Cerca
Close this search box.

Vitalità dell’archivio
Dalla fine degli anni Zero a oggi

Eugenio Tibaldi, “Architettura dell’isolamento 01”, 2021, materiali vari, suono, luce, dimensioni ambientali, courtesy l’artista e associazione culturale Dello Scompiglio, foto Lorenzo Morandi

Questo articolo è disponibile anche in: English

Verso la fine degli anni Zero, una delle tendenze dominanti nella scena italiana, condivisa anche con molte scene straniere, era l’uso dell’archivio come dispositivo poetico. Questa ondata, quasi totalizzante in quel periodo, ha prodotto molti fenomeni che poi sono andati scemando, lasciando sul campo solo opere e percorsi capaci di trovare una vera sintesi estetica tra fonti di ricerca ed esito artistico. Aspetto, questo, che pone una serie di questioni e di prospettive sull’utilizzo degli archivi. Senza volersi addentrare nella storia dell’arte, dove gli esempi sono molteplici, di recente l’uso dell’archivio è stato uno degli elementi cardine nella configurazione delle linee di ricerca di molti artisti. Lo sguardo verso il passato, la raccolta, la collezione, gli schedari, gli inventari, l’accumulo, la classificazione, la catalogazione, così come l’appropriazione, la ripresentazione o il montaggio, hanno definito gran parte delle pratiche artistiche contemporanee. L’urgenza di concentrarsi sul recupero della memoria, di (ri)scrivere la Storia, personale o collettiva, di praticare un’arte della ripetizione in senso lacaniano e di costruire nuove narrazioni, si è intrecciata con i tentativi disperati di sistematizzazione del mondo, la ricerca identitaria come gesto politico o con «una messa in discussione del ruolo della tecnologia nella formazione e nella gestione degli archivi e dell’informazione in genere»[1].Tra i casi più noti, l’album di Hanne Darboven (1880-1983), l’Atlante di Gerhard Richter (1962-2013), il museo fittizio di Marcel Broodthaers (1968), lo schedario di Hans Haacke (1971). Lo stesso furore archivistico si impossessava di artisti come Joseph Cornell, Hans-Peter Feldmann, Claes Oldenburg e, successivamente, Christian Boltanski, Dan Graham, On Kawara, Bernd e Hilla Becher, Thomas Hirschhorn, Kader Attia, Sam Durant, Tacita Dean, solo per citare alcuni tra gli esempi più rilevanti e coerenti del panorama internazionale. Sullo stesso piano, l’analisi teorica ha seguito questo impulso verso l’archivio, provando a definirlo, inquadrarlo o interpretarlo quale strumento critico e poetico. Non possiamo dimenticare il saggio An Archival Impulse[2],in cui Hal Foster evidenzia come, a partire dagli anni Settanta, l’arte abbia vissuto un interesse rinnovato nei confronti dell’archivio come metodologia e mezzo per esplorare la dimensione stratificata della Storia e della memoria. Nel contesto italiano, Elio Grazioli, nel libro La collezione come forma d’arte[3], analizza le dinamiche e i meccanismi del collezionare, raccogliere, classificare, accumulare, riassemblare e rimontare, mentre Cristina Baldacci, in Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea[4],volge lo sguardo verso la natura politica dell’archiviazione come azione e dell’archivio come dispositivo. Questa ‘ossessione’ per l’archivio si riscontra anche nella costruzione e nell’ideazione di tutta una serie di mostre: When Attitudes Become Form di Harald Szeemann alla Kunsthalle diBerna (1969), Information di Kynaston McShine al Museum of Modern Art di New York (1970), Playlist diNicolas Bourriaud al Palais de Tokyo di Parigi (2004), Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art di Okwui Enwezor all’International Center of Photography di New York (2008), Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? di Georges Didi-Huberman alMuseo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid (2010)[5]. Ricordiamo inoltre, tra le mostre che hanno approfondito l’archivio come elemento di indagine, Disobedience Archive, progettata nel 2005 da Marco Scotini e allestita in varie sedi europee e americane, Interrupted Histories curata da Zdenka Badovinac a Lubiana, Ground Lost del collettivo WHW a Graz (2007), le biennali di Massimiliano Gioni a Gwangju (2010) e Venezia (2013) o la Documenta di Carolyn Christov-Bakargiev (2013).

Rimanendo nell’ambito delle esposizioni, ma volendo addentrarci nello specifico dei contesti e degli artisti italiani, dobbiamo necessariamente tornare indietro a dieci anni fa. Nel 2012, una mostra fondamentale come La storia che non ho vissuto (testimone indiretto), curata da Marcella Beccaria al Castello di Rivoli, faceva il punto sulla situazione di una generazione di artisti italiani che individuava nella storia d’Italia un imprescindibile oggetto di analisi. Le opere di Francesco Arena, Rossella Biscotti, Patrizio Di Massimo, Flavio Favelli, Eva Frapiccini, goldiechiari e Seb Patane, si concentravano su alcuni tra i momenti che hanno segnato l’Italia nel Novecento. Le ambizioni colonialiste, gli anni di piombo, le stragi, i poteri oscuri, la travagliata relazione che legava il presente al passato e il processo di ricostruzione e interpretazione di quest’ultimo, affioravano attraverso i documenti e le tracce rimaste, per ricostruire un periodo che nessuno di loro aveva conosciuto. In questo caso, l’archivio diventava strumento di ricerca visiva, bibliografica, e anche di scavo nelle emeroteche, per un lavoro di riscrittura della memoria collettiva e identitaria della storia recente. La stessa intenzionalità era già manifesta nei lavori The Inauguration of the Empire (2005),in cui Rossella Biscotti sintetizzava le utopie espansionistiche dell’Italia[6], nel reportage testuale e fotografico Narciso nelle colonie (2013)[7]di Vincenzo Latronico e Armin Linke, o nel progetto Ritorno al futuro (2010-2011) di Alessandro Ceresoli.

Un’impostazione archeologica del lavoro che nel corso di questi dieci anni, nella maggior parte dei casi, si è affievolita, quando non completamente dispersa, per esaurimento, con rare eccezioni, come nel caso degli studi anticoloniali e di memoria, e delle pratiche storiografiche e archivistiche di Alessandra Ferrini. Il rischio di rimanere intrappolati nel ‘finora’, nella prospettiva storica che non osserva il presente, senza riuscire ad allontanare i fantasmi della tradizione, la chiara possibilità che quelli che credevamo documenti e prove della realtà fossero solo materiali artefatti o l’azzardo nel compiere un’ermeneutica in cui l’interpretazione dei contenuti soffriva spesso rispetto alla prevalenza della restituzione formale, ha provocato un’ambiguità che ancora oggi non è stata completamente risolta. A questo proposito risulta interessante la riflessione di Lucrezia Longobardi, che afferma come «nei fatti, l’arte di questo periodo rappresenterà principalmente un lavoro sul passato destinato a rimanere nel passato, un gesto puramente archeologico di rivisitazione del proprio corpo pubblico, ancora non preoccupata di reali ricadute sul presente. L’unica vera ricaduta (importantissima) sarà quella del fenomeno nel suo insieme, il cui valore fu di pulire le radici, di renderle di nuovo capaci di ossigenare il ragionamento che di lì a poco sarebbe tornato a guidare l’arte italiana verso il presente»[8].

Tuttavia, nel panorama italiano, l’archivio come dispositivo non si esaurisce nella ricostruzione archeologica dell’identità collettiva, ma guarda spesso e volentieri a quelle microstorie di individui che hanno deciso di affrontare la propria autobiografia quale strumento e ambito di riferimento. In questo senso, le ricerche sviluppate attraverso gli album di famiglia, i diari, il proprio vissuto o gli oggetti privati, sono diventate una necessità di cui possiamo trovare esempio nei lavori di Moira Ricci. Emblematica rimane ancora la sua serie 20.12.53 – 10.08.04, realizzata tra il 2004 e il 2009, in cui l’artista si intrufolava nelle fotografie del passato sulle tracce della propria madre, le cui date di nascita e morte davano il titolo all’opera e indicavano il periodo temporale coperto dalle immagini. L’artista rielaborava digitalmente vecchie fotografie della madre, accanto alla quale si inseriva e si rivolgeva con lo sguardo, pur rimanendo un personaggio esterno. Un aspetto autobiografico sottolineato anche nel progetto Un certo numero di cose / A Certain Number of Things di Cesare Pietroiusti al MAMbo di Bologna (2019), dove il pubblico era invitato a condividere con lui un orizzonte simbolico culturale, chiamando lo spettatore a vedersi riflesso in un anno specifico per rielaborare un’esperienza collettiva. Il legame con la tradizione vissuta è presente nelle ricerche di Elisa Giardina Papa, ad esempio nel lavoro “U Scantu”: A Disorderly Tale (2022) presentato alla Biennale di Venezia, in cui la storia principale è inframezzata da motivi testuali e visivi attinti da una raccolta di favole siciliane del XIX secolo, e dai frammentari ricordi d’infanzia dell’artista, riguardanti canzoni e storie che le raccontava sua nonna. In questa linea, Dario Picariello, nella serie Cicli, avviata nel 2020 e fortemente legata a esperienze autobiografiche, prende spunto dalle tradizioni dei canti popolari meridionali: un’infanzia trascorsa con i nonni paterni, braccianti per tutta la vita; un bagaglio visivo e sonoro fatto di lavoro della terra, amata e odiata, canzoni sussurrate, racconti di un mondo che solo apparentemente non esiste più.

L’archivio trova ulteriori declinazioni come pretesto narrativo, progettuale, o in quanto elemento di aggregazione, nei lavori sui luoghi come archivi della memoria di Rosa Barba e, in particolare, nel film From Source to Poem (2016), una narrazione audiovisiva densamente stratificata, realizzato nel centro di conservazione audio-video della Library of Congress a Culpeper, in Virginia, il più grande archivio multimediale al mondo. Mauro Ceolin, in ContemporaryNaturalism (2006), tenta di tracciare il confine del concetto di Natura, cercando così di misurarne le applicazioni e la valenza all’interno di una società composta sempre più da dimensioni virtuali, attraverso lo studio e l’utilizzo dei new media e delle loro potenzialità. Gian Maria Tosatti, nel lavoro 2_Estate (2014), seconda tappa di Sette stagioni dello spirito (2013-2016), adopera l’archivio risemantizzando la prima anagrafe italiana, all’epoca abbandonata, ma piena di tutti i documenti dei cittadini nati a Napoli dal 1809 a oggi; un raccordo reale e metaforico che volge lo sguardo verso l’archeologia incerta e irrequieta del futuro. Eugenio Tibaldi, in Architetture dell’isolamento (2021), si interroga e indaga sull’accumulo di oggetti, di ogni tipologia e provenienza, completamente impolverati all’interno di una casa, collezionati in modo ossessivo dalla persona che ha trascorso gli ultimi dieci anni della propria vita confinata in quello spazio. Silvia Camporesi presenta, con Atlas Italiae (2016), un viaggio nell’Italia abbandonata e in via di sparizione, fotografata come realtà fantasmatica, rappresentando le tracce di un passato che stenta a scomparire definitivamente. Nel caso di Sergio Racanati, c’è invece un interesse per le scienze sociali, gli eventi storici, la cultura popolare e la cultura di massa, attraverso una lente quasi etnografica. Questa modalità l’ha portato a costruire un gruppo organico di opere, volto a rappresentare un modello di archivio comedispositivo che negozia, contesta e avvalora il potere sociale. Un esempio concreto lo troviamo nel film realizzato per la ruruHaus di Documenta 15 (2022), composto da situazioni ibride attraverso una complessa matrice di appropriazione, scoperta di luoghi, frammenti e soggettività umane. Roberto Fassone in And We Thought (2022), sperimenta l’imprevisto nel machine learning, in analogia con le allucinazioni psichedeliche, per esplorare i meccanismi della creatività e della coscienza attraverso l’addestramento di un’intelligenza artificiale, avvalendosi di un dataset di migliaia di racconti di trip report provenienti dall’archivio Shroomery.org.

Se negli ultimi due decenni constatiamo, ancora una volta nella storia dell’arte, un’esponenziale crescita di interesse per l’archivio, bisognerà vedere se nei prossimi anni questo potrà essere ancora strumento di analisi e se potrà inserirsi nelle nuove esigenze, indirizzi di ricerca e problematiche che stanno emergendo nell’attualità. Gli aspetti economici, culturali, sociali, ecologici e di genere, le minoranze etniche, le periferie dell’Occidente, i processi comunitari, insieme a uno sguardo che predilige il presente e tende a guardare verso il futuro, potrebbero creare una rottura netta con un passato che viene sistematicamente colpevolizzato, se non rifiutato e, di conseguenza, un allontanamento dall’archivio come lo abbiamo conosciuto finora. Parallelamente, l’ingente quantità di informazione, reale e virtuale, che ci circonda, dovrà essere sistematizzata, mettendo sotto inchiesta i modi in cui i dati vengono registrati, accumulati o archiviati in «database digitali e network informatici in grado di dar conto di una molteplicità reticolare, eterogenea e dispersa, ad anelli aperti, con durate variabili»[9]. Questo potrebbe essere l’ennesimo rinnovamento dell’archivio come dispositivo, che non sembra esaurire la sua capacità per incuriosire, attirare o richiamare lo sguardo degli artisti.


[1] B. Niessen, L’archivio nell’arte contemporanea: una conversazione con Valentina Tanni, 4 novembre 2019, <https://www.che-fare.com/almanacco/politiche/archivi/archivio-arte-valentina-tanni/>.

[2] H. Foster, An Archival Impulse, «October», The MIT Press, 2004, 110, pp. 3-22.

[3] E. Grazioli, La collezione come forma d’arte, Johan & Levi, 2012.

[4] C. Baldacci, Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea, Johan & Levi, 2016.

[5] S. Taccone, L’archivio come koinè. L’ossessione dell’arte contemporanea, «OperaViva Magazine», 24 agosto 2017, <https://operavivamagazine.org/larchivio-come-koine/>.

[6] A. Ferrini, S. Frangi, La responsabilità di un impero, «Flash Art», 1 novembre 2017, <https://flash—art.it/article/la-responsabilita-di-un-impero/>.

[7] V. Latronico, A. Linke, Narciso nelle colonie: un altro viaggio in Etiopia, Quodlibet, Humboldt, 2013.

[8] L. Longobardi, Una storia finita. Il primo ventennio di arte italiana del XXI secolo, «Quaderni d’arte italiana», Treccani, 2022, 1.

[9] D. Amico, Intervista a Marco Scotini: l’archivio come dispositivo tra estetica e pedagogia, «MyTemplArt», <http://news.mytemplart.com/it/intervista-marco-scotini-larchivio-come-dispositivo-tra-estetica-e-pedagogia/>.