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Tra ulivi distrutti e progettualità
Ultimi ragguagli dall’arte contemporanea in Puglia

L’ira di Irene, un monumento femminista per la città di Lecce, esito del laboratorio Inside Out condotto da Liliana Moro, visiting artist della scuola, foto Raffaella Quaranta

La Puglia negli ultimi anni sembra, da lontano, un territorio vivo, pieno di energia, pronto ad accogliere istanze, presenze, finanche progettualità: merito anche della nuova vita di piccoli centri, di un certo approccio ‘radical chic’ e di un appeal che ha permesso a Dior, per esempio, di scegliere nel 2021 piazza Duomo a Lecce come location per una delle sue sfilate più importanti, oppure al consorzio Italics di individuare, complici le radici pugliesi del curatore Vincenzo De Bellis, Monopoli come centro storico in cui impiantare la seconda edizione di Panorama.

Puglia, quindi, come spazio dall’alto tasso tentacolare, in grado di incuriosire un pubblico sempre più sofisticato, che – paradossalmente – la predilige perché caratterizzata da un’identità primigenia che resiste (o almeno ci prova) alla frenesia di un turismo di massa che tenta di stravolgerla da almeno un decennio. Cosa è accaduto, qui, in questi ultimi vent’anni, a prescindere dagli slogan delle maison di moda?

Se da un lato molti spazi pubblici sono ancora invasi da mostre di basso profilo, non è comunque mancato l’impegno da parte di alcune istituzioni come il Museo Castromediano di Lecce e la Fondazione Pascali di Polignano a mare nel coinvolgimento di nomi di ampio raggio; tuttavia, si deve soprattutto a realtà private la costruzione di una prima rete di progettualità. D’altronde così è stato anche in passato, in due occasioni specifiche che negli anni Settanta e Ottanta hanno portato il nome della Puglia fuori dai confini nazionali, con la Galleria Marilena Bonomo di Bari e lo Studio Carrieri di Martina Franca.

Non tutto ha funzionato, spesso i progetti hanno avuto un tempo limitato, anche con profili un po’ vacanzieri (l’estate è naturalmente il periodo più ambito di questo flusso, perché si riaprono le case del basso Salento o i trulli della Valle d’Itria) e nell’apparente silenzio di alcuni centri storici o di alcune campagne, tra ulivi che non ci sono più, perché distrutti dalla Xylella, e fichi d’India, gli opening sono frequentati da collezionisti spesso non autoctoni. Tanti, a volte anche troppi, i progetti che in questi ultimissimi anni hanno costellato queste geografie: se da un lato, a Bari città sono scomparse alcune gallerie private che avevano caratterizzato la programmazione espositiva (penso ad ArtCore in particolare), nel Salento si sono sviluppate tantissime realtà (da Salgemma a Spazio Su, a Giardino Project e Studio Concreto, realtà in grado di impegnarsi con attenzione), che propongono residenze, mostre, programmi di talk e altre iniziative, talvolta attingendo a finanziamenti pubblici, come nel caso di Kora, centro del contemporaneo a Castrignano de’ Greci, altre volte impegnandosi con radicalità e con le proprie energie, come accade a Lecce con Progetto, lo spazio che l’artista di New York, Jamie Sneider, ha avviato nel 2019 in un appartamento del centro storico della città.

Da Micheal Dean a Dora Budor a Ser Serpas, in questi anni Sneider ha portato avanti una programmazione sistematica di mostre, focus e molto altro, non ospitando in maniera passiva artisti e opere concepite altrove, ma spesso innestando riflessioni ad hoc su questioni antropologiche, storiche e sociali del territorio, di volta in volta lette con cura dagli artisti coinvolti. Progetto è, nei fatti, una delle pochissime realtà internazionali in Puglia in questo specifico momento.

Molto diverso, ma altrettanto significativo, è l’impegno di Anna Maria Enselmi, collezionista di Milano che ha fatto restaurare con cura uno dei palazzi più belli di Lecce, ribattezzato Palazzo Luce, dove ha installato opere di Joseph Kosuth, Marzia Migliora, Luca Monterastelli, Vanessa Beecroft e molti altri, in stretto dialogo con una importante raccolta di design storico italiano, da Gio Ponti a Sottsass.

L’impegno collegiale di singole professionalità, artisti e curatori in primis, che ha caratterizzato e tuttora contrassegna lo scenario pugliese con innesti anche oltre i confini regionali e nazionali, nasce, invece, con uno spirito preciso: per far fronte comune a un contesto che rimane, a prescindere da ciò che ho raccontato finora, comunque periferico e senza un sistema in grado di dare una visione a lungo termine. Perciò ci si mette assieme, ci si associa, per cercare di combattere la solitudine della periferia. Nessun oblio passatista, ovviamente, in ballo. E neppure un ripiegamento verso una retorica di un Sud estremo e arretrato da superare a tutti i costi.

Niente di tutto ciò alla base delle scelte intraprese da due realtà al centro di questo contributo, ma, anzi, un doppio impegno, dentro e fuori i territori, con una militanza anche radicale nell’impostazione. Da un lato verso la didattica, con P.I.A. a Lecce, che in questi anni ha di fatto garantito l’incontro con gli artisti e un vero e proprio corso di formazione per giovani artisti (e non solo) in un territorio che non ha potuto contare su istituzioni di alta formazione artistica adeguate ai tempi e alle emergenze del presente, neppure in ambito universitario. P.I.A. difatti «è una scuola indipendente e sperimentale, di ricerca e produzione per artistə e curatorə con sede a Lecce. La prima in Italia in cui le due figure professionali sono chiamate a lavorare in tandem alla formalizzazione di opere e mostre. Attualmente ospitata nella project room del Museo Castromediano di Lecce, il museo pubblico più antico di Puglia, la scuola fondata nel 2017 da Valeria Raho e Jonatah Manno è un laboratorio di sperimentazione e ricerca per studenti e studentesse che intendono consolidare le proprie conoscenze nel campo della produzione artistica e culturale, per un avvio di carriera nel settore». Curatrice la prima e artista il secondo, insieme, hanno quindi generato un impegno ad ampio raggio, in grado di evidenziare anzitutto un metodo. «Nella nostra scuola – proseguono Raho e Manno – la trasmissione del sapere artistico si basa su tre pilastri: prossemica, condivisione, cura. La dimensione dello stare insieme risponde per noi a uno statuto. Il nostro obiettivo, in qualità di mentori di questa maieutica, è quello traghettare coloro che prendono parte al programma di studio verso la possibilità di abitare e occupare spazi comuni. All’interno del processo di lavoro – proseguono i due direttori di P.I.A. –tutto è volto alla collaborazione e alla nascita di sodalizi tra artistə e curatorə, che vanno ben al di là delle attività pratiche che la scuola richiede. Attraverso la scuola cerchiamo di dar vita a una comunità intergenerazionale di professionisti che possano riconoscersi e coltivare ricchezza nella loro diversità di approcci, visioni, poetiche». Lavorare assieme, quindi, vuol dire proprio questo, motivo per cui in questi anni sono stati coinvolti diversi artisti come mentori, da Francesco Arena a Liliana Moro, e curatori.

L’altro focus del presente articolo è dedicato a Like a Little Disaster, avviato nel 2014 da Giuseppe Pinto e Paolo Modugno a Polignano a mare, e concentrato soprattutto sul fronte curatorialeespositivo. «Like a Little Disaster – affermano entrambi – è un’entità curatoriale multipla con un’unica visione. Indaghiamo il concetto di perdita dell’individualità/unicità attraverso la costante comunicazione/interazione con l’altro. Secondo noi il sé esiste solo in quanto parte di un gruppo più grande. Attraverso la scomparsa dell’Io e il divenire Noi, composto da diversi background, pensieri, motivazioni inconsce, desideri e paure, tentiamo di riflettere e interpretare la società presente e futura. Ci muoviamo in quel flusso naturale dove avere un’identità definita e fissa è sempre meno necessario. Il confronto, la critica, e il contrasto delle idee è una costante del processo collaborativo. L’ego non è un punto fisso, una struttura invariante, ma un essere di circolazione».

In questi anni il duo ha lavorato mettendosi in relazione con artisti, altri curatori, altre realtà no-profit internazionali, avanzando proposte, lavorando con nomi esordienti di differenti geografie ma senza trascurare un grande maestro storicizzato come Antonio Trotta, a cui è stata dedicata nel 2016 una mostra preziosa, sempre a Polignano. «La dinamica delle varie identità che si fondono nella creazione di un’unica esperienza si manifesterà anche nel progetto che inauguriamo tra qualche settimana – anticipano Pinto e Modugno; An Insurmountable Tension to the Level of an Incommensurability, che coinvolgerà oltre venticinque artisti riuniti a lavorare a uno scenario decolonizzato dall’essere umano, abitato da oggetti/soggetti ibridi, riottosi a ogni classificazione, a nodi di una rete proliferante chimere, che mettono in discussione i concetti di soggettivazione, oggettivazione e assoggettamento, la classificazione degli esseri e la gerarchia degli attori e dei valori. Sarà un ambiente fatto di molteplici connessioni tentacolari mai del tutto chiuse, in grado di mettere in moto conseguenze inattese. Gli artisti stanno lavorando a opere che non sono solo fine o scopo di un processo di produzione, ma mezzi, o strumenti che potenziano la facoltà di immaginare uno spazio di co-evoluzione multiforme, attraverso il quale ricercare la cultura nella natura e viceversa, il contingente nel permanente, l’identità nella differenza e in cui sperimentare nuove alleanze. Il progetto avrà luogo, come tutti gli altri negli ultimi due anni, sia nel nostro spazio di progetto di Polignano a Mare, sia nel settecentesco Palazzo San Giuseppe, ex sede del Museo Pino Pascali, e nell’annessa chiesa di San Giuseppe».

Una Puglia che promette, quindi, che resiste facendosi strada, in attesa di poter consolidare il sistema dei musei e un processo più strutturato da parte delle istituzioni sull’arte del nostro tempo. Tra paradossi e desideri, fallimenti e sogni, provincialismo che resiste e ossessioni internazionali, oltre i muretti a secco e i coni dei trulli c’è ancora voglia di fare, con impegno e resistenza.