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Un oscuro scrutare
Osservazioni preliminari sul metaverso

Federica Di Pietrantonio, 2020, Does the Body Know, smalto su tela, 190 x 290 cm, Talent Prize 2020 Special Award by Fondazione Cultura e Arte

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Da più parti si insiste ormai sull’avvento di quella che sembra un’altra grande trasformazione del mondo, un salto di qualità, diciamo così, in virtù del quale la realtà come l’abbiamo conosciuta finora diventerà completamente diversa, un ‘fuori’ estraneo e aumentato. Una rivoluzione, qualcuno la chiama già involuzione, tanto difficile da immaginare nei suoi effetti singolari e collettivi, che per provare a parlare dei suoi possibili sviluppi occorrerebbe avere l’intelligenza visionaria di Philip K. Dick, non solo uno scrittore di fantascienza, ma probabilmente uno dei più importanti filosofi del XX secolo, che è riuscito a prefigurare il nuovo millennio nelle sue variegate sfaccettature. Ecco perché il titolo di questo intervento ricalca esattamente quello di uno dei suoi romanzi più avvincenti e inquietanti, scritto nel 1977, l’annus mirabilis, che segna l’inizio di questa nuova storia con l’avvento della terza rivoluzione industriale, quella dell’elettronica e del microchip. Proviamo dunque, più semplicemente e senza poter contare sui talenti di Dick, a scrutare alcune emergenze di tale nuova condizione che, a ben vedere, non è questione che si debba dare in un futuro di là da venire, ma qualcosa di cui facciamo già esperienza. Se gli anni Ottanta sono stati segnati dall’automazione produttiva e dal personal computer, e i Novanta dalla diffusione planetaria della rete, ovvero, se il XX secolo si è chiuso con il sopraggiungere di una generale smaterializzazione della realtà, questi nostri anni sono quelli in cui ciò che fino all’altro ieri abbiamo chiamato ‘virtuale’, contrapponendolo al ‘reale’, inizia ad assumere una consistenza che manda in soffitta una distinzione ormai inservibile. Voglio dire che, probabilmente, è sempre più complesso tenere in piedi un distinguo tra ciò che è reale e ciò che non lo è, perché la realtà stessa va ridefinita sulla base di una dicotomia tra ‘online’ e ‘offline’, in cui l’esperienza ‘surrogata’ (quindi offline) diventa quella conosciuta fino a oggi, mentre quella ‘piena’ (quindi online) diviene ciò che fino all’altro ieri abbiamo chiamato virtuale. Insomma, se fino a ieri potevamo sostenere che una relazione affettiva, d’amicizia e amorosa, o lavorativa, intrattenuta virtualmente attraverso i dispositivi e la messaggistica, non fosse una vera relazione, ma solo un sostituto dell’unica relazione possibile, intrattenuta nello spazio fisico dell’ufficio, della casa o della strada, le carte in tavola sono molto velocemente cambiate. Nel metaverso ‒ di questo proviamo a discutere ‒, non si manderanno messaggi e documenti, emoticon e vocali, ma si farà esperienza di uno spazio nuovo, dove sarà compresa la condivisione delle emozioni e delle sensazioni, sarà possibile vivere pienamente, e forse anche meglio, una vita diversa. Lo aveva già immaginato James Cameron in Avatar, film del 2009, che a breve avrà un sequel, e nel quale – significativamente – uno dei personaggi, che nella realtà aveva perso l’uso delle gambe, decideva di abbandonare la sua condizione per vivere con il suo doppio virtuale.

Vengono in mente i lavori di Federica Di Pietrantonio (1996), che da tempo lavora, pittoricamente, su questo cortocircuito tra reale e virtuale, che fa cadere la distinzione classica tra vero e falso, come ha già dimostrato la fisica quantistica, post-newtoniana, quindi postmoderna. E si pensa anche alla riflessione pittorica di Domenico Antonio Mancini (1980) sul paesaggio che diventa codice. Queste esperienze artistiche ci invitano, saggiamente, ad essere prudenti rispetto all’euforia di una liberazione promessa dal salto ‘quantico’ imminente, e basterebbe riflettere su quanto successo negli anni Novanta con un eccessivo entusiasmo tecno-libertario, velocemente smorzato dai processi di privatizzazione delle autostrade informatiche e delle banche dati. Ugualmente, il metaverso è tutt’altro che salvo dal dispositivo capitalista che procede per enclosure strutturali degli spazi pubblici, e questo significa che l’esperienza, in siffatta ‘realtà fuori dalla realtà’, sarà ordinata gerarchicamente, secondo vari livelli di qualità, legati indissolubilmente alle svariate capacità di investimento. Anche a questo proposito è bene ricordare la capacità prefigurante dell’immaginazione artistica e, in particolare, di Leiji Matsumoto, che nel manga, poi anime, Galaxy Express 999 ‒ anche questo del 1977 ‒, immaginò un mondo futuro dove i ricchi potevano acquistare un corpo meccanico che gli avrebbe permesso di vivere molto a lungo, mentre i poveri sarebbero stati costretti a una vita temporaneamente limitata o a viaggiare nello spazio, come i protagonisti della storia, alla ricerca di un pianeta in cui la vita millenaria fosse alla portata di tutti.

Tornando agli esempi della giovane arte italiana, – e qui non si può non ricordare lo straordinario e pionieristico lavoro di Salvatore Iaconesi (1973-2022) e Oriana Persico (1979) per la creazione di un’ecologia del nuovo abitare fondata sulla condivisione dei dati – se è probabilmente vero che sia caratterizzata da una certa prudenza critica rispetto agli entusiasmi internazionali per la rivoluzione degli NFT, è altrettanto vero che quella che stiamo attraversando è una ‘grande trasformazione’, per usare un’espressione di Karl Polanyi, che, a pensarci bene, rimette in gioco anche il nostro linguaggio, rendendone evidenti i limiti e il bisogno di reinventarlo, in un rapporto tra parole e cose che non smette di modificarsi. Le generazioni più mature sono davvero in grado di capire cosa dicono i ventenni? Le nuove generazioni non parlano forse una lingua straniera, troppo straniera, per rendere possibile una staffetta generazionale? Il vocabolario attuale non è inadeguato a definire il nostro mondo nuovo? Come fare per provare a descrivere l’esperienza ‘di’ e ‘dentro’ una ‘realtà fuori dalla realtà’, ovvero, come raccontare un’esperienza aumentata nella quale i corpi potranno uscire da sé stessi? Cosa diventeranno le identità non legate più strutturalmente ai propri corpi? Ragioniamo, per rendere ancora più evidente la radicalità del processo in corso, sulla mutazione cognitiva determinata dal tramonto della parola scritta come principale mezzo di acquisizione, conservazione e trasmissione del sapere, su cui insiste Derrick De Kerckhove, e sull’emergere di intelligenze connesse, educate dalla rete e antropologicamente diverse da quelle che hanno abitato il nostro pianeta negli ultimi cinquecento anni. Basterebbe registrare quanto, quasi ovunque, le elezioni politiche siano determinate sempre più da voti espressi sulla scia di onde emotive e sempre meno da valide argomentazioni, per rendersi conto che a tramontare sono anche il pensiero critico e la sfera pubblica emerse con l’illuminismo; ci spiegheremmo così perché viviamo dentro l’incubo di una critica che si trasforma nella caricatura di sé stessa, e di cui dà prova la diffusione virale della paranoia complottista, tramonto tragicomico delle fondamenta del pensiero dialettico occidentale. Non è un caso che, come ha notato molto opportunamente Fredric Jameson, la schizofrenia, la stessa dei racconti di Dick, sia il tratto distintivo della nostra epoca. Una generale ‘crisi della presenza’, avrebbe detto Ernesto De Martino, accompagnata da stati sempre più estesi di afasia collettiva, insieme alla moltiplicazione esponenziale della sindrome da burnout. Ma nel collasso della catena significante nella quale siamo stati ‘compresi’ fino all’altro ieri, chi se non i poeti e, quindi, gli artisti, potrà reinventare la nostra lingua, rendendo meno oscura questa navigazione, questo scrutare il mondo che viene? Non è forse vero, come afferma Franco ‘Bifo’ Berardi in uno dei suoi libri migliori, che a rigenerare la nostra lingua e, quindi, a consentire la nostra relazione con un mondo che si metamorfizza in continuazione, è la poesia e, quindi, sono gli artisti, che sulla lingua e sullo stile lavorano da sempre? Osservando con più attenzione la scena artistica contemporanea sembra tornare molto utile l’analisi letteraria di Carla Benedetti che, riflettendo sul postmoderno, ha contrapposto le vie d’uscita alternativamente proposte da Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini: ironico e disincantato l’uno, tragico e ostinatamente impegnato l’altro. Se la ‘soluzione Calvino’ ha egemonizzato senza dubbio la scena culturale degli anni Ottanta e Novanta, oggi gli artisti più giovani sembrano guardare con sempre maggior interesse a quell’idea di opera come progetto incompiuto su cui lavorò Pasolini negli ultimi anni. Reinventare la lingua, costruire un vocabolario online al di là di quello offline, immaginare una nuova pittografia che renda possibile orientarsi e quindi fare esperienza di tale mondo fuori dal mondo. Sembra essere questo il compito a cui sono chiamati gli artisti del XXI secolo. Il lavoro a cui siamo chiamati tutti, nel metaverso nel quale abbiamo già iniziato a vivere.

Riferimenti bibliografici

C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, 2022
F.B. Berardi, Respirare. Caos e poesia, Sossella, 2019
V. Codeluppi, Mondo digitale, Laterza, 2022
D. De Kerckhove, Dall’alfabeto a internet. L’homme «littéré»: alfabetizzazione, cultura, tecnologia, Mimesis, 2008
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), Einaudi, 2019
P.K. Dick, Un oscuro scrutare (1977), Fanucci, 2019
F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, 2007