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Studi d’artista e project spaces
Fare comunità a Napoli

Miho Tanaka, Leggimi, 2022, courtesy Exit Strategy, foto Maddalena Tartaro

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Centro storicamente vivace e ricettivo delle tendenze internazionali, Napoli è una città dove il concetto stesso di comunità si è stratificato tra luci e ombre.

Guardando più nello specifico alla comunità artistica, la città ha seguito, nei decenni, quello stesso processo che ha interessato l’Italia e l’Europa nel corso dell’ultimo mezzo secolo: alla spinta collettivistica, inclusiva e di condivisione che ha caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta (anni in cui sono nate gallerie storiche quali Lucio Amelio, Il Centro, Lia Rumma, Studio Morra e Studio Trisorio, ma che hanno visto nascere anche iniziative sperimentali di forte aggregazione artistica come la Galleria inesistente e l’A/Social Group), ha fatto seguito un ripiegamento, centrato sull’individuo e il singolo talento, con una conseguente frammentazione di interessi e opportunità. A trarne vantaggio sono state le sempre più frequenti incursioni straniere, libere di farsi strada in un contesto dalle maglie larghe, il più delle volte dominato da monadi solitarie.

Il decennio a cavallo del nuovo millennio ha poi visto la città di Napoli consolidarsi come polo culturale dell’arte contemporanea anche grazie alla fondazione del museo Madre, nel 2005, che sin dai suoi primi anni di attività e attraverso un programma legato alla project room, ha proposto mostre di artisti campani nati fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Molti di questi artisti hanno così avviato la loro carriera, trovando posto nel sistema dell’arte locale ma anche scegliendo di eleggere, talvolta, la propria residenza fuori da Napoli.

Questo trend di allontanamento dalla città e di autonomia da parte degli artisti risulta negli ultimi anni in via di inversione, in misura più percepibile proprio nelle ultime generazioni, come fenomeno di risposta a uno stato diffuso di incertezza che reagisce alla liquefazione della società post-postmoderna, creando ‘comunità gruccia’[i]. Ormai avvezzi a quella fluidità che porta ad attraversamenti transdisciplinari e transgeografici, questi giovani protagonisti non perdono tuttavia di vista il territorio di origine, che diventa terreno di confronto e, in alcuni casi, pista di (ri)atterraggio.

Se dunque Napoli si profila sempre più come luogo di attrazione per artisti e operatori culturali stranieri – complice anche il boom di visibilità che il capoluogo campano ha avuto negli ultimi anni, e la sua trasformazione da set privilegiato di episodi di criminalità a ‘the place to be’ –, si consolidano parallelamente comunità locali radicate con intensità diverse nel contesto cittadino, tuttavia accomunate dalla necessità di rinsaldare, o ritrovare, il dialogo con Napoli, proponendo iniziative calate nella città e tra i suoi abitanti.

A fare da apripista sono alcuni progetti che, nell’ultimo decennio, hanno cercato di creare spazi di aggregazione per la costruzione di comunità intorno all’arte, ancorché nate dallo slancio di singoli, come ad esempio il Quartiere Intelligente, Magazzini Fotografici, Riot Studio, Superotium, La Casaforte.

A questi si sono affiancati progetti concepiti e curati da artisti del territorio come SMMAVE, un centro per l’arte contemporanea fondato da Christian Leperino e ospitato negli spazi della chiesa di Santa Maria della Misericordia ai Vergini; Flip Project, un artist-run space concepito dall’artista Federico Del Vecchio; Tarsia, spazio espositivo ricavato in un negozio di fiori e piante e gestito da Antonio Della Corte, e Residency 80121, progetto di residenze e spazio espositivo nato per iniziativa di Raffaela Naldi Rossano.

Tali realtà, pur essendo fortemente legate alle ricerche condotte dai rispettivi fondatori, hanno proposto iniziative di artisti nazionali e internazionali.

Di grande rilievo è stata la presenza in città di Jimmie Durham e Maria Thereza Alves, che hanno eletto l’ex lanificio borbonico di Porta Capuana come seconda casa dopo quella di Berlino. La casa-studio degli artisti è diventata nel corso degli anni un luogo di incontro e confronto, dando vita a comunità temporanee e favorendo anche il dialogo con i più giovani, non soltanto del territorio. Come diretta emanazione dell’impegno profuso nel contesto napoletano da parte di Durham e Alves, nasce Labinac, gestito in collaborazione con Marcello Del Giudice, dedicato alla produzione ed esposizione di opere sul crinale fra arte e design. Un altro studio d’artista, quello del fotografo Antonio Biasiucci, nel cuore del centro storico di Napoli, ospita dal 2012 il progetto LAB/per un laboratorio irregolare, finalizzato allo sviluppo e alla valorizzazione della ricerca della giovane fotografia d’autore, soprattutto in ambito campano, incentivando il dialogo tra i suoi protagonisti.

In tempi più recenti, e guardando alla nascita di una nuova scena dell’arte napoletana che vede protagonisti i nati tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta, la volontà di dar vita a una comunità fondata su visione e intenti condivisi assume un peso ancor più rilevante e manifesto, che permette identificare dei gruppi gravitanti intorno a specifici punti di attrazione.

C’è, in primo luogo, la condivisione degli studi: una risposta al processo di gentrificazione cui è soggetto il centro storico e aree limitrofe e al conseguente aumento degli affitti, che porta, se non direttamente a lavorare insieme, quantomeno a condividere intenti e suggestioni reciproche in fase di produzione.

Tuttavia, la scelta di uno spazio di lavoro condiviso non rappresenta il principale collante che, invece, è facilmente rintracciabile in una mentalità aggregativa che fuoriesce dallo spazio fisico e produttivo per farsi intelligenza collettiva, sia nella realizzazione di progetti che nel processo di definizione di una ricerca e di una poetica personali da parte dei singoli.

Esempi, in tal senso, sono gli studi condivisi presso Atelier Alifuoco, appartamento situato in un palazzo al confine tra i quartieri della Sanità e Vicaria, convertito in laboratorio artistico nel 2016 per volontà di Alessandro Cirillo e Francesco Maria Sabatini (quest’ultimo uno degli artisti in residenza insieme a Maria Teresa Palladino, Nicola Vincenzo Piscopo e Lucia Schettino), così come l’aggregazione di studi d’artista a pochi passi dalla chiesa di Santa Maria della Sanità, che negli ultimi anni ha visto un turnover di presenze tra cui Lucas Memmola, Gabriella Siciliano, Clarissa Baldassarri, Carmela De Falco, Selene Cardia, Miho Tanaka, Akele Castellano.

Entrambi i gruppi hanno dato vita a progetti accomunati dalla volontà di interazione con il territorio: da Atelier Alifuoco è partito Quartiere Latino, che già dal titolo (riferimento non solo al celebre quartiere parigino, ma a un collettivo artistico nato a Napoli nel 1928 per volontà del pittore Giuseppe Uva) pone in primo piano concetti di condivisione e scambio. Presentato come «museo d’arte contemporanea a km0», Quartiere Latino invita artisti esterni allo studio e di generazioni diverse a realizzare opere site-specific per il palazzo e i suoi condòmini. Finora, nelle tre edizioni, si sono succeduti interventi di Clarissa Baldassarri, Paolo La Motta, Gabriella Siciliano, Veronica Bisesti, Andrea Bolognino, Lucas Memmola e Fabrizio Cicero, Antonella Raio, Vincenzo Rusciano.

Dagli studi della Sanità è stato invece avviato il progetto itinerante Exit Strategy, un programma di mostre diffuse nato dall’idea di Lucas Memmola e oggi coordinato insieme a Marta Ferrara. Arrivato alla sua seconda tappa napoletana (con un intermezzo milanese), Exit Strategy nasce nel pieno dell’emergenza pandemica, eleggendo le vetrine di cinema e teatri chiusi al pubblico come spazi espositivi, per poi diventare una sequenza di interventi temporanei, svoltisi nell’arco di un pomeriggio del novembre 2022, che si proponevano quali «interferenze nello spazio pubblico», date dall’interazione con abitanti e commercianti del quartiere. Le azioni e le opere di Andrea Bolognino, Carmela De Falco, Lucas Memmola, Nicola Vincenzo Piscopo, Gabriella Siciliano e Miho Tanaka si presentavano al pubblico tra esercizi commerciali e spazi di transizione, sollecitando in molti casi anche una dimensione partecipativa.

È facile constatare, già incrociando i nomi delle rispettive iniziative, come tra i due gruppi esista una dinamica di scambio che fa emergere la squadra quale elemento riconoscibile, pur nel rispetto delle singole carriere. Ad accomunare molti di questi artisti c’è la formazione all’Accademia di Belle Arti di Napoli, in particolare presso la scuola di scultura – coordinata dall’artista e docente Rosaria Iazzetta –, che negli ultimi anni si è adoperata per far emergere gli studenti al di fuori degli spazi dell’Accademia, cercando il confronto con istituzioni e spazi espositivi.

Ancor più sembra però accomunarli la volontà di costruire una comunità che non sia solamente e propriamente artistica, ma che si estenda agli abitanti del quartiere, a partire dagli inquilini del palazzo di via Cirillo per arrivare ai commercianti di zona, che sostengono e in parte finanziano le attività proposte. Una rete che è dettata sì dalla necessità, ma anche dal desiderio di implementare un progetto condiviso, di fare sistema.

Contraddistinta dallo stesso slancio, ma fuori dal centro città, è poi l’esperienza di Opificio Puca, centro attivo a Sant’Arpino, in provincia di Caserta, fondato da Francesco Capasso, Maria Giovanna Abbate, Rosanna Pezzella, Vincenzo D’Ambra, Luca Dell’Aversana e Ferdinando Cinquegrana, che si presenta come un laboratorio permanente, spazio espositivo e luogo di aggregazione per artisti e attivisti del territorio negli spazi riconvertiti di uno dei tanti esempi di archeologia industriale dell’area.

È interessante a questo proposito notare che denominatore comune a questi gruppi sia il rapporto solo sporadico e circoscritto con le gallerie.

Alla luce di tale scenario, le esperienze espositive organizzate autonomamente dagli artisti appaiono come spinte necessarie, utili per mostrare e comunicare la propria ricerca che, seppur individuale e formalizzata a partire da presupposti e linguaggi differenti, ritrova legami e analogie che si traducono nell’elaborazione di progetti collettivi. Gli artisti, in questo modo, ‘bypassano’ o si sostituiscono a quella filiera composta da operatori e condizioni che classicamente definiscono l’andamento, la costruzione e la divulgazione di un progetto espositivo.

In conclusione, nel quadro generale di una rinnovata tendenza alla coalizione da parte della generazione più giovane di artisti, si potrebbe affermare che Napoli si allinei (lasciando emergere realtà che meritano di essere seguite nei loro sviluppi futuri) nella speranza che tali comunità non siano solo quei temporanei ‘guardaroba’ dove lasciare i propri soprabiti durante lo spettacolo – così come descritte da Bauman – ma energie in grado di alimentare il dibattito sulle fondamenta di una causa comune, mandando avanti lo stesso spettacolo negli anni a venire. Se Napoli viene nuovamente riconosciuta anche dai suoi artisti ‘residenti’ come luogo in cui trovare moventi di sperimentazione e di ricerca collettiva e condivisa, allora si spera in una coordinata ed efficace attenzione da parte delle istituzioni locali e del sistema delle gallerie, affinché questa propulsione all’aggregazione possa trovare un adeguato palcoscenico su cui crescere e valorizzarsi sia a livello nazional


[i] Z. Bauman, Liquid Modernity (2000), trad. it. Modernità liquida, Laterza, 2011, pp. 235-238. Sullo stesso argomento, cfr. anche Id., Voglia di comunità, Laterza, 2001.