Cerca
Close this search box.

Un futuro dopo il futuro
La potenza dell’evento contro la trappola della nostalgia

Questo articolo è disponibile anche in: English

Quando nel 1977 il movimento punk lanciò sul mondo il suo urlo – no future! ‒ sembrò davvero che un’epoca volgesse ormai al termine. Da quel momento, in effetti, il futuro avrebbe smesso di essere un orizzonte carico di aspettative e di liberazione individuale e collettiva, per diventare invece – sempre di più nei decenni successivi – una fonte di angoscia e moltiplicazione delle incertezze e delle paure, fino a scomparire del tutto dalla nostra esperienza percettiva. Ma il futuro, come aveva profeticamente anticipato l’ultima controcultura del XX secolo, ha davvero esaurito la sua spinta propulsiva dal punto di vista esistenziale e culturale? Davvero il tempo non è che un eterno presente nel quale non possiamo che provare nostalgia per un futuro che è solo un ricordo da conservare come un cimelio prezioso o intorno cui costruire le trame di qualche serie tv?

In realtà, se analizziamo un po’ meglio quel ‘futuro’ di cui il punk decretava la morte, ci accorgiamo di come esso corrispondesse a quell’ideologia del progresso nata da una lenta e stratificata secolarizzazione dell’escatologia ebraico-cristiana, qualcosa che aveva caratterizzato a lungo la storia dell’umanità, la sua cultura e le sue forme. Il ‘darwinismo linguistico’ di cui Achille Bonito Oliva parlava nel suo saggio-manifesto uscito su «Flash Art» nel 1979 era in effetti il prodotto di quell’ideologia di cui lui stesso registrava l’esaurimento nell’ambito di un’arte contemporanea che, invece di procedere, stava assecondando una deriva che in poco tempo avrebbe condotto alla ripetizione di linguaggi appartenenti a un passato più o meno recente, utilizzando i reperti archeologici del nostro patrimonio visivo come strumento per dare vita a opere che non avrebbero più risposto all’ossessione del nuovo a ogni costo.

Sia il punk che la transavanguardia, insomma – anche se in modi e con intenzioni strategiche diverse ‒, segnalavano l’esplosione di quel futuro figlio di una concezione del tempo lineare che, in quanto ‘progresso’, era da sempre ‘in garanzia’. Contemporaneamente segnalavano la frammentazione di quel soggetto che si era pensato come unitario – oltre che bianco, occidentale e maschio ‒ proprio a partire da una precisa idea del tempo: moderno, eurocentrico e coloniale. Non è un caso, quindi, che proprio a partire da allora siano iniziate a emergere soggettività ‘altre’ ‒ e significativo in questo senso è anche che Bonito Oliva considerasse i suoi artisti come soggettività ‘minori’ ‒ che hanno iniziato a occupare la scena culturale e sociale emergente. Ma queste soggettività hanno un loro tempo e una loro idea del futuro?

Se pensiamo alle conseguenze di quell’esaurimento del futuro di cui parlavamo all’inizio, ci accorgiamo che la nostalgia, sentimento predominante del nostro tempo, è in effetti il prodotto della fine di quello stesso futuro: è ciò che è rimasto nel momento in cui le promesse hanno smesso di avverarsi, quando siamo diventati incapaci di immaginare il futuro al di là della contrazione tra spazio di esperienza e orizzonte di aspettativa in cui siamo rimasti intrappolati. Se la nostra è una cultura nostalgica – come indicano Zygmunt Bauman, Simon Reynolds, e più recentemente, in Italia, Lucrezia Ercoli e Alessandro Gandini – lo è perché è rimasta irrimediabilmente orfana di quel particolare futuro a cui aveva creduto per diversi secoli, senza riuscire a elaborare il lutto della perdita. Così, le varie patologie culturali di cui soffriamo (la nostalgia appunto, il vintage come reinvenzione del passato, la difficoltà, se non l’impossibilità di avere ricordi nuovi che ci obbliga a rielaborare continuamente gli stessi materiali, la sensazione che il tempo sia un disco rotto, che rimandi in loop sempre lo stesso brano) nascono da una incapacità di superare fino in fondo quel trauma.

Questo tempo del progresso che abbiamo perso, tuttavia – ce lo ha insegnato Walter Benjamin – non è altro che il tempo della borghesia e della sua civiltà. quello dell’uomo in quanto in-dividuo (unità non ulteriormente divisibile). Il futuro corrispondeva soltanto al ‘suo’ tempo, così come lo aveva immaginato, previsto e desiderato. Una società postborghese o postmoderna come la nostra è inevitabilmente condannata a essere orfana di quel tempo e, di conseguenza, di un futuro, o può forse tentare di elaborare una diversa idea di esso, che recuperi un avvenire non più fondato sulle strutture culturali antropologiche di quel mondo passato? Se scandagliamo meglio la storia del pensiero ci accorgiamo che il concetto di tempo, e conseguentemente le strutture del presente, del passato e del futuro, provengono da una tradizione metafisica sotto la quale, come un fiume carsico, è sempre corsa un’alternativa materialista. Se tentiamo di analizzare questa alternativa (che esprime tutte le sue potenzialità proprio quando la metafisica ha esaurito le sue) e proviamo a studiarla meglio di quanto si sia fatto finora, ci accorgiamo che essa ha sempre concepito il tempo in maniera simile a quella della fisica ‘postnewtoniana’ e quantistica, nella quale l’idea di futuro, lungi dal poggiare su principi metafisici, viene piuttosto concepita come spazio aleatorio dell’evento. Qualcosa che ancora non è, ma potrebbe essere, dentro una dimensione in cui l’occasione apre alla potenza del possibile. Questa tradizione, ripercorsa nei suoi ultimi scritti da Louis Althusser, pensa l’avvenire come una possibilità che si dà nell’incontro, come una contingenza senza garanzie. Qui il futuro non è quello che ci siamo lasciati alle spalle, dal quale sembra che non riusciremo a liberarci, ma è piuttosto qualcosa di completamente diverso, che rimanda alla dimensione del possibile: qualcosa che potrebbe, ma potrebbe anche non, essere.

Questa non è forse un’idea del tempo che recupera l’avvenire, pensandolo come possibile, senza nostalgia per qualcosa che è stato, ma non sarà più? Non è forse una concezione senza rimpianti, che ci evita di rimanere catturati nell’illusione di un presente eterno, che finisce per deprimere qualsiasi possibilità di trasformazione collettiva e anche individuale? La dimensione del possibile, della contingenza, dell’evento (del kairós, avrebbero detto gli antichi greci) non è forse quella che – per rispondere alla domanda che ci ponevamo in apertura ‒ restituisce alle soggettività un orizzonte futuro? Non è forse questo il futuro ‘dopo’il futuro? E non è questo il tempo di una prospettiva culturale finalmente diversa, non più ‘posto‘iper’moderno, ma veramente alternativo rispetto a quello che ci siamo lasciati alle spalle? Non è da qui che possiamo concretamente varcare le soglie di una modernità esausta, con tutti i suoi reperti, e provare a ripensare il mondo e la nostra relazione con esso? E tutto questo non è forse qualcosa che non dobbiamo augurarci che accada, né è qualcosa che dobbiamo porre a tema, un ‘dover essere’ che qualcosa o qualcuno dovrebbe imporci, perché in realtà si tratta di un sentimento culturale che è già largamente diffuso, così come testimoniano anche alcune pratiche artistiche degli ultimi anni?

Se, alla luce di queste brevi considerazioni, pensiamo a quei lavori di Claire Fontaine e Margherita Moscardini che riflettono sul presente e le sue contraddizioni e che intendono la politica come rottura e trasformazione, o a quelli di Lara Favaretto e Eugenio Tibaldi, rispettivamente dedicati al tema della festa e agli spazi marginali, o ancora a quelli di Rossella Biscotti e Gian Maria Tosatti relativi alla nostra memoria collettiva e al nostro recente passato sociale e culturale, ci accorgiamo che questi, lungi dall’essere un esempio di ossessione nostalgica – come qualche volta si è troppo sbrigativamente detto – sono piuttosto opere che, elaborando profondamente il lutto della perdita, aprono a una dimensione dell’evento che restituisce al nostro orizzonte l’opportunità di intendere la frattura come discontinuità, dunque come possibilità che si contrappone all’ineluttabilità. In questo senso è ragionevole pensare che si sia concluso un lungo ciclo culturale di celebrazione ‘revivalistica’, che la potenza dell’evento stia riuscendo a liberarci dalla trappola della nostalgia, e che ricordi finalmente nuovi inizino a fare irruzione nel nostro immaginario individuale e collettivo, restituendoci quella dimensione del ‘possibile’ che ci permette, ancora una volta, di immaginare il futuro.

Riferimenti bibliografici

G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, 1978
L. Althusser, Sul materialismo aleatorio, Mimesis, 2006
Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, 2017
F. Berardi, Dopo il futuro. Dal Futurismo al Cyberpunk: L’esaurimento della Modernità, DeriveApprodi, 2013
A. Bonito Oliva, La transavanguardia italiana, Giancarlo Politi Editore, 1980
L. Ercoli, Yesterday. Filosofia della nostalgia, Ponte alle Grazie, 2022
A. Gandini, L’età della nostalgia. Populismo e società del post-lavoro, Treccani, 2021
G. Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Bollati Boringhieri, 2020
S. Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, I Libri di Isbn / Guidemoizzi, 2011
C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017