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Tra arte e innovazione
Una strada da percorrere

Quayola, Storms, installation view, Ex Gazometro, Roma, Maker Art – Maker Faire. The European Edition, 2022

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La parola ‘futuro’ deriva da futurus e da fuo, cioè «io sono»: fui, ciò che sarà, che è per essere. Io sono, dunque, in uno spazio temporale che mi proietta in avanti, in un avanti non prevedibile. Questa imprevedibilità è ciò che caratterizza la nostra condizione esistenziale, resa ancora più manifesta dagli ultimi tre anni di pandemia e post-pandemia.

Non a caso il termine futuro è stato uno dei più utilizzati negli ultimi anni. Ci potremmo chiedere: cosa intendiamo oggi per futuro? Ciò che si vuole qui dimostrare è che, oggi più che mai, guardare all’arte e al lavoro degli artisti risulta essenziale al fine di elaborare possibili orientamenti per l’avvenire. È tuttavia necessario assumere una prospettiva nuova, che intrecci l’arte con l’innovazione.

Se analizziamo le implicazioni del termine ‘futuro’ nel nostro linguaggio, ci rendiamo conto che esso ingloba termini quali ‘innovazione’, ‘tecnologia’, ‘progresso’, ‘scienza’. Si sente spesso parlare della necessità di investire nel progresso scientifico-tecnologico e nell’innovazione per assicurare un maggiore sviluppo economico, e non è un caso che l’affermazione sia stata spesso ripetuta durante il periodo di pandemia da COVID, come a dire che all’avvento di quest’ultimo sia corrisposta un’accelerazione dei processi di innovazione che hanno reso la tecnologia un elemento ancor più imprescindibile per la nostra vita. Se prima nutrivamo dei dubbi in merito all’intelligenza artificiale, alla robotica, al machine learning, a internet e al tracciamento dati, oggi questi stessi strumenti si sono rivelati alleati fondamentali per la ripresa economica e la sconfitta del virus. Se prima li temevamo tanto da allontanarli, ora li teniamo così vicini da non poterne più fare meno: sono la materia prima del nostro lavoro, della nostra educazione, della nostra vita sociale. Sono dati che emergono dal Digital Economy and Society Index (DESI) 2020 che monitora la performance digitale complessiva dell’Europa e segue i progressi dei Paesi dell’Unione Europea in merito alla loro competitività digitale. Il report, redatto dalla Comunità europea, orienterà gli investimenti economici del futuro.

Nonostante l’arte non venga mai menzionata, essa rappresenta oggi un asset fondamentale in questo senso. Essa può essere non solo luogo per contenuti artistici, ma anche un vero e proprio motore per l’innovazione scientifica e tecnologia. Dal momento in cui le tecnologie sono entrate nel mondo dell’arte, i suoi protagonisti hanno da subito deciso di collaborare con figure professionali appartenenti a contesti non prettamente artistici: tecnici, ingegneri, creativi ecc.: «In parallel to their use of existing tools, artists developed their own in order to enable forms of creation that were not possible before or to achieve independence from corporate distribution models»[1]. Sin dalla fine dell’Ottocento, l’immagine dell’artista solitario chiuso nel suo studio preso dal pathos della creazione è stata ribaltata da un’immagine più ‘imprenditoriale’, aperta a collaborazioni con tecnici, ingegneri, investitori, e che cerca di ottenere brevetti e finanziamenti. Il costante lavoro di sperimentazione sui media tecnologici permette di non dare per scontata nessuna invenzione immessa sul mercato, dinamizzando così in maniera costante l’ambiente mediale in cui siamo immersi.

Non stiamo parlando di fantascienza, o di cose irraggiungibili ma di questioni molto concrete e impostazioni imprenditoriali già in atto. Molte imprese e centri di ricerca, come quelli della Silicon Valley, stanno già inglobando gli artisti nei processi produttivi. Parliamo di aziende come Adobe che, con il programma Creative Residency, permette agli artisti selezionati di rimanere nel proprio studio chiedendo loro di raggiungere San Francisco (sede dell’azienda) una volta ogni tre mesi, di dedicare un quarto del proprio tempo a viaggiare per partecipare a eventi creativi, e di condividere i processi alla base della propria pratica; in cambio, gli artisti ricevono il sostegno di mentori in varie discipline e salario e benefits analoghi a quelli dei dipendenti. Oppure del programma dell’azienda dei satelliti Planet Labs, che sostiene gli artisti mediante una somma di mille dollari al mese, dando loro la possibilità di utilizzare uno spazio per lavorare e interagire con gli altri impiegati. O ancora il progetto 89Plus di Google, ideato da Simon Castets e Hans-Ulrich Obrist, rivolto ad artisti rigorosamente nati dopo il 1989, e Autodesk, che invita questi ultimi a lavorare nel proprio laboratorio di manifattura digitale per un periodo che va da tre a sei mesi, pagando loro uno stipendio e le spese sostenute per la realizzazione delle opere. Si pensi infine al Microsoft Studio 99, che mira a introdurre prospettive, processi e valori artistici all’interno dell’organizzazione. Si potrebbero citare molte altre imprese che hanno visto nell’artista, libero di creare, una potenzialità di marketing. Un artista che ritrova all’interno di aziende private, di un mondo completamente fuori dagli ambiti di appartenenza classici dell’arte contemporanea, dinamiche molto simili a quelle dei musei, di fondazioni artistiche, di gallerie. Le aziende in questo caso attivano residenze, premi, mostre, luoghi espositivi; accompagnano gli artisti nel percorso di creazione, forniscono loro materiali, coinvolgono curatori; aprono possibilità espositive, creano nuove sinergie e permettono nuovi contatti e relazioni.

Questo fenomeno lascia spazio, tuttavia, a delle problematiche etiche: non possiamo lasciare alle grandi aziende la comunicazione diretta con il mondo dell’arte, il ruolo del mediatore culturale è fondamentale per preservare eticamente il lavoro degli artisti. Allo stesso tempo non occorre demonizzare queste connessioni, in quanto l’arte che sperimenta con le tecnologie può rappresentare non solo un settore innovativo nel suo ambito di riferimento, ma anche un motore di innovazione per la società più in generale e un modo per orientarsi nelle grandi sfide che l’umanità affronterà nel XXI secolo, come la genetica, l’intelligenza artificiale, la robotica, e oggi, il nostro futuro post-Coronavirus. Senza dimenticare che l’artista rimane artista: non ha l’obiettivo di creare software o applicazioni, ma quello di realizzare le proprie opere per musei, gallerie ecc. Tuttavia, per forza di cose vengono a crearsi delle contaminazioni: un pittore può rappresentare il mondo da solo nel suo studio, ma un artista che utilizza l’intelligenza artificiale deve necessariamente interfacciarsi con tecnici, ingegneri, lavorare in aziende e laboratori di ricerca. Deve, insomma, inglobare un mondo nuovo, quello dell’innovazione.

La questione si esplicita, per esempio, nell’uso dell’intelligenza artificiale da parte di Lorem, che realizza nuove narrazioni audiovisive attraverso l’IA, oppure nel lavoro scultoreo di Quayola, che si avvale della collaborazione dell’azienda di robotica Kuga. Qui il braccio robotico è utilizzato in modo completamente nuovo: non per inserire bulloni, ma per scolpire la materia, dando una nuova interpretazione della tecnologia stessa. E così per molti altri artisti, che fanno della tecnologia la materia prima di creazione, come Federica Di Carlo, che lavora con scienziati per realizzare lavori dedicati al cambiamento climatico, o Luca Pozzi, che collabora con il CERN di Ginevra. Pensiamo anche al collettivo Numero Cromatico, composto da scienziati e artisti che si occupano di temi che spaziano dall’estetica sperimentale alla neuroestetica, dalla letteratura alla comunicazione visiva, oppure al collettivo FUSE che da tempo esplora e sperimenta con le tecnologie.  

In un mondo ipercomplesso, guardare al lavoro e alle pratiche di questi artisti può permetterci di attribuire un nuovo ruolo all’arte, che sia non solo riflessivo nei confronti della società, ma anche utile per il suo sviluppo etico. Tuttavia, l’arte sembra rimanere generalmente rinchiusa nel proprio mondo, ancora vincolata a problematiche di natura economica: pochi soldi per la cultura, pochi investimenti, operatori sottopagati e così via. Eppure, se spostiamo il punto di vista, vediamo come la questione del COVID abbia fatto emergere una problematica cruciale, capace di posizionare gli artisti in un ruolo guida per la società e il suo futuro. Per far sì che questo accada, però, è necessario porre gli artisti al centro dei processi produttivi di innovazione tecnologica e scientifica, e notare come siano stati quelli tra di essi che hanno usato la tecnologia a fornire indizi, a prefigurare futuri poi avveratisi e a stimolare lo stesso sistema economico nell’ambito dell’innovazione, nonché a inventare vere e proprie macchine visive poi immesse sul mercato o ad anticipare tecnologie future.Per questo è fondamentale che l’artista venga rivisto oggi, oltre il sistema dell’arte, come un motore per la società, per la comprensione e la produzione del nostro avvenire. Per questo penso sia fondamentale che gli artisti abbiano un ruolo attivo oltre il mondo dell’arte, come ad esempio nelle task force di governi o nelle strategie di consulenza per l’innovazione, e che le aziende, i centri di ricerca, le università, possano guardare all’arte come spazio per aprire nuovi scenari di ricerca.

Dare un nuovo significato alla parola ‘futuro’, questa è la sfida. Non solo, e non tanto, parlare di futuro, ma dare un nuovo significato a questo termine per favorire nuove operatività, rivolte alle generazioni future. È in questo contesto che può prevedersi l’inclusione degli artisti in progetti di innovazione, la loro partecipazione e il loro finanziamento in progetti legati a settori come quelli dell’innovazione, dell’economia e sviluppo, dell’educazione ecc. Solo così l’arte si libererà dell’immagine debole, di assistenzialismo passivo, per guadagnare la forza che un tempo aveva, come motore della società e guida per un nuovo immaginario.

Pensiamo allo smart working, prima orizzonte remoto, oggi quasi unica possibilità di lavoro: «La tecnologia sta facendo cadere tutti quei tabù che erano presenti in molti di noi in diversi ambiti, a partire dal mondo lavorativo. In quanti credevano che lo smart working fosse difficile da realizzare, che non era adatto a tutti e che non dava profondità lavorativa? Bene, oggi, sebbene per motivi di necessità, abbiamo dimostrato che invece è possibile», spiega Carlo Panella, Head of direct banking e Chief digital operations officer di Illimity.

Riferimenti bibliografici

Digital Economy and Society Index (DESI) della Comunità Europea
C. Paul, J. Toolin, Impulses – Tools, in The Emergence of Video Processing Tools, a cura di K. High, S. Miller Hocking, M. Jimenez, Intellect, 2014
C. Biasini Selvaggi, V. Catricalà, Arte e tecnologia del terzo millennio. Scenari e protagonisti, Electa, 2020
V. Catricalà, The Artist as Inventor, Rowman & Littlefield, 2020
P.D. Keidl, V. Hediger, L. Melamed, A. Somaini, Pandemic Media. Preliminary Notes toward an Inventory, Meson Press, 2020
M. Mancuso, Arte, tecnologia e scienza: le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea, Mimesis, 2020
E.G. Rossi, Mind the Gap, Postmedia, 2020
D. Quaranta, Media, New media, Postmedia, Postmedia, 2020
V. Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte, NERO, 2020


[1] «Parallelamente all’utilizzo degli strumenti esistenti, gli artisti ne hanno sviluppati di propri per consentire forme di creazione prima non possibili o per raggiungere l’indipendenza dai modelli di distribuzione aziendali», C. Paul, J. Toolin, Impulses – Tools,in The Emergence of Video Processing Tools, a cura di K. High, S. Miller Hocking, M. Jimenez, Intellect, 2014, p. 76.