Cerca
Close this search box.

Lo sguardo fisso sull’ambiente
Un tema esistenziale dell’arte

Mariagrazia Pontorno, Nobilis Golden Moon, 2020, still

Questo articolo è disponibile anche in: English

Era il 1966 quando Il ragazzo della via Gluck si trasferì in città ‘a respirare il cemento’ trovando, al suo ritorno in campagna, «solo case su case, catrame e cemento». Non poteva fare a meno di domandarsi «perché continuano a costruire le case, e non lasciano l’erba […] e se andiamo avanti così, chissà come si farà». In quegli anni se lo domandavano anche tanti artisti: basti citare Giuseppe Penone e Ugo La Pietra, per cogliere le temperature della questione e le pratiche con le quali era fronteggiato, esaminato e interpretato il tema della tutela ambientale. Dopo poco meno di sessant’anni, molti artisti continuano a domandarselo, avvertendo la questione sempre più cogente, dal momento che la totale assenza di attenzione ha portato a un significativo declino della biodiversità. Purtroppo, l’equilibrio è da parecchio tempo compromesso, a causa di un indiscriminato utilizzo delle risorse naturali (esauribili) che progressivamente e inesorabilmente ci condurrà sempre più vicini all’Overshoot Day[1]. Tuttavia, la natura è da sempre nell’arte: a cornice dell’agire umano (vedi il Barocco e i Carracci su tutti), come elemento sublime, perché espressione del divino in Terra (vedi il romanticismo, e in particolare William Turner e John Constable), come matrigna (vedi il simbolismo e, su tutti, Giovanni Segantini) oppure come espressione dell’oggettività dell’artista e delle sue emozioni (vedi l’impressionismo e Claude Monet). Brevissimi cenni al passato prossimo della storia dell’arte, solo per ricordare che, nella sua accezione più ampia, la Physis (Natura), da cui proviene tutto ciò che è soggetto a nascita, accrescimento, degenerazione e morte, è presente già nelle grotte di Lascaux. A cambiare è stato solo l’approccio da parte dell’artista, che si è spinto, in alcuni casi, a trattarla come mero materiale, alla stessa stregua dell’argilla o del marmo. Sebbene una certa sensibilità all’ambiente si sviluppi soprattutto nel corso degli anni Settanta (si guardi, per esempio, oltre ai lavori dei già citati Penone e La Pietra, a quelli di Piero Gilardi, Giuliano Mauri, Anselm Kiefer, Sebastião Salgado, Richard Long e Walter De Maria), è negli ultimi decenni che molti artisti hanno posto al centro della propria ricerca artistica, in maniera netta e unica, uno sguardo ambientale rilevabile, attento e molto chiaro. Difficile citare tutti, complicato elencarli, per questo si è scelto di procedere per brevi cenni e indicazioni. Nonostante l’arte miri anche a illustrare quali siano le migliori condizioni per tutelare la Terra, trasmettendo informazioni valide e necessarie per tentare di scuotere le coscienze, è intenzione di chi scrive evidenziare la differenza, nelle forme e nei contenuti, tra quegli artisti che perseguono un’indagine esclusivamente dedicata alle tematiche ambientali e coloro nei cui lavori la vita entra prepotentemente e, di conseguenza, il tema dell’ambiente è presente come pensiero, come questione da non sottovalutare. Basti pensare a Il cedro dei cieli (2014), videoanimazione in 3D di Mariagrazia Pontorno, in cui un cedro del libano viene sradicato dal passaggio di una tempesta che ne mette a nudo le secolari radici e ci parla del delicato equilibrio che bilancia la natura. Oppure al video Nobilis Golden Moon (2020) col quale l’artista denuncia, come spiegato da lei stessa, «la desacralizzazione del Mediterraneo attraverso il processo di estinzione di uno dei suoi simboli e delle sue sentinelle, la Pinna nobilis: una grande cozza che supera l’altezza di un metro, a rischio di estinzione per una malattia pandemica». Se The Ice Monolith (2013), il lavoro presentato a Venezia da Stefano Cagol, intendeva sensibilizzare il pubblico sul tema del riscaldamento globale mediante l’esposizione di un grande blocco di ghiaccio, destinato a scomparire nel giro di pochi giorni, le straordinarie e potenti fotografie di Luigi Ghirri e Gabriele Basilico, in maniera più indiretta e silenziosa, si pongono come testimonianze delle profonde trasformazioni ambientali legate al consumismo e al capitalismo, mentre le rarefatte immagini di Elger Esser mostrano paesaggi ormai perduti, non più esistenti. Attraverso puntuali paradossi, poi, alcuni artisti dimostrano la persistenza del tema nella produzione contemporanea corrente. È il caso di Gea Casolaro con South (2010), una serie di immagini scattate nella natura selvaggia e poste sottosopra, che inducono indirettamente a riflettere sui possibili futuri stravolgimenti ambientali, e con l’installazione Il cielo stellato e la legge morale (2019), un telescopio puntato su un planisfero, che intende far riflettere non solo sulla propria posizione nel mondo, ma anche sulla necessità di preservare il Pianeta senza distinzioni di confini o di interessi economici. Paola Pivi in Senza titolo (zebre) del2003, ritrae una coppia di zebre che, spaesate, si ritrovano in uno scenario innevato, mentre Andrea Galvani nel ciclo La morte di un’immagine, del 2006, propone una serie di paesaggi nei quali attua esperimenti fisici capaci di generare dei vuoti, dei buchi neri, nel tentativo di rientrare in possesso della Terra. Claudia Losi, invece, conduce da quasi vent’anni il Balena Project, culminato nel 2010 ne Les funerailles de la baleine. Il progetto è iniziato nel 2004, quando l’artista si è imbattuta nei resti di uno scheletro di una balena rinvenuto negli anni Trenta del secolo scorso sugli Appennini, nei calanchi di Montefalcone: la dimostrazione materiale della presenza del mare in quel luogo di montagna. Pur non avendo inizialmente un taglio del tutto ambientalista, il suo ‘viaggio con la balena’, per la durata, per le comunità coinvolte e per le fattive dimensioni dell’opera (una balenottera comune realizzata in tessuto di lana grigia a dimensione naturale di circa ventiquattro metri), tuttora è uno dei più preziosi e potenti lavori di questo genere, capace di denunciare lo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali e di evidenziare come quest’ultimo metta in pericolo la sopravvivenza di molti animali, compresa la balena. Anche un’altra ossessione, stavolta per i funghi, testimonia la precarietà degli equilibri naturali. Giulio Bensasson, con la sua costante attenzione al proliferare di questi organismi, sembra volerci silenziosamente avvertire dei possibili rischi a cui l’uomo sarebbe esposto nel caso in cui si presentino mutazioni inaspettate nel corpo dei miceti, prodotte dai cambiamenti climatici generati dall’attività umana. Attraversando le periferie e immortalando il degrado (spesso corroborati da letture come Glister di John Burnside o La strada di Corman McCarthy), Botto&Bruno descrivono invece un paesaggio fittizio, frutto dell’unione di elementi prelevati dal reale, testimonianze dell’assoluta mancanza di attenzione nei confronti dell’ambiente (si veda ad esempio Ballad of Forgotten Places, 2020). Giardino abusivo (2022) o Licola Pop Up (2013) di Eugenio Tibaldi, in maniera analoga, denunciano la difficile relazione tra economia e paesaggio, mostrando come quest’ultimo risulti sempre perdente senza un intervento di tutela da parte della collettività. Altri artisti, inoltre, pongono al centro della propria produzione artistica tematiche ambientali, con importanti e profonde denunce, anche di carattere politico, sovrapponendo spesso l’attività artistica a un’accesa e costante militanza. È il caso dell’artista Rosa Jijon, cofondatrice, insieme a Francesco Martone, di A4C-Artsforthecommons, piattaforma collettiva dedicata all’arte e all’attivismo. Da anni realizza progetti in difesa dell’ambiente, tra cui Rivus, un video che traduce in musica e immagini la lotta dei fiumi per il riconoscimento della propria personalità giuridica. Anche Inés Fontenla con Requiem terrae (2011) e Il cielo alla fine del mondo (2004), da decenni lancia il suo monito di allarme. Il concetto di anima mundi è poi alla base del Laboratorio habitat di Marco Scifo (attualmente impegnato negli ‘esercizi’ del work in progressCambiamenti di forma), attraverso cui l’artista intende raccontare del suo rapporto con la natura, percepita come un unico organismo vivente. The Planetary Garden è invece il titolo degli ultimi lavori realizzati da Pietro Ruffo con i quali, attraverso una stratificazione di immagini realizzata sulle sue amate mappe, guarda al cambiamento climatico e alla perdita della biodiversità in un inequivocabile memento mori. Attraverso un approccio multidisciplinare, con i suoi progetti, tra cui Climate Art Project (avviato nel 2015), Andreco (Andrea Conte) da oltre quattro lustri indaga i rapporti tra uomo e ambiente, tra ambiente costruito e ambiente naturale, osserva le conseguenze dei cambiamenti climatici immaginando un mondo senza uomini e adottando una prospettiva volta a superare la visione antropocentrica per approdare a quella ecocentrica. Allo stesso modo, con le sue maestose sculture posizionate in ambienti senza limiti, Davide Rivalta ridà agli animali (principalmente quelli selvatici quali il leone, il gorilla, il rinoceronte, l’orso) quella dignità e libertà perdute a causa della cattività, mentre Alex Cecchetti, attraverso un approccio pressoché sciamanico e la realizzazione di installazioni immersive, invita a identificarsi con la natura, a tener presente il debito che gli uomini hanno nei suoi confronti, a partire dalla stessa aria che respiriamo. Prelevando immagini (i fossili del futuro) da quotidiani e riviste, Francesco Simeti, pur interrogandosi sul ruolo delle immagini, concretizza parimenti rappresentazioni della natura che sono allo stesso tempo reali e artificiali, proponendo interrogativi in merito alla percezione di quest’ultima da parte della nostra specie nonché alla capacità dell’ecosistema di ristabilire un equilibrio interno, spesso poco favorevole all’uomo.


[1] Eatrh Overshoot Day / Giorno del superamento terrestre, del sovrasfruttamento della Terra, in Italia raggiunto il 28 luglio del 2022 e, di questo passo, la Global Footprint Network ha stimato che nel 2050 l’uomo consumerà il doppio della biocapacità del pianeta, le risorse naturali che la Terra è capace di rigenerare in un anno.