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L’arte alla prova
Palermo come palestra del dialogo

Sylvain Croci-Torti, My City of Rruins, veduta dell’installazione, courtesy l’artista e L’Ascensore – Palermo, foto Filippo M. Nicoletti

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Uno dei tratti più marcati del volto recente di Palermo è la vivacità di una generazione emergente che ha trovato l’energia per organizzare in modo autonomo il proprio presente, e per occuparsi in prima persona della comprensione – o della costruzione – della propria fisionomia. Lo si può evincere soprattutto dal proliferare degli spazi autogestiti dagli artisti. Ma questo fenomeno, seppure per certi versi nuovo in termini di consistenza numerica, non è in grado di esaurire il discorso su quanto stia avvenendo sul piano delle relazioni, su cosa stia determinando l’impegno a condividere studi, idee, percorsi, senza per questo rinunciare a intraprendere sentieri poetici individuali.

La presenza di numerosi artist-run space non riesce a qualificare, di per sé, un clima culturale, semmai lo testimonia, e se leggessimo questo fenomeno dal solo orizzonte quantitativo, finiremmo per svilirlo a trend di sistema. In parte, sicuramente, si tratta anche di questo, di una tendenza diffusa ovunque come reazione all’approccio speculativo-finanziario dilagante. Ma c’è dell’altro, ci sono spinte più complesse.

Intanto a Palermo c’è una storia legata agli ultimi vent’anni che ci parla di diversi tentativi da parte degli artisti di contrapporsi all’indifferenza cittadina, e ancor più nazionale, attraverso la costituzione di realtà progettuali ed espositive. Mi riferisco per esempio a Zelle – fondata da Federico Lupo nel 2005, poi trasformata in Van Holden Studio e ora in TOMO –, che con la sua attività di mostre e produzioni ha sempre rappresentato una comunità legata da interessi specifici, come il disegno, l’editoria, il collezionismo di oggetti e audiovisivi vintage; penso a L’A project space, aperto da Giuseppe Buzzotta e Vincenzo Schillaci nel 2009, che grazie ai rapporti instaurati con una rete nazionale e internazionale di spazi analoghi ha avuto una precisa incidenza nella trasformazione della scena palermitana; mi vengono poi in mente le esperienze condotte da Adalberto Abate, per lo più animate da istanze politiche o comunque di impegno collettivo (da Arěa, nel 2003, con Giovanni Lo Verso, Domenico Pellegrino e Domenico Stassi, a Sacrosanctum e a Spazio Rivoluzione) e poi l’attività del Caffè Internazionale, gestito da Stefania Galegati e Darrell Shines, che tra il 2015 e il 2018 ha portato avanti una realtà in cui musica e arte trovavano continue occasioni di interazione.

I più giovani, oggi, si collegano consapevolmente a queste storie, dalle quali hanno acquisito il modello dell’autogestione ma anche alcune motivazioni di fondo: prima fra tutte l’entusiasmo e la responsabilità di costruire un contesto adatto ad accogliere i loro pensieri e le loro opere, creando le condizioni per alimentare un dialogo interno alla città e per stabilire connessioni autentiche con l’esterno, facendo perno sulla secolare vocazione siciliana allo scambio e all’accoglienza.

L’accoglienza, in Sicilia, non è un ingrediente turistico, è un modo di stare al mondo. E nel caso delle esperienze avviate in anni recenti proprio all’insegna del concetto-motore dell’ospitalità, non si è trattato di invitare grandi personaggi che potessero richiamare l’attenzione, si è trattato della realizzazione a più mani di un habitat che potesse valere per sé e per gli altri. È qui che risiede il senso delle iniziative comunitarie di questi anni, forti per altro dell’acquisizione del voler essere molto mobili ma non migranti, del voler creare una condizione che permetta non solo di rimanere, ma di poter ragionare su ‘grandi imprese’.

Dalla prospettiva irrinunciabile di essere una fertile isola nel Mediterraneo, con tutta la portata storica, economica e geopolitica di tale assunto, questi giovani stanno lavorando sul proprio territorio con l’ambizione di condividerlo con la generazione di cui sono parte, immaginandolo come un bene collettivo, materiale e immateriale.

Farò qualche esempio, ma in un luogo in cui si stanno moltiplicando le forme associative, intorno a fulcri laboratoriali e a rivendicazioni civili, le figure da nominare sarebbero molte di più.

Una delle energie trainanti è sicuramente il duo Genuardi Ruta.

Prima ancora di occuparsi de L’Ascensore, uno spazio particolarmente attivo nella valorizzazione della scena locale e nell’interazione con il panorama europeo, Antonella Genuardi e Leonardo Ruta sono sempre stati un volano di aggregazione, fin dai tempi in cui trasformavano gli incontri dell’Osservatorio Arti Visive[i], in cui si sono principalmente formati, in un ambiente familiare, dove assorbire il calore della comunità perfino nel vivo dei conflitti. Il fatto che dovunque ci si riunisse – dalle aule dell’Accademia ai luoghi in cui si allestivano coralmente le mostre collettive – i due portassero del cibo da condividere con gli altri significava sigillare quei momenti comunitari mediante il ricorso a un elemento fondamentale della cultura mediterranea, la convivialità, il vivere insieme un tempo speciale enucleato dal resto delle occupazioni quotidiane. Una sorta di rivisitazione del concetto di otium, per intenderci. L’essere comunità, se da una parte veniva indagato e discusso in seno all’Osservatorio, anche sulla scorta degli spunti che provenivano dal dibattito filosofico e sociologico in atto, dall’altra maturava nelle poetiche non solo di Genuardi Ruta, ma anche del duo Campostabile, di Gianfranco Maranto e di molti altri giovani che si interrogavano su come integrare l’arte con la città, con i propri amici.

I primi esperimenti in tal senso sono avvenuti proprio nella periferica e fascinosa Villa Vincenzina, sede di L’A project space, dove Buzzotta e Schillaci, un po’ più grandi di età, avevano accolto l’idea di ospitare una ‘prova di mostra’, ossia un progetto espositivo (Campostabile/Maranto) che sceglieva di darsi il titolo di ‘prova’ proprio perché prendeva vita all’interno di un’esperienza collettiva, facendo delle opere il cardine della messa in comune di un tempo e soprattutto di un orizzonte di idee.

Non è un caso che Genuardi Ruta, Campostabile e Maranto abbiano concepito una pittura che dialoga con lo spazio: le loro forme-luogo non sono il frutto di una pratica decorativa, sono sempre la costruzione di un alveo in cui possano coesistere i loro sguardi sul mondo, le loro storie, il loro paesaggio con quelli di chi vi entrerà a far parte, da spettatore. Un habitat, per l’appunto. Questo sentire ha creato una comunità che oggi è soprattutto di natura intellettuale ed emozionale. Convivialità, storia e paesaggio sono al centro di questa spinta comunitaria.

Da questi ragionamenti, e dall’aver preso parte a quelle stesse vicende, nasce lo scorso anno La Siringe, a opera di Enzo Calò, Gabriele Massaro e Davide Mineo. Aprono il loro spazio in pieno centro, in via Merlo; non lo restaurano, perché tutti i segni di quell’ex sala di registrazione raccontano una sedimentazione di vissuti che non intendono obliare. La loro passione per tutto ciò che un luogo può significare è alla base anche dei loro lavori personali, che però, a oggi, non hanno ancora esposto in questa sede, preferendo dedicarla ai loro compagni di percorso, o a qualche coetaneo nato altrove capace di leggere e occupare uno spazio-situazione.

Parlano di «creazione e contemplazione di ideali fisicamente esistenti»; rivisitano concetti che altre generazioni hanno combattuto: «un ‘bello’ intenso non levigato e imbalsamato, piuttosto grezzo e vivo […]». Parlano di ‘resistenza’, di ‘cassa di risonanza libera’. L’essere comunità è dunque progetto, è risposta all’atomismo dilagante attraverso ipotesi di risemantizzazione delle esistenze a partire dalla ‘coltivazione’ collettiva dell’arte.

Pochi mesi dopo La Siringe nasce Parentesi Tonde, fondata da cinque artisti e una curatrice (Francesca Baglieri, Antonio La Ferita, Alberto Orilia, Roberto Orlando, Rossella Poidomani e con loro Ilaria Cascino). L’attività espositiva è di nuovo soltanto un punto di applicazione, non è il fine; è un’opportunità per sé e per gli altri, ma soprattutto è un input per la sperimentazione di nuove pratiche. Due di loro, parallelamente, condividono anche uno studio insieme ad altri giovani professionisti, tra cui una scenografa: un grande open space in cui ciascuno ha una propria area, ma fondamentalmente lavora gomito a gomito con gli altri. Lo hanno chiamato Officine Ouragan. Dibattono sugli esiti di quanto fanno, mettono in comune abilità manuali, competenze teoriche, rapporti con le maestranze; hanno in programma di aprirsi a sperimentazioni in ambiti affini, cercando nuovi punti di intersezione.

Con una visione di tipo organicistico, consapevoli del loro potenziale di artisti nel ridisegno dei contesti abitativi, sociali, nel ripensamento della fruizione del patrimonio monumentale, nella salvaguardia del paesaggio, della riappropriazione delle tradizioni e nella scrittura dei ‘riti’ del futuro, il gruppo di Parentesi Tonde coniuga contemplazione e politica urbana, e al contempo difende e promuove le singolarità autoriali. Va detto, infine, che in questo clima gioca un ruolo molto significativo la connessione con l’Accademia di Belle Arti, con la quale la maggior parte di questi artisti ha un legame di reciprocità che va ben oltre il ciclo formativo. In tutta la sua complessità, l’Accademia costituisce infatti un laboratorio estremamente propositivo, dove si lavora in gruppo, intergenerazionalmente, costruendo comunità trasversali in rapporto costante sia con la città che con il mondo dell’arte. Tra i tanti cantieri progettuali, è giusto ricordarne almeno alcuni in cui si costruisce da tempo una dimensione comunitaria: oltre al già citato Osservatorio, c’è il progetto di scambio Düsseldorf-Palermonel grande capannone Haus Der Kunst, gestito, tra gli altri, da artisti/docenti[ii] che organizzano un fitto calendario espositivo coinvolgendo anche studenti ed ex studenti; il ciclo Cielo Raso, curato da un gruppo di artisti/docenti[iii] in un’aula di Villa Filippina; il progetto espositivo Polizzi Generosa Arte Contemporanea[iv] e moltissime altre iniziative, come la recentissima Young Vulcano.


[i] L’Osservatorio Arti Visive è un organismo di ricerca e di progettazione curatoriale dell’Accademia di Palermo fondato nel 2008 da Daniela Bigi, Gianna Di Piazza e Toni Romanelli.
[ii] Alessandro Bazan e Daniele Franzella, che fanno parte del comitato scientifico.
[iii] Francesco Albano, Marcello Buffa, Marcello Faletra, Stefania Galegati, Rosa Persico.
[iv] Coordinato da Sandro Scalia ed Emilia Valenza.