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Archeologia di una storia non scritta
L’opera d’arte come reperto del futuro

Alessandro Biggio, Sénne, installation view, CARTEC Cagliari, 2018, photo Giorgio Marturana

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In anni abbastanza recenti, ha preso avvio in Italia un dibattito sulle possibili confluenze tra arte contemporanea e archeologia, stimolato dalle occasioni di incontro tra artisti e patrimonio archeologico, sia nelle fasi di ricerca e produzione, sia in occasioni espositive. Nel contributo L’artista come archeologo. Uno scavo nell’arte italiana del XXI secolo[1], Massimo Maiorino offre una prima ricognizione di questa tendenza, portando vari esempi di pratiche e rintracciando in ambito anglosassone una prima riflessione sul tema, in particolare negli scritti dell’archeologo Colin Renfrew, che si è interrogato sulle ‘visioni parallele’ tra artisti e archeologi[2]. Tuttavia, le considerazioni di Maiorino e Renfrew insistono su una possibile sovrapposizione di metodo: gli artisti ‘scavano’ come gli archeologi, recuperano tracce del passato e le (de)contestualizzano in un discorso poetico ed estetico. Cosa succede invece quando gli autori ‘simulano’ le tracce da consegnare alla Storia, in forma di opere d’arte che appaiono come reperti di un’epoca indefinita, ma anche monito di un presente in pericolo?

Una prima direzione, in stile kolossal, di questo approccio è stata offerta da Damien Hirst, con la mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable, a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, nel 2017. Uno sforzo muscolare su larga scala, con la produzione di opere di grandi dimensioni legate da una precisa narrazione: è il 2008 e nell’Oceano Pacifico viene rinvenuto il relitto di una nave naufragata. Al suo interno, beni sontuosi raccontano la parabola di Cif Amotan II, ex schiavo vissuto ad Antiochia tra I e II secolo d.C., riuscito, dopo essere stato affrancato, ad accumulare immense ricchezze. L’esposizione diventa quindi un percorso tra reperti originali e copie museali, raccontati nella propria specificità, che restituiscono la storia di questa eccezionale scoperta, avvalorata dalla documentazione fotografica dei ritrovamenti sommersi. Peccato che questa non sia mai avvenuta, e che i tesori del titolo siano creazioni dell’artista di Bristol, manipolati per sembrare oggetti preziosi ritrovati nelle profondità marine, con tanto di escrescenze coralline. Statue dai rimandi classici si alternano a icone contemporanee (Mickey Mouse, i Transformers) che contribuiscono a creare un senso di spaesamento temporale e a sollevare una domanda: qual è la civiltà da cui provengono i resti che stiamo osservando? L’operazione di Hirst, per quanto controversa, pone l’accento su almeno due aspetti: la suggestione della fiction narrativa, che plasma l’immaginario prima della materia; l’ambiguità temporale, che si traduce in ambiguità formale ed estetica, soprattutto nell’utilizzo del frammento e di espedienti – quali appunto le concrezioni – che suggeriscono l’idea di un passaggio del tempo in realtà mai avvenuto. Non è la fascinazione delle rovine del passato a fare da fulcro quanto, piuttosto, lo sguardo ai prodotti della nostra civiltà, che possono tramutarsi in reperto se proiettati in un futuro neanche troppo lontano[3]. Il punto non è quindi cosa ci abbia lasciato il passato, ma cosa stiamo lasciando al futuro.

Esempi di ricerche che si interrogano su questi temi possono essere rintracciati nell’opera di Emilija Škarnulytė (Vilnius 1987), che nei suoi film veste i panni di una sirena, in grado di muoversi fluidamente sulle rovine del nostro presente, simulando lo sguardo di un archeologo del futuro alle prese con la nostra civiltà; nei lavori di Daniel Arsham (Cleveland 1980), la cui poetica ruota intorno all’idea di ‘archeologia fittizia’ e alla trasformazione di oggetti di uso comune della fine del XX secolo in rinvenimenti archeologici di polvere solida; nelle sculture di Peter Buggenhout (Dendermonde 1963), che nella serie The Blind Leading The Blind, presentata a Bologna nel 2017, ricopre le opere con uno spesso strato di polvere, come se fossero state ritrovate dopo decenni di abbandono; o, ancora, nell’installazione ambientale di Gian Maria Tosatti (Roma 1980) realizzata a Odessa nel 2020, nella quale otto lampioni accesi su una spiaggia quasi deserta apparivano come ritrovamenti sopravvissuti alla parabola autodistruttiva dell’essere umano.

Restando nel contesto italiano, è possibile rintracciare una peculiare linea di ricerca nella scultura, che, pur tenendo conto della diversità delle poetiche, emerge con una certa evidenza. Converrà in questo senso fare una prima distinzione tra l’utilizzo di un’estetica del reperto di matrice culturale o naturale, piani che tuttavia tendono spesso a sovrapporsi. In entrambi i casi, le opere si fanno manifesto della precarietà dell’epoca in cui viviamo e della caducità della presenza dell’essere umano sulla Terra, messa in pericolo da eventi catastrofici in buona parte legati alle sue stesse azioni. Così, da una parte vi è la tacita speranza che questi reperti svolgano la funzione che riconosciamo alle rovine del passato, fari in grado di guidarci nella comprensione di epoche e culture precedenti alla nostra; dall’altra assumono un valore quasi profetico, previsione di uno scenario post-apocalittico tristemente annunciato. Non è un caso quindi che uno dei riferimenti ricorrenti sia quello al cambiamento climatico e ai suoi effetti: le storie del presente sono residui culturali o tracce fossili del passato. Un contributo importante alle riflessioni su una possibile ‘archeologia del futuro’ viene dal linguaggio scultoreo, ‘arcano e stupendo’ – per riprendere il felice titolo di una mostra del 2001[4] – che, insistendo sulla materia, riesce forse più di altri a restituire un’idea (fittizia) di accumulo del tempo.

Si vedano, ad esempio, alcuni lavori di Antonio Fiorentino (Barletta 1987), che giocano su una ricercata ambiguità di slittamenti temporali. In Kiribati, progetto iniziato nel 2018 e tuttora in corso, si è recato sull’isola omonima in Oceania, un luogo segnato dal tempo perché il primo a vedere ogni giorno la luce del sole, quindi proiettato irrimediabilmente nel futuro. L’isola è anche a rischio per gli effetti del riscaldamento globale, destinata a inabissarsi per l’innalzamento del livello del mare. Qui l’artista ha realizzato calchi di oggetti che rimandano alla vita e alle tradizioni culturali degli abitanti, ma anche dei coralli utilizzati per costruire muri di protezione a causa delle mareggiate sempre più frequenti. Da questi calchi, sono nate le sculture presentate nella mostra personale alla Fondazione Pastificio Cerere nel 2019, una raccolta cui è affidata la memoria di ciò che potrebbe sparire. Sempre di Fiorentino, Il nuovo Poseidone (2007-2019) e Opusmaris (2016) ripropongono un’estetica del reperto in qualità di frammento. È inoltre protagonista l’acqua, con il compito di plasmare le forme, forza erosiva che agisce con il favore del tempo e contribuisce a tratteggiare uno scenario possibilmente sommerso, un bacino di residui pronti a riaffiorare dopo un naufragio che si preannuncia imminente.

Acqua e argilla sono centrali nel processo di almeno altri due artisti italiani che lavorano su una possibile estetica del reperto, anche quando non intenzionalmente ricercata: Alessandro Biggio (Cagliari 1974) e Diego Cibelli (Napoli 1987).

In Studio per un ritratto (2016 – in corso), Biggio scioglie in acqua piccole teste di argilla dagli incerti caratteri fisiognomici, stendendone il fango ottenuto su teli di cotone grezzo sagomati, che diventano residuo di un rito di trasformazione. In Sénne (2018), un impasto di cenere e acqua viene manipolato fino ad assumere una forma dettata da materia e variabili ambientali. Nella loro fragilità, queste sculture assumono sembianze arcaiche di oggetti senza tempo, destinati forse a un lento processo di disgregazione che ricalca quello della sparizione delle grandi civiltà.

Di Cibelli ricordiamo il ciclo di sculture afferenti a It Tastes Like a Landscape, realizzato nel corso della residenza ottenuta dall’artista con il premio per l’arte Italia-Argentina 2019, ed esposto in una mostra personale all’Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires, cui è collegato il video Nativity,presentato a Berlino nello stesso anno. L’immagine di pastori ‘meticci’, realizzati con terre diverse, si scioglie letteralmente nell’acqua, inscenando un ritorno alla natura e ai suoi elementi, processo di cui non restano che pochi frammenti e la documentazione video. Nel progetto Gates (2021), pietre di ceramica si fanno superfici su cui presente e futuro, cultura e natura, convivono: riferimenti tratti da antichi volumi illustrati si contaminano con simboli del nostro presente, iscrizioni antiche con semi, conchiglie e altri elementi naturali che vivificano questi possibili reperti.

Sedimenti tra cultura e natura sono anche quelli allineati da Lucas Memmola (Bari 1994) nella recente personale Trinity Site presso la galleria aA29 di Milano: una collezione di oggetti trovati che appaiono come superstiti scampati a una catastrofe, cui allude il bunker-rifugio che fa da cornice progettuale. Anche nel lavoro di Memmola si ritrovano escrescenze che marcano il passaggio del tempo, rievocando l’immagine di accumuli di corallo, generate grazie a processi chimici (Dafne, 2019).

Immaginando invece le proprie tracce come fossili, Francesco Bertelé (Canzo 1978), nel corpus di lavori dal titolo Mixtopedia, compone tavole che riuniscono naturalia e artificialia quali possibili estratti di realtà in questo momento storico, ambientale e geologico. L’artista ha depositato il calco di una parte del suo corpo in una delle sorgenti pietrificanti dove avviene la trasmutazione della materia organica in travertino, consegnandolo all’azione degli agenti naturali. La creazione di un possibile reperto si basa qui su un processo naturale; il risultato si presta a essere interrogato da chi lo ritroverà, come coagulo di natura e cultura, ma soprattutto come incarnazione materiale del tempo in cui stiamo vivendo.

Pur nella diversità di pratiche e approcci, affiora dai pochi esempi qui citati uno sguardo condiviso sull’incertezza del nostro tempo, che identifica nella rimanenza fisica e materica una nuova idea di reperto. Nella vertigine temporale provocata da questi lavori, si intravede la capacità profetica dell’arte che ricalca le forme del passato per offrirci gli artefatti di un futuro che non vedremo mai, o che forse ci siamo già lasciati alle spalle.


[1] M. Maiorino, L’artista come archeologo. Uno scavo nell’arte italiana del XXI secolo, Arshake, 2020.

[2] C. Renfrew, Figuring it Out. What Are We? Where Do We Come From? The Parallel Visions of Artists and Archaeologists, Thames & Hudson, 2003.

[3] Sulla fascinazione delle rovine, cfr. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, 2004. Tra le mostre che in tempi recenti hanno affrontato il tema, includendo opere di artisti italiani contemporanei: Futuruins, a cura di D. Ferretti, D. Ozerkov, Venezia, Palazzo Fortuny, 19 dicembre 2018 – 24 marzo 2019; Ilmondoinfine. Vivere tra le rovine, a cura di I. Bussoni, S. Ferrari, D. Fumarola, E. Macali, S. Soccio, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, 13 dicembre 2018 – 23 gennaio 2019.

[4] Cosa arcana e stupenda. Scultura italiana contemporanea, catalogo della mostra (Sermoneta), a cura di A. Bellini, Silvana Editoriale, 2001.