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Un esorcismo non riuscito
Le distopie del XX secolo sono le ombre dei costrutti del XXI

Funerali di Mao Tse-Tung, Pechino 1976. Foto ufficiale del partito dopo la rimozione di quattro alti funzionari presenti nello scatto originale

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In 1984, di George Orwell, il lavoro del protagonista, Winston Smith, consiste nella correzione e nella riscrittura del passato per uniformarne l’immagine alle esigenze del governo totalitario di Oceania. L’operazione ricalca visibilmente le procedure di damnatio memoriae e di executio in effigie messe in atto dai regimi del cosiddetto socialismo reale, e se la storia di queste pratiche è molto antica – la si rinviene già nelle abrasioni dei volti regali nella statuaria egizia o alle massicce distruzioni, descritte da Plinio il giovane, successive all’assassinio dell’imperatore Domiziano, avvenuto nel 96 d.C., si prolunga nelle decapitazioni di santi e personaggi della storia biblica nelle chiese di Francia scaturite dalla furia iconoclasta dei rivoluzionari del 1789, la si ritrova, quasi come nemesi, nei vari abbattimenti di monumenti celebrativi dei capi comunisti dopo i crolli del 1989-1991 – gli idoli crollano senza posa, ma il meccanismo della riscrittura può farsi più sottile. Tra abbattere il passato, facendo tabula rasa dei suoi segni e dei suoi simulacri, e riscriverlo seguendo i bordi delle sue cancellature, vi è una differenza che passa per l’immaginario: l’esempio più ingenuo e più flagrante di questa disposizione d’animo (che non si contenta dell’oltraggio vandalico e della riduzione in maceria dei simboli di un potere odiato) lo si incontra in due fotografie ufficiali dei funerali di Mao Tse-Tung. A dire il vero, solo la prima è una fotografia, la seconda, elaborata nel giro di pochi mesi, è piuttosto una sua manipolazione. Nella prima si vedono i dirigenti del partito comunista cinese schierati in una lunga fila per rendere omaggio alla salma del Grande Timoniere, nella seconda, invece, in quella linea continua si è aperto un vuoto nello spazio precedentemente occupato dai corpi della cosiddetta ‘banda dei quattro’, nel frattempo caduta in disgrazia: primo artigianale tentativo di modificare radicalmente la narrazione di un passato colpevole, con un’operazione straniante, ambiguamente sospesa tra il reale e il simbolico, visibile e invisibile al tempo stesso. Secondo lo stesso prinicipio, l’intelligenza artificiale, che oggi entra nel futuro per anticipare le immagini dell’arresto di Trump, o che proietta il Papa nella dimensione parodistica della moda, potrebbe fare miracoli nella costruzione di ‘verità alternative’ di ogni genere e al servizio di qualunque causa. Se solo l’idea stessa di verità – e per cominciare quella di verità fotografica oggetto di una vera e propria persecuzione nelle riflessioni teoriche di Joan Fontcuberta – non fosse stata completamente vanificata dal delitto perfetto (come lo chiamerebbe Jean Baudrillard) delle tecnologie digitali e dalla loro incondizionata capacità di produrre fantasmi o indecidibili visioni more than reality. Le distopie letterarie del Novecento – da 1984 a Noi di Zamjátin, a Il racconto dell’Anticristo di Solov’ëv e Il mondo nuovo di Huxley – ruotavano inesorabilmente attorno al mito illuministico del progresso lineare, proiettando le contraddizioni del presente, e di quel presente ideologico (fosse esso incardinato sull’emancipazione politica o sul trionfo della razionalità scientifica) in un futuro degradato che, in realtà, si proponevano di scongiurare nella stessa misura in cui l’enunciavano, di scongiurare perché lo enunciavano (se lo scrivo e lo rappresento ─ suona il loro comune esorcismo ─ non avverrà, perché è sul piano critico della finzione che la sua possibilità verrà consumata; non funzionano molto diversamente, come ha sottolineato Slavoj Žižek, monumenti filosofici come la ‘società amministrata’ evocata dai pensatori della scuola di Francoforte, nel tentativo di ritardarne e di intralciarne l’instaurazione). E forse non va dimenticato che, introducendo la terza edizione francese di un libro oggi considerato profetico quale La società dello spettacolo, Guy Debord scriveva: «Il faut lire ce livre en considérant qu’il a été sciemment écrit dans l’intention de nuire à la société spectaculaire»[1]. In tutte queste opere, alle quali si potrebbero annettere capolavori della fantascienza pessimistica come Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, la ‘rottura della continuità con il passato’, l’avvento di una mutazione antropologica radicale, la costruzione di nuovi mondi abitati da una nuova umanità, quasi sempre peggiore di quella precedente, più efficiente ma più fredda, più geometricamente razionale (in Noi di Zamjátin la società del futuro assume l’aspetto estetico di una sorta di ‘incubo costruttivista’) ma meno umana, costituisce la vera posta in gioco di una critica radicale del moderno che rivela il lato negativo del progresso, il seme avvelenato del futuro, mostrandone l’oscurità (proprio come nella Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno), integrando e ribaltando in tal modo anche le proiezioni romantiche spinte fino ai confini del post-umano di scrittori come Mary Shelley (Frankenstein o il moderno Prometeo) o Villiers de l’Isle-Adam (Eva futura). Sia esso riferimento mitico che alimenta il millenarismo di alcune visioni apocalittiche in cui la fine torna nell’inizio (come in Solov’ëv, il cui modello è esplicitamente l’Apocalisse biblica), sia esso oggetto di una nostalgia più esistenziale e carnale (in Orwell e in Bradbury), perché il passato? Perché il passato ha il vantaggio e il torto di ‘esistere’, di essere inamovibile nella realtà (neanche Dio, secondo la filosofia medievale, sarebbe in grado di far tornare il tempo su sé stesso) ma infinito nell’interpretazione. In questa stessa irrisoluzione si annida l’eccezione alla travolgente rimozione che si intravede nel futuro – che però germina in ‘questo’ presente – la minima, e tuttavia decisiva, resistenza che esso oppone a ‘quella tempesta che chiamiamo progresso’. L’anticipazione romanzesca o comunque finzionale, in realtà, ritarda, si attarda, sospende il tempo nella movenza perplessa dell’angelo della Storia benjaminiano.

Impossibile registrare il momento in cui, come diceva Paul Virilio, l’arte si separa dai corpi. Ma molti indizi sembrano indicare che la letteratura di anticipazione del Novecento corrisponde e risponde a una profonda crisi figurativa che colpisce l’umano sotto diverse forme: disperdendone la singolarità in una collettività organica e massificata (il ‘grande animale platonico’ a cui spesso fa ricorso Simone Weil nei suoi scritti) modificandone la struttura biologica e percettiva, e rimuovendone le radici culturali e storiche (un movimento, quest’ultimo, che Christopher Lasch continuerà a descrivere nella sua polemica antiprogressista degli anni Settanta e Ottanta). Il corpo, il corpo vissuto nel senso di Husserl e Merleau-Ponty, diventerà spesso la cartina di tornasole della rivolta contro il futuro distopico e del distacco dal suo ordine disciplinare. Ne Il racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv, recentemente resuscitato sullo schermo dal regista romeno Cristi Puiu (Malmkrog, 2019), in una versione tanto rigorosa quanto cerebrale de I tre dialoghi del pensatore russo, il messia anticristico che vuole riunire le religioni sotto il proprio potere viene smascherato dall’idea ebraica di ‘santità del corpo’, nel momento in cui gli ebrei scoprono che questo preteso messia non è nemmeno circonciso. In 1984, la disobbedienza di Winston coincide con la scoperta di una passione erotica dissonante con l’ordine di una società in cui il desiderio sessuale è stato relegato nell’universo inferiore dei cosiddetti prolet. In Fahrenheit 451, romanzo che anticipa con disinvoltura fenomeni quali la serialità televisiva e il reality show, è l’incorporazione della memoria a salvare i monumenti della scrittura umana destinati al rogo. Ma forse il critico più intransigente di tutti delle ‘magnifiche sorti e progressive’ del moderno è Joseph Roth, che nelle pagineallucinate de L’Anticristo, considerato uno dei suoi romanzi minori e meno riusciti, intravede nel cinema, nuovo Ade, il futuro dominio di un universo di simulazioni: «E se siamo riusciti a far sì che delle ombre si muovano come uomini viventi sullo schermo del cinema […] questi miracoli dello schermo significano solo che la realtà che imitano così illusoriamente non era affatto difficile da imitare perché non è una realtà […] gli uomini viventi erano già divenuti così incerti che le ombre dello schermo dovevano apparire reali». La distopia di una società di alienazioni spettacolari rientra in tal modo nel luogo da cui probabilmente, per la prima volta, è uscita: nella caverna de La Repubblica di Platone.

Il geometrismo esasperato, l’intensificazione della luminosità che finisce per smaterializzare l’oggetto e si trasferisce come rivelazione da I pagliai di Monet nel giovane Kandinskij; l’esaltazione della lucida prestanza dei corpi – nelle fotografie di Rodčhenko o nei film di Leni Riefensthal – trasformati in macchine e uniti a esse da una nuova consanguineità (segnatamente nel futurismo) o assimilati alla duttilità tendenzialmente illimitata di quella supermarionetta che popola le scene dipinte di Depero, i balletti di Oskar Schlemmer, le irrealizzate visioni teatrali di Edward Gordon Craig; l’idea che il sapere più instabile e volatile – quello letterario – debba convertirsi in un’ingegneria dell’anima. Tutti questi elementi si danno il cambio e si confondono nel travolgente movimento delle avanguardie moderniste, e poco importa se il segno è antimimetico e non oggettivo, oppure figurativo e neoclassico, se si trasgredisce l’ordine o se si ritorna precipitosamente sotto un’autorità che non esiste più: un’aria di ri-creazione comunque intesa, o di de-creazione necessaria, spira sulle rivoluzioni artistiche del Novecento, insieme utopiche e distopiche, esaltate e terrorizzate. Ma i risultati non sono mai conformi alla lettera politica delle rivoluzioni che nel frattempo si fanno regime, i percorsi delle avanguardie storiche producono il loro contravveleno. Nel 1915, mentre si celebra l’olocausto del vecchio mondo, Giacomo Balla e Fortunato Depero scrivono il loro manifesto «per la ricostruzione futurista dell’universo», ma è una ricostruzione artigianale, che sembra volta a salvare dalla società di massa e dalla produzione in serie gli stessi valori creativi che hanno animato l’avventura di Arts and Crafts di William Morris. Negli stessi anni, il più radicale di tutti gli artisti radicali, Kazimir Malevič, proclama che «Gli oggetti si sono dileguati come fumo per una nuova cultura dell’arte e l’arte procede verso l’autonomia della creazione, verso il dominio sulle forme della natura» (1916), dipinge il quadrato nero su fondo nero (1915) e il quadrato bianco su fondo bianco (1917), emblemi di un’antirappresentazione da cui non sembra poter fare ritorno. Ma quando si tratta di esporli non riesce a non sistemarli nell’‘angolo bello’ tra la parete e il soffitto, cioè nel posto che la devozione popolare riserva all’icona.  

La pratica della damnatio memoriae rivive nei riti iconoclastici della cosiddetta cancel culture o negli ‘oltraggi’ biodegradabili ai monumenti pubblici perpetrati dai gruppi che vogliono attirare l’attenzione sul rischio di estinzione su un pianeta assediato dai cambiamenti climatici? È facile a dirsi: in ogni gesto di distruzione, reale o simbolica che sia, persiste ancora un alto grado di conflittualità con il passato – e in particolare con il passato più recente, il cui dominio culturale è ancora attivo – che lo problematizza più di quanto non lo cancelli. Siamo ancora, malgrado tutto, in una lotta tra interpretazioni e giudizi di valore. La ‘sfigurazione’ è ancora un gesto intrinsecamente figurativo, inseparabile, che lo si voglia o no, da una dialettica di riconoscimento. La vera distopia in azione è quando il passato viene riscritto secondo i dettami imponderabili dell’eterno presente entro cui fluttua il progressismo tardomoderno (o postmoderno). È quando il bene – per usare la figura di cui si è servito Walter Siti nel suo pamphlet Contro l’impegno. Riflessioni sul bene in letteratura – cala come un avvoltoio gentile sulle parole di uno scrittore amatissimo da generazioni di ragazzi, Roald Dahl, e, per ordine di una multinazionale, le purifica dalla percentuale di male che ancora insiste in esse, per separare il grano dal loglio di una mescolanza linguistica divenuta imbarazzante, uccidendo definitivamente, en passant, il concetto di autore, d’altronde già spodestato dall’editing e dallo strapotere di un mercato editoriale per cui un autore è assimilabile a un brand. La vera, letale insidia si annida nella produzione di serie televisive che trattano il passato alla stregua di una materia indiscriminatamente plasmabile, disseminandolo di anacronismi che lo svuotano dei suoi conflitti reali per ripopolarlo con i nostri, per rimetterlo in linea con un presente a cui non basta più esistere hic et nunc, nella sua aperta flagranza, ma che vorrebbe addirittura essere già esistito. Una presa totale dell’immaginario che svaluta ogni distanza con il reale, e con essa ogni pathos, facendo materializzare il rischio più volte paventato da storici come Carlo Ginzburg: che anche la storia sia solo una narrazione tra le altre, senza alcuna presunzione di verità.    


[1] «bisogna leggere questo libro sapendo che esso è stato scientemente scritto con l’intento di nuocere alla società spettacolare».