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Per ragionare su un argomento tornato attuale – e da sempre scomodo – come quello della formazione nelle Accademie di Belle Arti, coniugandolo possibilmente al futuro, partirei da un dato interno, cioè l’aumento del numero degli iscritti, degli insegnamenti e dei docenti, e da un dato esterno, ossia la proliferazione su scala nazionale di realtà gestite da giovani artisti, che siano spazi espositivi, studi condivisi, iniziative editoriali, centri di ricerca, progetti di riqualificazione territoriale e via dicendo. Un clima propositivo alla cui costruzione ha contribuito anche il lavoro svolto da alcune Accademie.
Si sta in qualche modo assistendo a quello che negli anni Novanta accadde a Milano e a Bologna, e che prima ancora era avvenuto a Roma alla fine degli anni Cinquanta e Settanta, quando da specifiche aule, da specifiche metodologie di insegnamento, ossia da specifici docenti, uscì la gran parte dei protagonisti di stagioni feconde in termini sia di produzione artistica che di dibattito critico.
La crescita del ruolo odierno di molte Accademie è legata al grande lavoro che queste ultime hanno svolto per riuscire a trasformare la propria fisionomia mediante l’allargamento strutturale degli ambiti di insegnamento, la messa a regime di corsi dedicati alle nuove tecnologie, l’ampliamento dei linguaggi e delle tecniche oggetto di studio (che ha previsto un arricchimento dei laboratori sul piano sia numerico che tipologico) e il forte potenziamento delle discipline di carattere teorico e storico-critico. Ma la crescita si deve altrettanto al progressivo reclutamento di un gran numero di artisti, storici, critici e curatori direttamente coinvolti nel sistema dell’arte, i quali hanno portato nelle aule un sapere legato a esperienze professionali che si sono poste in dialogo con quelle già esistenti. Un dialogo da cui è scaturita una vitalità inedita, frutto della moltiplicazione delle attività progettuali, produttive, espositive e dell’assunzione di una prospettiva che mira a fare rete con le istituzioni pubbliche e private delle relative aree territoriali, in un processo che ha portato a collaborazioni innovative tra figure con competenze differenti, spesso complementari, che in passato non si erano mai incontrate per reciproche diffidenze culturali. È come se la crisi delle logiche un tempo ferree del sistema dell’arte avesse portato all’abbattimento di alcuni tabù comportamentali, permettendo forme più libere di scambio e di interazione.
È interessante notare come le difficoltà legate alla mancata equiparazione all’Università non interferiscano di fatto con questo sviluppo, perché esso è endemicamente legato all’energia stessa dell’arte, che la burocrazia non può governare. Non è necessaria l’equiparazione universitaria per ratificare il valore di quanto viene dibattuto e sperimentato nelle aule e la mancata equiparazione dei titoli di studio, così come dell’inquadramento stipendiale dei docenti, non colpisce i processi generativi dell’arte. Semmai ha a che fare, e non è cosa da poco, con il posto che l’arte contemporanea occupa nell’assetto culturale del nostro Paese, perché pensarla in posizione ancora subalterna nella griglia simbolico-valoriale dei saperi (quasi in un ultimo ossequio all’antica logica gerarchizzante tra arti liberali e arti meccaniche) costituisce una lacuna culturale imbarazzante. E se si pensa che le scienze motorie e quelle dello spettacolo sono ascritte al sistema universitario, mentre ai dipartimenti di arti visive questo riconoscimento viene negato, la questione assume caratteri ancora più grotteschi.
Rispetto alla traiettoria arte-accademia-futuro sorgono, però, alcune domande: cosa può permettere alle Accademie di mantenere un ruolo attivo nel costituirsi delle scene artistiche emergenti? Come consolidare una liaison feconda tra istituzione formativa e artisti in un mondo in continua trasformazione?
Se guardiamo a cosa è accaduto all’interno del sistema artistico negli ultimi trent’anni, all’avvicendarsi sempre più veloce e dogmatico di tendenze riferite ai modi, ai luoghi e ai contenuti dell’arte, è difficile immaginare come le Accademie avrebbero potuto rispondere in tempo reale a uno scenario così instabile ed eteronomo. Recependo e assecondando tutto a ritmo forsennato? Ripensandosi e riscrivendosi all’arrivo di nuovi must da scene temporaneamente in auge? Su quali posizioni avremmo voluto trovare le Accademie rispetto alla degenerazione di certi aspetti del sistema? Come ci piacerebbe pensarle, nel futuro, di fronte a possibili nuove aberrazioni di comportamenti e valori?
Credo che la risposta vada ricercata nella struttura stessa di questa istituzione plurisecolare, nell’idea di fondo che la sostanzia, che è quella del laboratorio (malamente cavalcata, peraltro, per affossarne il riconoscimento universitario sotto la spinta di malcelati interessi corporativistici). Credo che tutto debba ancora ruotare intorno a questa idea, purché la si interpreti nella sua accezione più alta e storicamente articolata.
Il laboratorio è il luogo fisico in cui uno o più corpi, nella loro felice e colta pienezza (spero che non si debbano ancora spendere parole per intenderci su cosa implichi, oggi, e definitivamente, il concetto di corpo), sperimentano, elaborano, producono mediante l’adozione di metodologie e di tecniche, utilizzando strumenti esistenti oppure modificandoli, sabotandoli, inventandone di nuovi, studiando il comportamento dei materiali o delle componenti immateriali di ciò che si vuole realizzare. Ma è soprattutto un alveo ideativo e progettuale, è un cantiere di discussione, è il terreno complesso, magico e problematico, in cui si incontrano il docente e il discente e in cui lo studente condivide con i suoi colleghi studenti un’esperienza comunitaria insostituibile.
Oggi possiamo intendere come laboratorio l’aula di incisione o di scultura così come un’area urbana, l’aula di sound design o di pittura così come il paesaggio, l’aula di animazione o di tecniche performative così come una sartoria, o un cantiere edile, un antico forno ceramico o una spiaggia inesplorata, una collezione di marionette, un centro di fisica nucleare nella pancia di una montagna o una raccolta di poesie. Il laboratorio, esattamente come lo studio dell’artista, è il fulcro di una prassi, ma è ancor prima la metafora della ricerca del senso delle cose, è il luogo e il modo della formulazione di un’idea per il presente. È un modo di essere, quello più proprio all’arte come forma di sapere che indaga il reale e l’irreale, come campo di incontro tra ratio e imaginatio, come forma politica di indagine sul mondo. Potremmo anche pensarlo come una forma etica, sulla scorta della quale esplorare le frontiere del nuovo, rinsaldare il legame con il territorio, coltivare la conoscenza delle tradizioni, in un esercizio costante del pensiero. È chiaro che sto parlando di un laboratorio che non corrisponde al rifugio narcisistico di un docente ma a una dimensione esperienziale in cui, con tempi e metodi differenti, la comunità accademica, nella sua eterogeneità anagrafica e culturale, si confronta e costruisce.
Per dialogare con il mondo dell’arte senza subire le spinte omologatrici del sistema, è molto importante, e in qualche modo scardinante rispetto ai modelli dominanti, assumere un modello di lavoro fondato non solo sull’interazione tra competenze e visioni distanti ma anche sull’intergenerazionalità dei punti di vista, mettendo in risonanza il corpo docente, il corpo discente e i tanti ospiti internazionali che tra workshop, seminari, convegni, mostre, talk animano il quotidiano accademico e sottopongono a costante revisione le tematiche e le urgenze sul tappeto.
Creare una coralità pulsante che pensa, dibatte, accetta, rigetta, progetta, realizza, espone: questa è la chiave per dar vita a una didattica efficace, che sappia riconoscere qual è il momento in cui cambiare e rinnovarsi. Se ci si concede la libertà di confrontarsi rapidamente con il nuovo senza dover per forza archiviare i saperi consolidati, se si fa leva sull’affinamento delle capacità critiche piuttosto che su quelle emulative, si può riuscire a lavorare nel presente in modo puntuale, preparandosi al futuro e schivando il rischio di invecchiare velocemente per aver codificato con troppa solerzia le mode passeggere.
Lo stesso vale per la relazione con il passato, compreso quello recente, che va affrontato in modo critico, sincronizzandolo con le istanze dell’oggi, trattandolo come una risorsa propulsiva per il pensiero e non come un repertorio di modelli. E attenzione, il passato per i giovanissimi non sono solo le statue greco-romane, le Stanze di Raffaello o gli impressionisti. Anche l’arte degli anni Novanta e Duemila è già parte del passato.
La questione dei modelli rimane dunque una questione e al contempo uno spettro per l’educazione artistica. Uno dei nodi sui quali è ancora necessario lavorare è proprio il bilanciamento tra pratica maieutica e modelli, educazione alla disciplina e cultura della libertà, autonomia ed eteronomia, e la risposta credo risieda, ancora una volta, nell’esercizio di costruzione, decostruzione e verifica che pertiene a ogni attività intellettuale e che è sempre appartenuto all’arte. «Arte torna arte» ci ha insegnato Luciano Fabro.
Chiudo affermando che per rimanere credibili nel tempo, le Accademie non potranno che impegnarsi a coltivare lo spirito dell’akademia di matrice greca, quello dell’academia di impronta latina, come probabilmente quello dell’academy, proveniente dal mondo dell’impresa. Senza dimenticare uno spazio dedicato alla riflessione sul fallimento. Quando lo scorso anno abbiamo invitato all’Accademia di Palermo William Kentridge, di fronte a una platea gremita di studenti (eravamo in un cinema), piuttosto che soffermarsi sul racconto dei suoi procedimenti o sul senso delle sue opere, il grande artista sudafricano ha voluto condividere l’esperienza del centro multidisciplinare che ha fondato a Johannesburg alcuni anni fa dedicandolo all’“idea meno buona”, all’errore e a tutto ciò che esso può portare con sé: The Centre for The Less Good Idea.