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Viaggiare nel presente
L’ambizione urbana nel lavoro di Gian Maria Tosatti

Gian Maria Tosatti, Kalbim Ayna Gibi Boş – İstanbul Bölümü, 2021, installazione ambientale, site specific

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Lo spazio pubblico è una costante nel lavoro di Gian Maria Tosatti. Le città, i quartieri, a volte interi paesi, sono orizzonti di incubazione e sviluppo delle sue opere visive, ma costituiscono, anche, lo scenario concettuale per alcuni suoi testi teorici che hanno incardinato un’intera generazione di artisti all’archetipo della strada come terreno di confronto politico fra l’arte e la complessa realtà che si vive all’indomani del crollo delle ideologie e nelle prime stagioni della rivoluzione digitale[1].

La dimensione urbana del lavoro di Tosatti è già presente nei primi lavori ambientati a Roma, col ciclo Devozioni (2005-2011), in cui l’artista inaugura una modalità inedita di intervento ambientale, che si appropria e si fonde col contesto civile, sviluppando una continuità immediata tra opera e realtà. A differenza, infatti, di Mike Nelson e Gregor Schneider, che hanno preceduto il lavoro di Tosatti di qualche anno nella storia dell’arte ambientale, l’italiano, rinuncia a lavorare in una dimensione fictional – come quella dell’inglese – o intima – come quella del tedesco – rinunciando al concetto di room within a room e usando lo spazio architettonico non come contenitore, ma come dispositivo radiante del suo lavoro rispetto al circostante contesto storico e politico, sviluppando con esso una continuità indissolubile.

Ne è un esempio Testamento – devozioni X (2011), installazione conclusiva del ciclo romano, in cui l’alta torre idrica dell’ospedale San Camillo era utilizzata come percorso per guadagnare una posizione dalla quale dominare l’intera città, vero spazio dell’opera, e sulla quale l’artista proiettava una sensazione apocalittica anticipando il sentimento di ‘fine della specie’ che avrebbe pervaso l’inizio del decennio successivo.

Lo stesso rapporto di stretta continuità tra architettura, spazio urbano e dimensione civile è presente nel progetto americano I’Ve already Been Here, portato avanti tra il 2011 e il 2017, con alcune opere realizzate e altre solo disegnate.

Per i primi due episodi, Apt. #102 e Headache, entrambi del 2011, la scelta dell’artista fu quella di inserire due opere-appartamento all’interno di edifici privi di qualunque connotazione particolare e, quindi, perfettamente mimetizzate nella città di New York.

Questa stessa attitudine alla fusione tra il dispositivo artistico e lo spazio della realtà sarà sviluppata, poi, con ancora maggiore precisione e articolazione, nell’esperienza napoletana di Sette stagioni dello spirito (2013-2016), un progetto dall’impianto visionario, stimolato dalla lettura del Castello interiore di Santa Teresa de Jesus. Un lungo lavoro di studio e ricerca propedeutica, come sempre nel lavoro di Tosatti, ha progressivamente portato a identificare sette luoghi-palinsesto nella città di Napoli, in cui è evidente la tensione fra passato e presente e su cui il tempo, «questo grande scultore» (M. Yourcenar), ha impresso indelebilmente le sue tracce. Luoghi che intrattengono – ognuno per ragioni diverse – un forte rapporto identitario con il capoluogo partenopeo. In questo modo l’artista ha tentato di ‘installare l’intera città’[2], stavolta non tramite una distanza proiettiva, ma, realmente, entrando in contatto con ogni piega, ogni elemento oscuro o luminoso del sistema complesso di strade che, come vasi sanguigni, danno corpo al territorio napoletano.

I luoghi abitati dall’artista sono diventati così vere e proprie ‘opere-ambiente’, dispositivi radianti che dal tessuto urbano si sono estese a quello umano, animando interi quartieri[3].

Emblematica, in questo senso è l’esperienza di 6_Miracolo (2015), la sesta tappa del progetto, impiantata in un’ex fabbrica nel cuore di Forcella. L’apertura, volutamente in sordina, di un portone crivellato di colpi d’arma da fuoco, come accesso a un ipotetico paradiso, ha generato in questo rione problematico una performance collettiva che ha istituito una vera e propria pratica del bene, identificata con lo spazio dell’agire. Nutrito da azioni semplici, investite di un significato simbolico che poi, per osmosi, torna da un metaforico paradiso alla quotidianità, l’intervento ha provocato la volontaria partecipazione degli abitanti dei vicoli circostanti donando all’opera un senso di coralità, senza il quale non si sarebbe potuto esprimere il significato stesso di questo ‘miracolo’. Singolarmente, o in gruppo, gli avventori (adulti, bambini, habitué – tutti, indistintamente, visitatori/performer accidentali) hanno trovato il ‘loro’ modo di abitare questa dimensione altra, separata dal vicolo attraverso un diaframma invisibile, un portale aperto che, tuttavia, non sembrava condurre che al cuore stesso di quel gruppo sociale e civile che dava corpo alla città.

Un rapporto simile l’artista lo ha sviluppato pochi mesi dopo lavorando nel punto in cui le strade di migranti provenienti da molte e diverse rotte si incontravano, la Jungle di Calais.

Nei passaggi successivi, coincisi col ritorno dell’artista dagli Stati Uniti e l’inizio del suo progetto Il mio cuore è vuoto come uno specchio (2018 – in corso), la pratica di Tosatti si è fusa col concetto stesso di pellegrinaggio. Nelle pagine del suo diario riferite a opere come l’Episodio di Odessa (2020) si può trovare il resoconto dei viaggi a piedi condotti attraverso le pianure dell’Ucraina, seguendo i gasdotti e perdendosi nei quartieri periferici delle città, nei quali vengono poi attivate opere prive di ogni genere di cornice. Ne è un esempio l’intervento realizzato nella città sul Mar Nero[4], in cui l’artista, prolunga idealmente la città nel lago di Kuyalnik, dando l’impressione che una catastrofe abbia sommerso e azzerato storie, case ed esistenze. Lo stesso vale per l’Episodio di Istanbul (2021), in cui l’artista sceglie di operare in tempo reale nel cuore delle demolizioni effettuate dal governo turco nel quartiere curdo di Tarlabaşı, tessendo una trama di lettura critica del fenomeno, priva di qualsiasi distanza o separazione dal fenomeno stesso.

Tutto questo culmina nel padiglione italiano della 59° Biennale di Venezia, in cui la separazione dallo spazio urbano dei capannoni dell’Arsenale viene superata mediante la rappresentazione del viaggio compiuto dall’artista negli stabilimenti falliti a causa della pandemia e nelle aree industriali depresse di tutto il Paese, ricostruendo il proprio percorso fisico, affastellando e ricomponendo brandelli di fabbriche in una trama sentimentale capace di restituire un’immagine dell’Italia del XXI secolo posta sull’acuminato crinale critico tra passato e futuro.


[1] Sulla questione teorica è possibile leggere testi come Il neorealismo visivo secondo Gian Maria Tosatti o Ritratto dell’artista dopo l’Apocalisse, entrambi apparsi in prima pubblicazione su «Artribune» e recentemente ripubblicati su «La scuola delle cose», VIII, febbraio 2023, Lyceum.
[2] Espressione usata nella conversazione tra l’artista e l’architetto Eva Franch i Gilabert.
[3] È necessario sottolineare che queste opere non venissero né presentate alla stampa prima di essere aperte, né segnalate, ma venissero lasciate aperte e accessibili al pubblico senza alcuna informazione. Ciò contribuiva a fonderle indissolubilmente con il contesto, quasi come non vi fosse alcuna differenza tra il contesto artistico e quello della vita.
[4] Anche in questo caso l’opera venne realizzata e posta nello spazio urbano senza alcuna comunicazione, generando un cortocircuito percettivo nei visitatori, che potevano intendere l’intervento come reale preesistenza del luogo.