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Archiviare il presente
Il punto di vista degli artisti

Archivio Giulio Paolini, courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini.

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Il tema dell’archivio è uno dei più urgenti per una propedeutica ricostruzione di una nuova storia degli artisti e dell’arte, grazie a un lavoro che non può che essere sistematico nella ricognizione di dati, tracce, testimonianze, documenti (anche quelli apparentemente marginali), opere, e quanto possibile per una rielaborazione di vicende più o meno ampie, riguardanti soprattutto determinati anni. È inoltre un argomento che, solitamente, viene discusso a proposito di tutto ciò che è storicizzato o in procinto di diventarlo. Questo contributo vuole invece concentrarsi su come gli artisti italiani delle ultimissime generazioni stiano impostando un proprio possibile archivio, privato o addirittura intimo, in ogni caso libero dalle regole che generalmente si praticano negli archivi impostati in maniera consueta; d’altronde, l’archivio di un artista nel pieno della propria progettualità e operatività non può che essere uno spazio costantemente in movimento, un luogo perennemente in transito, mentre in alcuni casi è parte integrante dello stesso percorso di ricerca. In Italia, la complessa questione dell’archiviazione della storia dell’arte del secondo Novecento, sta portando a progetti di grande pregio, che si sono sviluppati e si stanno sostenendo all’interno delle istituzioni – pensiamo all’impegno della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, anche con le recenti acquisizioni dei fondi archivistici delle gallerie L’Attico e Marilena Bonomo; al Castello di Rivoli, con la mostra dello scorso anno sull’archivio di Achille Bonito Oliva, all’interno di un ciclo voluto da Carolyn Christov-Bakargiev e avviato con Harald Szeemann; al MAXXI, con il focus sulla Galleria Ugo Ferranti, curato da Maria Alicata; o al Polo Biblio-Museale di Lecce, con l’Archivio Carmelo Bene –, attraverso pubblicazioni, studi e momenti espositivi. C’è, inoltre, l’attività degli archivi degli studiosi (sempre il MAXXI ha dedicato un focus a quello di Alberto Boatto, mentre lo Studio Celant ha in preparazione, per settembre 2022, un ciclo di convegni in cui certamente emergeranno i perimetri aperti dell’archivio di Germano Celant, che a questo discorso ha dedicato pionieristiche attenzioni sin dalla metà dei Sessanta) e, anzitutto, degli artisti, attraverso la dedizione di eredi, gallerie, storici dell’arte e archivisti, con finalità che riguardano il riordino dei loro percorsi. Infine, operazioni legate al collezionismo e al mercato. Su «Arte» (Cairo Editore), con il fondamentale sostegno del direttore Michele Bonuomo e della caporedattrice Fabiana Fruscella, per oltre un anno, dalla fine del 2020, ho pubblicato mensilmente un servizio dedicato a singoli archivi di artisti italiani del secondo Novecento, diversi per impostazione e pratiche. Da archivi di lungo corso, come quelli dedicati a Piero Manzoni e Lucio Fontana – quest’ultimo è stato probabilmente il primissimo, grazie all’impegno generoso e pionieristico della moglie Teresita –, all’Archivio Luciano e Carla Fabro, gestito con rigore dalla figlia Silvia ma nei fatti già avviato dall’artista e da sua moglie; dagli archivi di Mario e Marisa Merz, Carla Accardi e Antonio Sanfilippo, Alighiero Boetti, Giosetta Fioroni, Fabio Mauri, Franco Angeli, Piero Dorazio, a quelli dedicati a due maestri ancora molto operativi, Emilio Isgrò e Giulio Paolini, che a questo soggetto ha dedicato una parte significativa di tutta la sua parabola artistica. Adesso è arrivato il momento di investigare cosa accade negli studi degli artisti italiani delle generazioni successive. Ho invitato a riflettere su questa tematica artisti molto distanti tra loro per generazione, attitudini, linguaggi adottati e operatività; perciò in questo contributo mi è parso opportuno pubblicare direttamente, spesso senza alcuna mediazione, il loro pensiero, all’interno di una discussione quanto mai aperta. L’archivio è infatti, anzitutto, una storia privata, e quindi penso sia corretto ascoltarli. Si va da un artista con ormai una lunga storia alle spalle, Marco Tirelli, al giovane Andrea Polichetti: le prospettive di tutti sono sempre molto indipendenti e per certi versi originali. Hai un archivio del tuo lavoro recente e passato? Come è organizzato? Che valore ha per te il processo di archiviazione? Il mondo dell’arte, oggi, richiede anche questo genere di impegno? Sono questi i quesiti che ho posto loro.

«Ho un archivio che raccoglie tutte le mie opere realizzate dal 2003 a oggi. Fondamentalmente è diviso in due parti, una consiste in un archivio di file word, un file per ogni opera, nel quale sono raccolte le informazioni tecniche riguardanti il lavoro (materiali, dimensioni, imballo, insieme con un breve testo che ‘racconta’ la sua produzione, sia in italiano che in inglese), i dati relativi alla proprietà dell’opera e a dove si trova, dove è stata esposta, dove è stata pubblicata, ed eventuali indicazioni di montaggio o mantenimento. Il secondo archivio è quello delle immagini, molto semplicemente si tratta di una raccolta di cartelle, anche qui una per opera, dove sono conservati i disegni di progettazione, foto della lavorazione e foto della versione finale anche in differenti contesti espositivi. Questi due archivi sono conservati in diverse copie su vari pc e hard disk». A raccontare così la propria idea di archivio è Francesco Arena (Torre Santa Susanna 1978), che suggerisce anche un tema di primaria importanza: «L’archivio mi serve per rivedere velocemente le opere, cercare connessioni tra i lavori». Si evince pertanto che ha nel suo lavoro una valenza concreta, tangibile, anche per la ricerca nella sua essenza.

Andrea Polichetti (Roma 1989) mi suggerisce invece che «il lavoro esiste nel momento in cui può essere raccontato attraversando il tempo». E poi focalizza l’attenzione sull’importanza di questa pratica per gli artisti della sua generazione: «Credo che l’archiviazione dei giovani artisti sia molto razionale per una questione di mercato, riferito alla circolazione del lavoro. Sono i tempi del digitale a dettare la velocità di scambio delle immagini e l’artista deve essere al passo, sempre pronto a inviare il proprio materiale comportandosi come una galleria».

A Francesco Fossati (Lissone 1985) è così vicino il tema dell’archivio, che ha allestito uno spazio nel proprio studio per poter documentare adeguatamente le sue opere attraverso la fotografia. Un maestro come Marco Tirelli (Roma 1956) racconta di avere «un archivio digitale, organizzato in un database progettato appositamente per le mie necessità e le specifiche delle mie opere. Si tratta del programma FileMaker, che sicuramente è uno dei più adatti all’archiviazione, con tutte le infinite e possibili parole chiave di richiamo a un’opera. Dalle più ovvie e scontate: titolo, anno, dimensione, collocazione, fino ai temi e ai contenuti delle opere stesse. Ho una persona dedicata completamente ed esclusivamente all’archiviazione e all’aggiornamento costante di questo database».

«Dieci anni fa circa ho avviato un lavoro di archiviazione e messa in ordine cronologico del mio lavoro e di tutti i materiali che gravitano intorno a esso (comunicati stampa, inviti, articoli, interviste…). L’ho organizzato in scatole, che non ho mai più riaperto. La tua domanda mi fa riflettere sulle modalità di archiviazione che più di frequente pratico, la creazione e l’aggiornamento di due tra i format attraverso cui il lavoro artistico circola online: il portfolio e il sito web», precisa invece Valentina Vetturi (Reggio Calabria 1979). Per Giuseppe Stampone (Cluses 1974), invece, l’archivio è parte integrante del tessuto del proprio lavoro, la sua indagine infatti presuppone un’operazione costante di ricognizione di immagini e immaginari appartenenti a differenti ambiti sociali e culturali. Ecco la sua idea di archivio: «Ogni due anni faccio una pubblicazione dei miei ultimi lavori – sono arrivato a dieci pubblicazioni –, credo infatti molto in questo metodo di archiviazione attraverso scritti critici con le immagini delle nuove opere realizzate due anni prima».

Alberto Gianfreda (Desio 1981) mi racconta che «gli archivi sono diventati social, accessibili, consultabili e interattivi. Inoltre, vorrei che nel futuro l’archivio diventasse un vero e proprio strumento di racconto all’interno di pratiche e linguaggi che sono sempre più differenziati e plurali, difficili da ‘rappresentare’ in una ridotta selezione di immagini. Il mio desiderio, infatti, è riuscire a individuare un metodo che intrecci i dati tecnici delle opere con la dimensione biografica: categorie e vita, un archivio dinamico che possa contenere sia le opere sia gli incontri». Mentre Domenico Antonio Mancini (Napoli 1980) mi scrive: «Devo dirti che la tua richiesta e le tue domande arrivano in un momento in cui mi sto ponendo con particolare attenzione la necessità di pensare a una sistematizzazione del materiale che conservo. A dirla tutta, forse più che archiviare io ‘raccolgo’. Diversa è la questione dell’archiviazione delle opere nel loro aspetto oggettuale, per la quale mi affido all’archivio della Galleria (Lia Rumma, n.d.r.), che ha una modalità molto più strutturata di archiviare le informazioni. Probabilmente questo dipende, da un lato, dal fatto che mai ho vissuto i miei lavori come feticci, per cui una volta realizzati li ho affidati in tutto e per tutto a chi li potesse gestire». Una riflessione stimolante arriva da Daniele D’Acquisto (Taranto 1978): «Non ho un archivio. Mi limito a tenere traccia di idee, opere, sperimentazioni, esperienze e documenti nella loro naturale linea di evoluzione, la ricerca. Parliamo di ricerca, non di archivio. Se fai ricerca hai necessità di registrare procedure, comportamenti, ‘fenotipi’ e sfumature poetiche funzionali all’autopoiesi di quella ricerca. Ci riferiamo in tal caso a un processo che, una volta innescato, non cessa mai di autoalimentarsi. Questo è il tipo di archivio che mi interessa».

Antonio Marras (Alghero 1961) opera mescolando linguaggi e approcci, moda, design, arti visive, abbattendo gli steccati dei generi. Mi dice: «Ti rispondo molto francamente: non ho un archivio vero e proprio, perché sono molto più attratto da quello che ancora deve accadermi e non da quello che mi è già accaduto. A questo aggiungi che non semplifica le cose il continuo intreccio degli ambiti creativi, e un metodo di lavoro che non diviene mai materiale documentario. Però quasi tutte le mie opere, le performance, gli allestimenti, sono fotografati da Daniela Zedda… forse è lei il mio personalissimo e prezioso archivio. Se invece si parla di ‘stracci’ è tutt’altro discorso. Possiedo oltre 10.000 capi di ogni natura e origine. Capi miei di oltre trent’anni di collezioni, abiti d’epoca, abiti vintage, abiti di mia mamma e abiti speciali. Non faccio differenza tra haute couture e fast-fashion, tra stilisti e produzioni in serie. Tra abiti tradizionali, abiti di Chanel e di H&M. Io archivio tutto, accessori, ricami, tessuti, scampoli, maglie, costumi, foulard, cappelli, scarpe, decori, sciarpe, scialli, collane e cerchietti. Archivio con passione, con istinto, con amore e con senso del possesso. Mi ricordo di ogni pezzo e ognuno per me è ‘piezz’ ‘e core’». Per Silvia Giambrone (Agrigento 1981), «il processo di archiviazione è, a dispetto di quanto si possa credere quando si è artisti giovani, molto importante. Io, che sono di filosofia lonziana, lo interpreto come una revisione attiva di quello che il mio lavoro è stato e di quello che anche la mia vita è stata», mentre Claudia Losi (Piacenza 1971) mi racconta di avere «una documentazione parziale di alcuni dei miei lavori realizzati con una galleria con cui collaboro da tempo, ma non di tutti, soprattutto meno presenti sono quelli che hanno richiesto una lunga e complessa fase progettuale. Ho comunque un archivio mio, fisico e digitale, dove ho raccolto i vari step che molti dei miei lavori hanno avuto. Senza però un processo d’archiviazione razionale. Forse raccolti piuttosto per ‘simpatia’ materiale e di prossemica concettuale».