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Vent’anni di arte italiana

Andrea Galvani, PLANETARY MOTION (KEPLER’S THIRD LAW), 2019-2020, neon 6500K, vetro soffiato bianco, struttura metallica, vernice, elettricità, 34 x 82 x 7 cm ca., courtesy l’artista e Azienda Speciale Palaexpo / Mattatoio

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Forum a tre voci con Andrea Mastrovito, Margherita Moscardini ed Eugenio Tibaldi

a cura di Nicolas Ballario

Andrea Mastrovito: È singolare che io, Eugenio e Margherita ci siamo incontrati una volta sola. Con Margherita a New York e con Eugenio qualche mese fa, in occasione dell’inaugurazione della Biennale di Venezia. Eppure i nostri nomi sono ricorsi, anche associati tra loro, diverse volte nelle cronache dell’arte degli ultimi quindici anni. È un dato da considerare. Alcuni fenomeni, significativi a livello di contenuti, forza e forma, nel nostro Paese possono non sfiorarsi affatto, pur essendo contemporanei. E questa anomalia ha accompagnato il sistema dell’arte italiano anche prima del Duemila. Probabilmente dipende da una dispersione culturale, che fa dell’Italia una ‘repubblica dei comuni’, divisa in mille piccoli sistemi, ognuno estremamente ricco. Dalla provincia – da Padova – è emerso Maurizio Cattelan, da Treviso Nico Vascellari: nomi importanti, che si aggiungono a quelli espressi dalle entità dicotomiche di Roma e Milano. Ne risulta un panorama ricco, difficile da decodificare, perché fatto di autori ancora nel pieno della loro attività, il cui lavoro si sta trasformando e raffinando. In questa conversazione, che mira a rintracciare qualche traiettoria significativa nella storia di questi anni, però, si possono individuare tipologie particolari di ricerca artistica e, forse, anche ‘zone’ culturali abbastanza evidenti. Penso all’impronta garuttiana che ha segnato buona parte del primo decennio di questo secolo, poi svanita completamente, lasciando spazio a percorsi più robusti, già avviati all’inizio dell’ultimo ventennio, che hanno fatto emergere il loro peso nella distanza, quando le mode sono scemate. Mi viene in mente, ad esempio, la ricerca di Marinella Senatore, del già citato Vascellari, dei Masbedo, di Arcangelo Sassolino, Alice Cattaneo, Gian Maria Tosatti, o di artisti un po’ più grandi, Adrian Paci e tanti altri. È uno sguardo, il mio, che si è formato dall’interno del sistema, considerando che ho partecipato a diverse mostre ‘di impostazione’, organizzate tra gli anni Zero e Dieci.

Margherita Moscardini: Io non credo di essere stata la migliore osservatrice di quello che è successo sul territorio italiano negli ultimi vent’anni, però faccio veramente fatica a riflettere in termini ‘territoriali’ a fronte di una prospettiva globale sempre più connessa. Mi viene più semplice ricordare lavori e mostre che sono stati importanti per me o, al limite, parlare di cosa secondo me è mancato rispetto ad altri contesti.

Eugenio Tibaldi: Io, invece, mi ritengo un discreto osservatore, anche in virtù di una posizione marginale che ho continuato ad avere, in quanto privo, nel mio percorso artistico, di un luogo che mi connotasse e di un’origine. E, sinceramente, mi pare siano emerse linee guida importanti nell’arte che si è andata sviluppando dopo il Duemila: fenomeni che hanno caratterizzato e caratterizzeranno la descrizione di questi anni nell’arte italiana. Un aspetto che mi è sempre saltato all’occhio è che la nostra generazione ha perso il valore dell’ironia. Era un elemento molto presente negli anni Novanta, nella potenza della ricerca di Vedovamazzei, Cattelan, Piero Golia. Se dell’ironia c’è, nei nostri lavori – perlomeno in quelli più significativi –, è soltanto indiretta e, quasi sempre, amara, come nell’analisi politica e sociale portata avanti da Francesco Arena o Rossella Biscotti. Un altro dato interessante è aver compreso – anche involontariamente – che rappresentiamo una sorta di decadenza. Questo non significa che il nostro lavoro non abbia forza per significato e impatto, ma l’orizzonte in cui si colloca è crepuscolare. Si pensi al meraviglioso The Column di Adrian Paci. Quel che abbiamo potuto vedere sul piano internazionale ci ha mostrato che il ruolo dell’arte italiana non è aggredire il concetto per via diretta, ma creare superfetazioni di pensiero generate da una familiarità con lo studio e la conoscenza dei fenomeni, che non va d’accordo con la spasmodica necessità di divorarli. Ma più che parlare delle singole mostre o opere – la cui reale rilevanza sarà compresa, forse, tra qualche anno –, è stimolante guardare alla scena italiana recente con l’obiettivo di capire cosa si stia cercando di dire, anche senza comunicare in modo letterale. A tal proposito, è interessante quello che dice Andrea, ci conosciamo tutti abbastanza poco direttamente. Ma è anche vero che la Storia se ne frega di questi aspetti, quando troverà delle convergenze ci unirà senza troppi problemi, e secondo me queste convergenze ci sono.

AM: A questo proposito Eugenio, ho sempre avuto una particolare attenzione nei confronti della ciclicità, della ripetizione; ho cominciato il mio percorso andando a visitare una mostra al PAC di Milano nel 1998, Due o tre cose che so di loro…, il cui sottotitolo recitava: Dall’euforia alla crisi: giovani artisti a Milano negli anni Ottanta. Se lo trasliamo all’oggi, potremmo ritenerlo perfettamente attuale. Abbiamo vissuto un inizio di secolo caratterizzato dalla caduta delle Torri gemelle, però l’Italia ha continuato, complice il periodo berlusconiano, a gozzovigliare, a vivere in una sorta di euforia, almeno fino al 2008, quando, con la crisi economica, è cambiato anche il lavoro degli artisti. Posso registrarlo sicuramente nelle mie opere, ma credo sia stato un effetto abbastanza generalizzato, che poi si è declinato in una forma piuttosto specifica nell’arte italiana. E infatti oggi, nel 2022, mi sento di affermare, senza mezzi termini, che l’arte italiana sia del tutto fuori dal contesto internazionale. Il motivo è semplice: oggi l’arte mondiale è pilotata, come succede spesso, da un unico pensiero, afferente alle tematiche etniche, di genere o di orientamento sessuale, che in Italia vengono affrontate solo marginalmente dal sistema dell’arte e dalla realtà quotidiana. Noi, come dicevi tu, abbiamo un altro modo di approcciare questo quadro di temi sociali e civili. Abbiamo un’altra prospettiva. Ne conosciamo bene le caratteristiche in base ai loro ricorsi storici. Li teniamo al margine del nostro cono ottico senza perderli del tutto di vista, ma, in sostanza, ci occupiamo di tutt’altro. Questo percorrere una prospettiva storica parallela al mainstream culturale di stampo americano, sta influendo in modo sostanziale sulla nostra marginalità. Non voglio dire che non ci siano stati artisti che abbiano narrato la storia degli ultimi anni; mi vengono in mente Francesco Arena, Rossella Biscotti, lo stesso Gian Maria Tosatti con la sua opera al Padiglione Italia dell’ultima Biennale, che ha raccontato l’Italia degli anni passati usandola come metafora di questo momento. Ma è evidente come sia proprio il nostro sguardo puntato alla ciclicità della Storia, e non allo scandalo del presente, a determinare la specificità con cui la nostra scena cerca di trovare una soluzione all’enigma del futuro.

MM: Io continuo a fare fatica nel riconoscere un’arte che possiamo definire italiana. D’altra parte viviamo in un periodo in cui tutto è presente, e la Storia la stiamo facendo. La cronaca non ha il tempo di esistere come cronaca perché diventa subito Storia. Probabilmente la mancanza di ironia di cui parlava Eugenio poco fa, o la crisi a cui faceva riferimento Andrea, sono il prodotto di una incapacità – ma dovrei parlare per me – di soffrire nel modo adeguato, diciamo, il nostro tempo.

ET: Mi ritrovo molto in ciò che hai appena detto, in questa sorta di incapacità di soffrire fino in fondo il proprio tempo. Infatti, rispetto al titolo della mostra menzionata da Andrea, per la nostra generazione il sottotitolo potrebbe essere ‘dalla crisi alla sistematizzazione della crisi’. Siamo nati in un momento di crisi, e riusciamo a sopravvivere in condizioni ormai sistemiche di crisi. Siamo arrivati quando era già finito lo champagne, abbiamo trovato i coriandoli a terra e gli invitati pronti a tornare a casa. C’è una specie di malinconia che pervade le nostre ricerche, una disillusione rispetto a qualsiasi post-utopia. Non è un caso che si cerchi di incasellare il lavoro degli artisti fra il 2000 e il 2022 in macro-schemi del passato, sebbene questi stessi artisti vivano all’interno di una grande dicotomia: siamo l’ultima generazione che ha studiato sui libri, ma abbiamo iniziato a lavorare direttamente con Internet; abbiamo dovuto sopportare l’idea che l’informazione superasse di gran lunga la formazione, quindi che la quantità e la velocità delle notizie sopravanzasse la capacità di comprenderle. Questo crea sfalsamento, disillusione. Vettor Pisani una sera mi disse una cosa bellissima, che mi fece molto pensare: «ma che volete fare voi dell’arte contemporanea, è come un circense che entra nell’arena facendo un salto mortale e il pubblico che lo guarda ne fa due». Lui parlava del mio tempo, non del suo. «È molto complicato oggi pensare allo stupore dell’arte»; credo intendesse che la spettacolarizzazione è arrivata a un livello tale per cui l’arte non può più essere spettacolare, o meglio, non più alle nostre latitudini. E accettare di rinunciare all’aspetto spettacolare dell’arte è un’ammissione molto complicata.

MM: Io non ho mai creduto che le arti debbano essere spettacolari. Penso di aver maturato una necessità di riconoscere nell’arte non soltanto un commento alla realtà ma la capacità di agire nel presente e scardinare dei paradigmi, condizionando la dimensione sensibile che viviamo. Spesso si ha l’impressione di fare parte di un circo, dell’intrattenimento. Potrebbe essere importante invece provare a resuscitare il mistero, la scorrettezza politica, la cattiveria…

AM: Hai ragione, ma ritengo che, proprio per uscire dalla ‘versione accreditata’ e andare incontro alla realtà, all’inizio del secondo decennio di questo secolo alcuni artisti della nostra generazione abbiano cominciato a lavorare fuori dallo studio, cercando direttamente sul territorio, all’interno della geografia sociale, quello che li interessava. Noi tre, ad esempio, senza che ci fossimo mai parlati, ci siamo mossi in questa direzione: di Margherita mi viene in mente il progetto The Fountains of Za’atari (2015-2019), di Eugenio Tabula rasa del 2008, a Manifesta 7, o Informal Poker Room del 2015, alla Biennale dell’Avana. E anche tanti altri lo hanno fatto. Il motivo è che i mezzi di maggiore omologazione mediatico-culturale non riescono a scendere fino a queste profondità. Internet ancora non ci riesce. L’umanità, il contatto con le persone, sono territori, per ora, salvi in tal senso. Questo ha comportato la nostra scelta di volare al di sotto dei radar che intercettano le parole d’ordine di una storia del presente che, come dicevi tu, è un prodotto confezionato. Abbiamo inserito il lavoro tra le pieghe della realtà, costruendolo in modo molto articolato attraverso il contributo delle persone, e ridefinendo i suoi spazi. Siamo andati oltre il white cube della galleria per approdare nei territori, nelle strade, dando corpo a una prospettiva più allargata di scambio tra artista e pubblico, caratterizzando così l’arte del nostro tempo. È forse questo il senso della decadenza di cui parlava Eugenio. Agli inizi degli anni Duemila la ‘temperatura’, invece, era tutt’altra, c’era un’euforia grandissima, perlomeno a Milano, a livello commerciale, perché i giovani avevano la possibilità di lavorare con molte gallerie di ottimo livello, avevano mercato, e soprattutto venivano coinvolti in mostre museali generazionali, per esempio le ‘biennali’ giovanili organizzate da Assab One (2002 e 2004), Apocalittici e integrati al MAXXI (2007), Nessuna paura al Pecci di Prato, sempre nel 2007, che raccontavano la generazione emersa nei precedenti cinque-sei anni. Mi sembra che questo non si sia più ripetuto. Con la crisi del 2008, il lavoro degli artisti, allora spettacolare – ricordo bene un’opera di Luca Francesconi, che non era spettacolare in sé ma già nel titolo, Abbassare le montagne (2005), dichiarava volontà di potenza e capacità di rimodellare il mondo – si è notevolmente ridimensionato. Oggi parliamo più di malinconia e decadenza che di potenza. Questo passaggio dall’euforia alla crisi è diventato endemico ma tutte le generazioni lo hanno vissuto e lo vivranno. Senz’altro è venuto meno quel rapporto piramidale tra artista e pubblico, così come il potere delle gallerie, a favore dei curatori.

ET: C’è da registrare un’ulteriore linea rilevante, legata all’indirizzo garuttiano di cui parlavamo all’inizio. A un certo punto, per appartenere a una scena internazionale, ci è stato chiesto di scarnificare il nostro lavoro e distruggere ogni immaginario per arrivare secchi al concetto, in maniera molto diretta, sacrificando un aspetto importante per noi italiani, la figurazione; io ho deciso di non accettare questo compromesso e non sacrificare l’idea di una costruzione estetica importante in relazione al mio lavoro. Per quanto assurdo, perché per anni ho utilizzato materiali che sembravano scarti, in realtà ho sempre costruito l’opera come un enorme dipinto, perché vengo da lì e ritengo che questa impostazione sia importante per poter fare il ritratto di un luogo o di una dinamica. Tutti noi, tutti gli artisti italiani che decidono di essere presenti sulla scena nazionale prima che su quella internazionale, non possono non fare i conti con una idea di figurazione radicale e altissima. Detto ciò, è vero che la crisi ha avuto un ruolo importante e che il crollo dell’idea di spettacolarizzazione ci ha coinvolti tutti, ma non esiste una rinuncia; nel momento in cui ci fregiamo del nome di artisti, dobbiamo ricordarci ciò che questo comporta, ovvero fare cose ‘ad arte’, ‘artefatti’. Quindi la pretesa di un legame diretto, non mediato, con il reale, questa tendenza a un’equazione semplice, quasi giornalistica, non è cosa che ci riguardi. Noi non produciamo notizie, non scriviamo testi o trattati, creiamo immagini autonome, che iniziano a esistere esattamente nello sguardo del pubblico, innescando un processo dialettico che produce un significato. Ma quelle immagini non sono date una volta per tutte. Sono oggetti dinamici, che rimangono nella nostra testa e cambiano assieme a noi, mutano nel tempo. Questo dimostra che le nostre opere non sono oggetti di consumo immediato, non sono legate al tempo della cronaca, ma soprattutto non agiscono al livello sottile del presente. Scendono piuttosto in verticale, in una stratificazione di piani che permette loro di radicarsi non nella dimensione fugace del tempo, ma in quella profonda dell’essere. Questo vuol dire che dobbiamo confrontarci con qualcosa che ha una durata e una concretezza maggiore del nostro esistere e del nostro essere contemporanei e, soprattutto, mette in secondo piano le pressioni delle quotazioni di mercato esagerate. Tale consapevolezza, che nel nostro Paese non è di moda, ma è radicata (anche in un certo scetticismo del mercato stesso), ci permette ancora di sbagliare con grande serenità, restituendoci una libertà che altrove è molto più difficile mantenere, perché il meccanismo di difesa dell’artista fa sì che debba esser sempre tutto ‘opera’, tutto finito, tutto eccezionale. Riguardando il mio lavoro, ma anche quello di altri artisti, constato spesso che non è tutto ‘opera’, ma neanche tutto interessante; ci sono flussi con alti e bassi che sono comunque funzionali per il lavoro a venire. Questi processi necessitano di una serenità rispetto ai tempi, che la contemporaneità impone o sembra imporre.

MM: Io credo che gli artisti debbano rispondere, ciascuno con i propri mezzi, alle urgenze del presente. Per fare questo può essere necessario costruire e proteggere un proprio tempo, dentro cui sperare di offrire visioni e concepire dispositivi capaci di interferire nei contesti a cui l’artista si riferisce. Le arti sono un progetto molto più grande di quanto il mercato possa contenere. Non dovrebbero neanche avere un valore economico, di scambio, ma solo d’uso. Ed è in questa direzione che è interessante guardare.

AM: Condivido il pensiero sulla natura dell’opera d’arte anche se sono convinto che il mercato abbia un peso determinante, lo ha sempre avuto e lo avrà sempre; se non è disposto a credere nell’artista e nell’opera, difficilmente l’artista andrà avanti. Ma non perché si debba a tutti i costi dipendere dai collezionisti, dalle istituzioni o dalle gallerie; mi sembra piuttosto che l’artista viva del confronto con questi soggetti e, soprattutto, con gli altri artisti. E in Italia questo aspetto manca moltissimo; gli artisti italiani hanno smesso di scrivere, di parlare. Non dico di essere intellettuali, perché l’artista può essere anche ‘stupido come un pittore’ (citando i francesi di fine Ottocento); però il fatto di non confrontarsi è stato davvero un problema. Per quanto riguarda il ruolo delle istituzioni, non si può negare che l’Italian Council sia stato fondamentale, e anche il premio New York che, come nel mio caso, è stato un volano per molti. A New York mi sono reso conto di aspetti che dall’Italia non sono visibili, ma soprattutto ho incontrato altri artisti italiani che conoscevo appena o soltanto di nome, Andrea Galvani, Gian Maria Tosatti, Luisa Rabbia, Gabriele Picco, Giorgio Andreotta Calò, e tanti altri, che per l’istinto di comunità che si vive quando si sta all’estero, avevano uno spirito di confronto mancante in Italia. Anche la Quadriennale ha cominciato a fare qualcosa. Il fatto che siamo qui a confrontarci lo testimonia. Questi interventi rendono l’Italia un po’ più simile agli altri Paesi, che sponsorizzano moltissimo i propri artisti. Ma per tornare all’individuazione di momenti importanti, vorrei provare un discorso inverso. Attualmente alla GAMeC di Bergamo è allestita una mostra antologica su Christian Frosi, a dieci anni dal suo ritiro. È una operazione molto discussa, ma estremamente coraggiosa. In un certo senso è una mostra sul fallimento di una determinata idea di fare arte. Ritengo che la GAMeC sia il museo italiano che ha lavorato meglio ultimamente, sicuramente dalla pandemia in poi, permettendosi di poter realizzare anche un progetto che fa un ritratto ‘in chiaroscuro’ dell’arte italiana, rivelando le difficoltà, le problematiche che hanno caratterizzato gli anni del nuovo secolo, che sono alla base della chiusura in sé stesso del nostro sistema nazionale e della mancanza di un’eco internazionale.

MM: Sull’individuazione di momenti cardine di questi vent’anni, più che di mostre si può parlare di opere che hanno fatto la differenza. L’immagine dei bambini impiccati di Maurizio Cattelan è una di queste. Anche L.O.V.E. in Piazza Affari a Milano ed All a Palazzo Grassi a Venezia. E poi il lavoro di Rossella Biscotti per la Biennale di Venezia del 2013 (I Dreamt that You Changed Into a Cat… Gatto… ha ha ha), The School of Narrative Dance di Marinella Senatore, Legenda di Eva Marisaldi… Se devo pensare al territorio italiano, è più semplice dire che cosa mi pare sia mancato. Ad esempio, operazioni e pratiche artistiche come quelle di Yael Bartana, Forensic Architecture, Teresa Margolles, Laura Kurgan. O Francis Alÿs. Il desiderio di interferire con efficacia nel presente mi pare sia stato assente da queste parti.

ET: Concludo con una provocazione. Secondo te sono mancati quei lavori o la visibilità che hanno avuto? Perché, pensando all’arte italiana, opere incredibili non ne hanno avuta alcuna a livello internazionale. La ricerca sull’incompiuto di Alterazioni Video, per esempio, o Itavia Aerolinee di Flavio Favelli. La geografia ha contato molto negli ultimi vent’anni, e la nostra ‘geografia non geografia’ non ha avuto una posizione di punta; ma questo non significa nulla rispetto ai lavori che sono stati fatti.