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In mille pezzi
Una lettura di Extreme Self di Basar, Coupland e Obrist

Tishan Hsu, Grass-Screen-Skin / Object 1, 2022, getto d’inchiostro a polimerizzazione UV, silicone, acrilico, acciaio inossidabile, inchiostro su legno, 121,9 x 228,6 x 13,3 cm, courtesy l’artista, Miguel Abreu Gallery, New York, Empty Gallery, Hong Kong, ©2022 Tishan Hsu / Artists Rights Society (ARS), New York, foto Stephen Faught

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Si racconta che, per il timore di infrangersi in mille pezzi, re Carlo VI di Francia girasse imbottito di coperte dalla testa ai piedi. La cosiddetta ‘glass delusion’ aveva raggiunto il picco: apparentemente, gli avanzamenti nella lavorazione del vetro avevano non solo scatenato associazioni con magia nera e alchimia, ma originato una vera e propria sindrome. Leggendo queste storie, si finisce per pensare che con i cambiamenti repentini, e a tratti caotici, dell’ultimo decennio, non ce la stiamo poi cavando così male. Anzi, infonde una sorta di sicurezza vedere con quanta prevedibilità il nuovo sia stato accolto con meraviglia, mista a varie gradazioni di angoscia, fino al puro terrore. Ogni invenzione o scoperta susseguitasi sotto ai nostri occhi – sempre fosse qualcosa di visibile – è stata accompagnata dall’accusa di comportare lesioni irreparabili a quel ‘qualcosa’ che ci rende davvero umani, prefigurando un futuro in cui la specie, da quel qualcosa, possa definitivamente separarsi.

Oggi, mentre scrolliamo senza farci particolarmente caso feed con milioni di fotografie realizzate da oblò in alta quota, fa quasi tenerezza guardare la più antica foto aerea sopravvissuta, scattata da James Wallace Black nel 1860 da una mongolfiera, e rileggere la sua didascalia originale: «Boston, come la vedono l’aquila e l’oca selvatica». È lo stesso stupore suscitato dai primi paesaggi scomposti in fasci di luce dal finestrino di una locomotiva, la stessa paura che dai dagherrotipi emanasse «lezzo di sortilegio e fetore di rogo». E, se la leggenda metropolitana dei primi cinespettatori che si precipitavano fuori dalle sale terrorizzati dall’arrivo del treno proiettato in stazione è arrivata fino a noi, un motivo ci sarà.

La commistione tra umano e macchina ha sempre destato sospetti, e se abbiamo imparato a gestire abbastanza bene il modo in cui la tecnologia ha cambiato la nostra concezione di spazio e tempo, siamo un po’ meno blasé quando si tratta di considerare come sta mutando il modo di percepirci.

Nelle pagine introduttive al libro Nuova era oscura, James Bridle osserva quanto senza un’alfabetizzazione diffusa, che ci permetta di comprendere il funzionamento della complessa rete tecnologica di cui ormai siamo parte indivisibile, rischiamo di diventare stranieri a noi stessi: «Non servono nuove tecnologie, ma nuove metafore: un metalinguaggio per descrivere il mondo che i sistemi complessi hanno creato. È necessaria una nuova terminologia che riconosca e allo stesso tempo affronti la realtà di un mondo in cui persone, politica, cultura e tecnologia sono irrimediabilmente intrecciate».

È quello che provano a fare Shumon Basar, Douglas Coupland e Hans Ulrich Obrist con The Extreme Self. Age of You, una sorta di breviario della contemporaneità che tenta di mostrare come il concetto di individualità sia plasmato dal ‘presente estremo’ in cui stiamo vivendo. Il precedente libro dei tre autori, The Age of Earthquakes. A Guide to the Extreme Present,tentava di mostrare, attraverso aforismi visuali, in che maniera la tecnologia abbia contribuito a riscrivere lo spazio-tempo. The Extreme Self applica invece la struttura de Il secolo breve di Eric Hobsbawm a un lasso temporale significativamente più breve, il quinquennio che separa la morte di David Bowie (per gli autori, il primo ‘extreme self’) dall’iniziale insorgere del Covid, e la usa per demolire l’impalcatura ideologica del suo inventore.

Infatti, mentre Hobsbawm disegnava uno scenario contraddistinto da opposizioni binarie e ideologie cristalline, i cui estremi erano la feticizzazione della massa da una parte, e dell’individuo dall’altra, The Extreme Self descrive un mondo in cui questa opposizione non ha più senso: l’io si espande, la folla si dematerializza. Una delle pagine recita, tagliente: «L’individuo non è mai stato così facilmente esibibile, eppure l’individualità non è mai stata così inconsistente». La fusione tra reale e virtuale, sostiene il libro, non ha risparmiato la nostra identità, mutata in una specie di entità rizomatica, ramificata su supporti e piattaforme, fino a divenire qualcosa di radicalmente diverso da ciò che chiamavamo individualità anche solo dieci anni fa. L’io si sta sgretolando e moltiplicando: un paradosso che per la Generazione Z assomiglia molto da vicino alla vita quotidiana.

Nel ‘capitalismo emotivo’ del presente estremo, il narcisismo ossessivo coincide paradossalmente con la dissoluzione dell’io: ogni aspetto della nostra esistenza è estraibile, monetizzabile e performabile in un complesso sistema di self-broadcasting prevalentemente visuale. Per i nativi digitali, l’idea di abitare un avatar è un fondamento, non più problematico, dell’identità: parafrasando lo strillo di Ready Player One, nella rete ci vai per quello che puoi fare, ma rimani per quello che puoi diventare – e il film di Spielberg è uscito un paio d’anni (un’era, ai parametri attuali) prima del Metaverso.

Qualunque cosa sia, questa specie di mutazione permanente non ingenera solo panico – anzi. Per artisti come Andrew Thomas Huang, che dai burattini fisici è passato alla loro versione digitale, la reazione più immediata è una sorta di euforia: «In un’epoca in cui il confine tra identità virtuali e reali è crollato», ha raccontato in un’intervista recente, «noi queer e persone di colore, spesso ci sentiamo più a nostro agio in uno spazio ibrido, dove possiamo costruire le nostre identità secondo coordinate non completamente umane. È come un drag digitale».

Ma, se per ragioni evidenti, minoranze, sottoculture digitali e tecnoutopisti vedono con favore qualsiasi espansione, e beninteso qualsiasi erosione, dell’identità, il tema circola nell’immaginario collettivo con la continuità di un’ossessione. Serie televisive e film quali Inventing Anna, The Dropout, Il truffatore di Tinder, Bad Vegan: fama, frode e fuggitivi, Untold: la fidanzata inesistente, espressioni dell’intrattenimento contemporaneo, raccontano la paura, e l’attrattiva, dell’identità in quanto performance.

Da quando esiste, la cultura popolare agisce come sismografo, captando le inquietudini sotterranee e restituendole in forma di immagini – che oggi significa essenzialmente social media e serie TV; più, attenzione, sfilate. Leggere le note dell’ultimo show di Balenciaga, equivale a fare un tuffo nel trauma identitario collettivo: il rifiuto di ogni catalogazione, l’idea dell’identità come campo di battaglia, i rimandi apocalittici ai nuovi nazionalismi, l’esortazione finale «let us let everyone be anyone» – Demna Gvasalia non lascia fuori nulla. Negli ultimi anni, il sistema moda ha risposto alla vertigine del cambiamento con metamorfosi radicali non solo dei prodotti, ma anche dei ruoli che li disegnano. Un esempio per tutti è quello del direttore creativo, che ormai cura e aggrega una moltitudine di stimoli e ispirazioni per poi canalizzarli in un contenitore, il brand, sempre più simile a una mente alveare: espansioni, annessioni, collaborazioni.

Del resto, anche il ruolo dell’artista sta cambiando: molto meno peso all’individualità ottocentesca, il fuoco tutto su un curioso parallelo con le botteghe preromantiche, dove la firma aveva un valore relativo, quando non inesistente. Ormai le immagini, lingua franca della contemporaneità, sono fatte per approdare in rete, diventando proprietà comune e prendendo significato nella reinterpretazione da parte di un pubblico svariato, dal professionale al generalista. Persino l’algoritmo individualista di Instagram sta lasciando il passo a quello partecipativo di TikTok, dove l’espressione individuale può in effetti divenire virale, ma solo sfruttando un’onda collettiva, ‘surfandoci’ sopra. Sempre ci si riesca. È un evento culturale estremo, da cui Coupland appare ipnotizzato, anche per via del paradosso su cui si regge: da una parte abbiamo tutti un ‘cervello da internet’, una mente forgiata dagli stessi media e, forse per la prima volta nella Storia, una sensibilità planetaria comune; dall’altra, si sta progressivamente sgretolando il senso di una realtà condivisa: scaraventati dagli algoritmi nei nostri personali rabbit hole, sviluppiamo gusti e ossessioni che non possiamo esser sicuri né di aver creato, né di aver voluto radicalizzare.

Un buon equivalente visivo di questo processo sono le opere di Tristan Hsu: un mix di glitch fotografici, elettricità statica e orifizi, frammenti umani che sembrano cercare di fuoriuscire dalla superficie dell’opera, come tanti bozzoli sul punto di schiudersi. Hsu riflette su tale commistione di forme organiche e sintetiche dagli anni Ottanta, quando, lavorando a Wall Street, aveva osservato quanto la nostra esistenza si stesse legando indissolubilmente a uno schermo. Se nelle interviste gli fanno notare che pare aver predetto il futuro, Hsu risponde di aver solo cercato, fin dall’inizio, di raccontare il presente: che oggi però, in effetti, percepisce sempre più come futuro anticipato.

Tutto ciò si ha la sensazione che accada con velocità diversa rispetto al passato – una velocità che impedisce alla mente di trasformarsi abbastanza in fretta – e reagire. È una delle conclusioni cui arrivano anche i tre autori di The Extreme Self, sostenendo che oggi solo chi ha più di quarant’anni è ancora in grado di dire cosa sia un individuo nel senso classico del termine: ma quello stesso individuo comincia a pensare che siffatta consapevolezza, ormai, «è quasi uno svantaggio».

Verrebbe da rispondere con le parole di Virginia Woolf, che ne La signora Dalloway scrive: «la consolazione della vecchiaia […] è semplice: le passioni restano forti come sempre, ma si guadagna, finalmente, quella capacità che aggiunge all’esistenza il suo gusto supremo: saper tenere l’esperienza nelle proprie mani, e girarla, lentamente, verso la luce».

Forse, libri come The Extreme Self ci invitano a fare proprio questo: a fermarci, a osservare lentamente cosa stiamo diventando. Sarà anche una forma di consolazione, ma magari aiuterà a non imbottirci di coperte, per paura di andare in frantumi.