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Assistiamo oggi a un’ampia diffusione di pratiche che esplorano le relazioni cross-specie, sia sulla scena internazionale che su quella italiana: una risposta a una catastrofe percepita imminente, in un mondo dove ogni equilibrio originario è stato alterato.
Alla base delle grandi problematiche del nostro tempo pare esserci un errore immaginativo basato sul paradigma antropocentrico/capitalocentrico che si traduce in una presunzione di priorità di specie da parte dell’uomo, emersa in un sempre più accentuato disallineamento di tempi tra azione umana e processi naturali, e che ha finito per ignorare la stretta dipendenza che lega la nostra specie al regno animale, vegetale e, oggi, anche tecnologico.
Come è rilevabile in alcune delle ultime Biennali, gli artisti si fanno, anche per questa ragione, sempre più sciamani e scienziati, in un contesto artistico che a sua volta diviene strumento sia per metabolizzare il conflitto tra ‘naturale’ e ‘antropico’, sia, e soprattutto, per immaginare paradigmi altri, volti alla sopravvivenza del Pianeta e, talvolta, della specie.
Le prospettive interspecie tendono, infatti, a esplorare una diversa continuità tra mondo umano e alterità non umane, stimolando un confronto sulla possibilità di creare nessi alternativi tra biologia e cultura, fisica ed economia, spiritualità e tecnologia.
Innanzitutto, è importante però chiarire che cosa la biologia intenda per ‘relazioni interspecifiche’: definite come relazioni tra organismi appartenenti a specie diverse all’interno di uno stesso ecosistema, esse possono essere positive, ma anche antagonistiche (si veda ad esempio il predarismo), neutre o mutualistiche.
L’arte di oggi pare ispirarsi soprattutto a quest’ultima tipologia, concependo modelli di simbiosi interspecie che approccino in maniera idiosincratica il mondo naturale e il mondo antropico, e immaginando futuri che non necessariamente includano l’uomo nell’immaginare un futuro.
Un esempio è fornito dalla pratica di Camilla Alberti (1994): le sue Unbinding Creatures si configurano come sculture al contempo biomorfe e aliene che negano ogni concezione di kalokagathia, per accogliere al proprio interno una commistione ibrida, paradossale ma nuovamente fertile, fra naturale e antropico. Muovendo dal concetto di rovina, le opere di Alberti permettono di immaginare possibilità inedite di simbiosi costruttiva e sostenibile, frutto di recupero, contaminazione e collaborazione.
Similmente Lorenzo D’Alba (1998) incoraggia l’identificazione con alterità sconosciute creando paesaggi abitati e abitabili da esseri ibridi, in equilibrio fra umano e non umano, in un elsewhere parallelo a cui l’uomo dovrà adattarsi.
Un’integrazione posthuman e ai confini del mostruoso fra mondo naturale e resti della techne è alla base anche dell’opera di Giulia Cenci (1988): utilizzando macchinari agricoli in disuso – strumenti già appartenenti all’archeologia tecnologica ─ l’artista crea disturbanti installazioni ibride che invadono lo spazio della civilizzazione, sfidando ogni distinzione gerarchica tra macchine, animali, piante, batteri e umani.
Sullo stesso tono sono alcune opere di Michele Gabriele (1983), che vivono di una simile integrazione caotica, grottesca e post-tecnologica di organico e industriale, in cui l’essere umano pare già assumere lo statuto di mero elemento residuale ed estinto.
Decisamente distopico è, invece, il bestiario di Luca Petti (1990): l’artista immagina un Pianeta nel quale l’uomo è già stato sostituito da organismi che, per sopravvivere, hanno dovuto riadattare le proprie forme e funzioni a seguito delle sofisticazioni ideate dall’uomo per sottrarli ai contesti naturali d’appartenenza e renderli più ‘adatti’ ai propri cicli di consumo.
Possiamo dunque notare come, in questi artisti, l’esplorazione di un futuro postumano prenda avvio da un’estetica del mostruoso intesa anche come possibilità di immaginare soluzioni simbiotiche e metamorfiche radicalmente ‘altre’, e come reazione alla presunta razionalità e oggettività delle classificazioni scientifiche correnti.
In tale climax di visioni distopiche, il ‘disfunzionamento’ di un corpo umano, divenuto sempre più estraneo al contesto naturale e avvicinatosi sempre più alla macchina, è messo in scena in modo drammatico dell’artista Yuval (1951): nella serie Foreign Bodies i tormentati movimenti dei performer a confronto con il sublime della natura suggeriscono un disfunzionamento sistematico di una macchina/corpo umano che ha perso ogni legame energetico e vitale con il mondo circostante.
Talvolta, poi, il postumano continua a essere immaginato non tanto come ‘fine’ dell’umano (in base a una posizione di totale sfiducia nel progresso), ma come momento di ridefinizione più fluida, anche in relazione alle attuali possibilità della scienza e della tecnologia.
Un esempio è la pratica transmediale e trans-specie di Agnes Questionmark (1995), che sviluppa il concetto di ‘metacorpo’ indagandone le possibili trasformazioni in relazione agli sviluppi attuali e potenziali della genetica e della biologia. Partendo dall’elemento primordiale dell’acqua e ispirandosi al concetto di Homo Aquaticus, Agnes esplora uno stato ibrido tra il non umano e il più che umano, fra mostruoso e portentoso: la dimensione subacquea messa in parallelo a quella fetale diviene il regno della fluidità per eccellenza, dove tutto ha inizio ma può ancora trasformarsi ed evolvere al di là di categorie di genere e specie.
Su una linea simile si pone Ambra Castagnetti (1993), le cui opere muovono da un desiderio di trasformare il rapporto con il nostro corpo e con gli esseri che ci circondano: ripensando i confini biologici e ontologici dell’essere umano, in Castagnetti i processi di metamorfosi diventano possibilità di rompere limiti e costrizioni identitarie, suggerendo una diversa fluidità fra generi e specie.
Ci troviamo, dunque, di fronte alla nozione di un corpo umano capace di mutare ed evolvere fluidamente, per adattarsi ai drastici cambiamenti in atto sia a livello ambientale che societario, e sopravvivere a essi.
Un altro approccio a queste tematiche utilizza la scienza e la tecnologia per ascoltare il mondo naturale e proporre modalità di interazione alternative, che permettano di superare l’autoreferenzialità umana.
Nuovi futuri bio/tecno-ibridi e simbiotici, vengono suggeriti, ad esempio, dalle opere cinetico/sonore di Marco Barotti: operando su un’interessante intersezione tra ecosistemi organici e macchine, la pratica di Barotti mette in evidenza le tensioni e i conflitti tra di essi traducendo complessi dati scientifici in esperienze estetiche, ma al contempo prefigurando la possibilità di una tecnologia che si lasci ‘bio-ispirare’, dando voce alla natura, facendosi cassa di risonanza del suo stato, fino a intervenire anche attivamente per la sua salvaguardia.
Le opere di Giovanni Chiamenti (1992) rappresentano, invece, già una piena simbiosi tra natura e intervento umano, un equilibro ottenuto attraverso la scienza: l’artista immagina un’ibridazione pressoché totale tra i due elementi, frutto dell’eterno adattamento messo in atto dal mondo naturale per sopravvivere alle circostanze antropiche. Nelle sue Interspecies Kin l’artista testa la coesistenza possibile tra materiali plastici, bioplastiche e microorganismi, immaginando una ‘Plastocene’[1] di ibridazioni in realtà già in atto, come nel caso dei funghi marini che si alimentano di microplastiche.
Nell’esplorare le tematiche di cross-specie, l’arte diviene anche terreno fertile per un ritorno a modelli di conoscenza e spiritualità alternativi, riconducibili un livello di civiltà primordiale o ancestrale non ancora intaccato da sovrastrutture di radice antropocentrica/capitalocentrica e di conseguenza più vicino all’originario equilibrio tra componente naturale e sociale. Questo si traduce sia nel recupero di immaginazione mitopoetica animistico/sciamanica, che possiamo rintracciare in alcune delle poetiche prima citate, che in un divenire indio che, invece, pare ancora assente in Italia[2]. Sembra essere ancora parziale, infatti, quell’invito autentico, forse più primordiale, a essere coscienti di‘essere mondo’, ovvero parte di un sistema fluido di interconnessioni e interdipendenze che va oltre qualunque categorizzazione scientifica, gerarchia darwiniana ma anche al di là della stessa dicotomia cartesiana tra corpo e mente, fra soggetto e mondo. Un tale approccio pare in realtà essere stato anticipato in Italia ancora dall’arte povera, in un tentativo di ‘deculturalizzazione dell’arte’ come «esserci teso all’identificazione, cosciente, reale=reale, azione=azione, pensiero=pensiero, evento=evento, un’arte che predilige l’essenzialità informazionale»[3].
Qualcosa che ritroviamo, a oggi, in alcune pratiche citate, come poi in quella di Fabio Roncato (1980) le cui opere sono spesso plasmate da processi naturali e fisici a cui sono sottoposti i materiali o i contesti su cui l’artista interviene.
Questo livello olistico di completa coesistenza e integrazione di componenti eterogenee in un unico mondo/sistema, passa in effetti dalla piena consapevolezza di una compenetrazione primigenia fra processi, tempi, spazi ed esseri, antecedente alla supremazia umana. Ciò costringe, tuttavia, anche nella pratica artistica, a riconsiderare radicalmente le relazioni, ormai consolidate, tra conoscenza e fare umano, fra costruire antropico e processi della materia, in un’accettazione totale delle limitazioni cui l’uomo è soggetto, generate dall’incapacità di acquisire e comprendere tramite i sensi le forze naturali che governano l’Universo.
In gran parte delle pratiche citate pare invece persistere il primato del genius umano, così come un sistema epistemologico, ecologico e cosmologico solo parzialmente revisionato rispetto, soprattutto, a quello proposto oggi dagli artisti provenienti da comunità indigene.
Rimane da provare, con il tempo, quale livello di collaborazione, sincronia ed entropia interspecie ─ guidata dall’uomo o meno ─ richieda la prossima evoluzione non solo di specie, ma del Pianeta, per salvarci, tramite una distribuzione più equa di energie, risorse e spazi.
[1] C. Skinner, The Plastocene – Plastic in the Sedimentary Record, «EGU Blogs. European Geoscience Union», 9 gennaio 2019. https://blogs.egu.eu/divi- sions/ssp/2019/01/09/the-plastocene-plas- tic-in-the-sedimentary-record/.
[2] D. Danowski, E. Viveiros de Castro, The Ends of the World, Polity, 2017, p. 255.
[3] G. Celant, Arte povera, manifesto, 9 febbraio 1968.