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Hic Rhodus, hic salta!
Perché il futuro non è più lo stesso di una volta

Francis Ford Coppola, Peggy Sue si è sposata, 1986, still dal film

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«Ogni progresso è anche un regresso.
C’è progresso sempre e solo in un determinato senso.
E poiché la vita nel suo complesso non ha senso,
nel suo complesso non ha nemmeno progresso».
Robert Musil

Non c’è dubbio. La domanda da cui occorre partire è, nella sua formulazione radicale, assai semplice: il futuro esiste ancora? A questa domanda, il buonsenso non potrebbe che rispondere in maniera affermativa: se il tempo è composto da ciò che è passato, da ciò che nel momento attuale è qui presente, è inevitabile che ciò che ancora deve accadere sia qualificabile come futuro. Tuttavia, a questa semplice constatazione occorre contrapporre alcune osservazioni storiche. Se le civiltà premoderne possedevano una grande facoltà immaginativa, che permetteva loro di affrontare gli eventi non ancora avvenuti, e le pratiche divinatorie (che erano tese a leggere nel futuro) erano diffuse in ogni tradizione, è anche vero che proprio quella facoltà e proprio quelle pratiche intendevano il futuro come una regione temporale i cui eventi, anche se non attualmente presenti, si sarebbero comunque manifestati inevitabilmente. La concezione stoica del tempo come ciclo riassume, nella sua bellezza, esattamente questa idea: il futuro è sì nascosto agli occhi degli uomini, ma è già accaduto, perché non è altro che una ripetizione. A ogni palingenesi (rinascita cosmica) sarebbe corrisposto un nuovo Socrate, e a lui un nuovo Meleto, che, per l’ennesima volta, lo avrebbe accusato[1]. Esattamente su questo concetto si basava l’arte mantica insegnata dagli stoici: se il futuro è già stato, allora è possibile ‘leggerlo’. Così la profezia cessa di essere un’arte dell’incerto per diventare una scienza esatta dei segni.

Questa concezione fu del resto comune alle principali civiltà dette ‘assiali’, per riprendere il geniale neologismo di Karl Jaspers[2], almeno fino al momento in cui la ciclicità concettuale antica non si infranse contro una nuova concezione, inizialmente religiosa, e poi direttamente filosofica, cioè quella del cristianesimo. È con il cristianesimo, e con la sua elaborazione filosofica, in particolare negli scritti di Agostino, che va definendosi un’idea di futuro che può considerarsi a tutti gli effetti ‘moderna’. In questa nuova accezione il futuro è ciò che non esiste ancora, ma che possiamo concepire attraverso un nuovo sentimento, praticamente sconosciuto agli antichi: la speranza.

Possiamo affermare che, da Agostino ai futuristi, il concetto di futuro non sia sostanzialmente cambiato. Questi ultimi semplicemente sostituirono alla fede agostiniana l’idea mondana che sia possibile dare corpo alla speranza attraverso la tecnologia, più che attraverso la preghiera. Ma il senso del futuro resta lo stesso: esso rappresenta quella dimensione promettente non ancora accaduta e perciò intatta, come uno spazio non toccato da piede umano, ‘incontaminato’, e, di conseguenza, immensamente più interessante del già noto o del semplice presente. Il futuro, nella sua nozione moderna, diventa uno spazio agibile, è un futuro futuribile – cioè il motore attraente dell’azione, come un tempo lo era il passato. Futuro seducente in senso artistico (futurismo, modernolatria), politico (il sol dell’avvenire) e persino economico (la finanza moderna come scommessa, il valore come futures). Ed è proprio tramite questa metamorfosi che esso diventa preponderante sul passato e sul presente. Nel primo caso perché, rispetto al futuro, il passato risulta molto abbondante ma fondamentalmente inservibile; nel secondo perché il presente, come un ostaggio, si posiziona tra la ripetizione (stigma dell’antico) e la scarsità ontologica (presente come status quo, come staticità paralizzante). Il futuro invece, come spazio indeterminato, illimitato, a disposizione di chiunque, è la dimensione moderna per eccellenza, anche e soprattutto per l’arte. Non è un caso che il futurismo sia stato un’avanguardia artistica: l’arte moderna (nell’accezione fin qui esposta) è sempre un’arte del futuro, che cerca sempre di superarsi, di oltrepassarsi incessantemente, e che considera l’attardarsi sulle forme già raggiunte un peccato mortale.

Ma davvero questa concezione continua a esistere e resistere? O, per porre la questione in maniera più radicale, si può dire che il futuro esista ancora? Si potrebbe articolare una replica evitando di appellarsi a un generico concetto di postmodernismo, di ‘fine della storia’, o di postavanguardismo, e tentando di ricorrere a testimonianze più precise. In tal senso, la pubblicazione nel 1972 del Rapporto sui limiti dello sviluppo[3] a cura del Club di Roma (fondato qualche anno prima dall’italiano Aurelio Peccei) segna un evidente spartiacque, dal momento che in esso, per la prima volta e in modo inoppugnabile, le ‘sorti progressive’ dell’umanità vengono considerate come una risorsa limitata, come a dire che il progresso non può più estendersi in un vago quanto promettente ‘infinito’. Certo da questo momento in poi (se non addirittura da prima) si può affermare che il futuro non sia più ‘quello di una volta’, come testimoniato anche dalle innumerevoli opere realizzate in ambito artistico, narrativo e cinematografico[4]. Ne è un esempio straordinario Peggy Sue si è sposata, di Francis Ford Coppola (1986), un film che illustra in maniera incisiva questo capovolgimento concettuale raccontando la surreale vicenda della protagonista che, per un incantesimo, si trova a rivivere – nel pieno dei suoi quarant’anni – la sua adolescenza da diciottenne, mantenendo però la consapevolezza e l’aspetto di una donna matura (visibile per gli spettatori, ma non agli altri protagonisti). Catapultata nell’America fiduciosamente ‘futuribile’ degli anni Cinquanta e Sessanta, ne mette involontariamente in evidenza le ingenuità: quando il padre le presenta tutto orgoglioso la sua nuova automobile (un vero pezzo di modernariato) a lei sfugge un «Oh, daddy!», che unisce autentica sorpresa e sincero compatimento: è del tutto evidente, tanto a lei che a noi spettatori postmoderni (il film è degli anni Ottanta), che ‘quel’ futuro corrisponde ormai un’autentica anticaglia, al pari di un’automobile con le cromature e le pinne posteriori.

Tuttavia, non dovremmo limitarci a supporre che l’unico destino del futuro sia un irreversibile ‘retrospettivismo’ nostalgico, analogo e simmetrico al prospettivismo modernista. Come dimostra la scena di Peggy Sue si è sposata, infatti, l’automobile anni Cinquanta è in grado di rivivere e sembrare perfettamente nuova, sia pure in una versione mediale (come immagine cinematografica) che ce la mostra in un presente che comunque è qui, con e accanto a noi. Questa immanenza mediale non va affatto sottovalutata, a costo di ricadere in un’idea evoluzionista della tecnologia a cui essa stessa in effetti intende sottrarci. Un esempio chiave di quanto detto è rintracciabile nella vicenda del celeberrimo negozio newyorkese Kim’s Video, tempio del VHS e del DVD, con una collezione di oltre cinquantacinquemila pezzi, meta obbligata di registi del calibro di Quentin Tarantino fin dagli anni Settanta. Quando, nel 2008, a seguito della diffusione di Youtube e dello streaming, il titolare del negozio, Yongman Kim, decise di chiudere, l’allora sindaco del piccolo comune siciliano di Salemi, Vittorio Sgarbi, appoggiato dall’assessore alla cultura Oliviero Toscani, propose di acquisire l’intera collezione e trasportarla in Sicilia, asserendo: «New York è il passato, Salemi è il futuro»[5]. Al di là del fatto che l’impresa si sia poi rivelata un fallimento, resta l’idea di un capovolgimento epocale per il quale – rovesciando l’immagine di McLuhan del parabrezza di un’auto nel cui specchio retrovisore si scorge una diligenza[6] – davanti a noi, vediamo il passato, mentre l’autostrada del futuro si trova ormai alle nostre spalle, riflessa nello specchietto retrovisore.

La recente crisi pandemica non ha fatto altro che manifestare esplosivamente questi sintomi. In quanto catastrofe onniplanetaria, essa ha permesso a tutti di toccare con mano l’impossibilità di un ‘altrove’, cioè di uno spazio inviolato, portando alla crisi fatale della nozione di futuro come ‘dimensione del possibile’, come tempo ‘incontaminato’. Anche in questo caso però, sarebbe un errore pensare che questa crisi ci abbia imprigionato in un soffocante presente senza via di salvezza: al contrario, nella sua radicalità senza scampo, il tempo pandemico ci costringe a fare i conti con un ‘contraccolpo temporale assoluto’ in cui il futuro prende posto dentro alle fibre del presente in una intimità totale e scandalosa[7].

Se c’è una questione con cui oggi dobbiamo fare i conti è che la catastrofica fine del futuro sia la notizia filosofica più maestosa ed euforizzante dopo il fallimento dell’eterno ritorno nietzschiano. Tuttavia, pensare che il futuro stia semplicemente alle nostre spalle sarebbe semplicistico: il futuro, come futuribilità, è piuttosto divenuto una necessità immanente, che non si limita a ‘esistere’, ma che (per riprendere qui la terminologia stoica) ‘insiste’in mezzo, ‘preme’ fra presente e passato, ha sostituito il presente nella sua intimità con l’umano e il passato nella estraneità disumana dell’antico.

L’‘al di là’ cristiano, ideologico, culturale e artistico, è ormai, secondo la profezia hegeliana, ‘già qua’, è «il circolo che presuppone il proprio inizio e lo raggiunge solo alla fine»[8] – il che conferisce al detto popolare «il futuro è già qui» una cogenza senza precedenti. Per menzionare ancora una volta un antico detto, riferito a un saltatore che si vantava (in un altro tempo e un altro luogo) di spiccare salti meravigliosi, occorre rispondere sempre e di nuovo che è inutile invocare Rodi poiché ‘Rodi è già qui’: «Hic Rhodus, hic salta!»[9].


[1] A. Lampugnani, Il ciclo nel pensiero greco fino ad Aristotele. Evoluzione storica di un’idea e sue implicazioni teoretiche, La Nuova Italia, 1968, p. 96.
[2] K. Jaspers, Origine e significato della storia, Mimesis, 2013, pp. 19-22.
[3] D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W. Behrens, I limiti dello sviluppo, Mondadori, 1972.
[4] Per una rassegna artistica si veda: D. Birnbaum, Cronologia. Tempo e identità nei film e nei video degli artisti contemporanei, Postmedia, 2007. Sul cinema fra gli altri: A. Autelitano, Cronosismi. Il tempo nel cinema postmoderno, Campanotto Editore, 2006. Sulla narrazione: F. Carmagnola, T. Pievani, Plot. Il tempo del raccontare, Meltemi, 2004.
[5] S. Hollander, La Dolce Video, in «New York Times», 6 febbraio 2009, <https://www.nytimes.com/2009/02/08/nyregion/thecity/08kims.html> (2 maggio 2023). Devo le informazioni su questo episodio alla tesi inedita della mia studentessa Michela Suraniti, Accademia di Brera, Scuola di Nuove tecnologie per l’arte, a.a. 2022-2023.
[6] L’immagine si trova in: M. McLuhan, Q. Fiore, The Medium is the Massage, Penguin, 1967.
[7] S. Žižek, Il contraccolpo assoluto, Ponte alle Grazie, 2016.
[8] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di V. Cicero, Rusconi Libri, 1993, p. 1053.
[9] K. Marx, Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, 1991, p. 7.