominciato a commissionargli reportage dal mondo virtuale. Nel 2006, Eva e Franco Mattes inaugurano una serie di ritratti di avatar, stampe su tela realizzate in omaggio a chi investe ingenti risorse creative ed economiche nella costruzione del proprio doppio; per poi proseguire con i Reenactments (2007-2010) e le Synthetic Performances (2009-2010), che investigano peculiarità e contraddizioni delle nozioni di corpo e spazio tradotte dal reale al virtuale. Salvatore Iaconesi e Oriana Persico riportano in vita, in forma di avatar-bot animati da intelligenze artificiali, Franz Kafka, Coco Chanel e Karl Marx (Dead on Second Life, 2008), analizzando quanto «limitazioni linguistiche, caratteristiche dell’avatar, accettazione sociale promuovano standard e stereotipi, più che identità»[9]; Giuseppe Stampone, a sua volta, vi àncora la propria riflessione sull’esperienza neo-dimensionale, l’infiltrazione tra realtà fisica e mondi liquidi, in installazioni ibride come Stargate (a Flavio) (2007) e Territorium Museum (2011).

La vittoria dei social media sulle realtà immersive, proietta sul decennio successivo un cono d’ombra sotto il quale ribollono sviluppi importanti: la nascita e la crescita di esperienze di gaming come Roblox (2006), Minecraft (2011) e Fortnite (2017), che appassionano comunità di milioni di utenti, sollecitano la creatività dei giocatori e li portano a familiarizzare con l’idea di proprietà digitale; lo sviluppo di nuovi standard (WebVR e WebXR), che consentono di fare esperienza della realtà virtuale nel browser, poi implementati in strumenti come Mozilla Hubs (2018); l’emergere dei metaversi fondati su blockchain, ad esempio Decentraland (2015) e Cryptovoxels (2018), che puntano all’interoperabilità (ossia, alla possibilità di muovere avatar e beni da un mondo all’altro) e usano il mercato NFT per il trading di virtual estate e asset digitali; lo sviluppo di dispositivi di realtà virtuale orientati al consumatore, quali l’Oculus Rift (2016) e l’HTC Vive (2016), e la crescente implementazione del VR nel gaming; infine, l’impatto della pandemia nel far percepire gli ambienti digitali come unica via di fuga dallo spazio domestico e unica forma di contatto col mondo.

In questa cornice, trovano continuità le ricerche di alcuni artisti già citati, come Cadioli e Manetas, ma si affiancano anche nuove proposte: le identità fluide e le esplorazioni ambientali di Federica Di Pietrantonio, che si muove nello spazio dei videogiochi come flâneur digitale che attraversa il caos contemporaneo; le live simulation e gli interventi su Hubs di Martina Menegon, abitati da cloni del suo corpo scansionato in 3D; lo studio condotto da Kamilia Kard sulla declinazione degli affetti, dei sentimenti e delle relazioni in rete, che l’ha condotta quest’anno alla realizzazione di Toxic Garden (in corso), una mappa di Roblox che traduce in metafora visiva e spazio abitabile i rapporti tossici in cui precipitano spesso gli utenti assidui degli spazi di comunicazione online, in particolare le giovani generazioni. Lavorando sull’analogia tra tossicità difensiva delle piante e degenerazioni comportamentali, spoglia i visitatori del loro aspetto riconoscibile per attribuirgli un nuovo avatar ‘vegetale’, e usa la danza come dispositivo relazionale in grado di unire una comunità in una riflessione collettiva sull’evoluzione dell’identità in una società costantemente iperconnessa.


[1] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2011.
[2] B. Han, La società della stanchezza, Nottetempo, 2020.
[3] S. Galloway, ID, in No Mercy / No Malice, 30 settembre 2022, <www.profgalloway.com/id/>.
[4] Per questo e i successivi riferimenti, cfr. Gazira Babeli, a cura di D. Quaranta, con testi di M. Gerosa, P. Lichty, D. Quaranta, A. Sondheim, Link Editions, 2011.
[5] P. Lichty, in ibid.
[6] D. Quaranta, Net art 1994-1998. La vicenda di Ädaʼweb, Vita e Pensiero, 2004.
[7] Per un approfondimento sul progetto Chelsea si veda <http://cargocollective.com/manetas/filter/Life/VIRTUAL-WORLDS-CHELSEA-IN-ACTIVE-WORLDS>.
[8] M. Manetas, In My Computer. #1, Link Editions, 2011, p. 41.
[9] Per saperne di più su Dead on Second Life, si veda <www.artisopensource.net/dosl/main.html>.