Cerca
Close this search box.

Studi su colonialismo e arti visive
Appunti per un lavoro in corso

Museo delle Opacità, Jermay Michael Gabriel, Yekatit 12, 2023, Museo delle Civiltà, courtesy Museo delle Civiltà, foto Giorgio Benni

Questo articolo è disponibile anche in: English

Premessa
Gli studi sul colonialismo italiano rappresentano una delle aree di riflessione più attive nel contesto della ricerca contemporanea, dove sfera accademica e istituzionale risultano essere sempre più in collaborazione con la dimensione delle arti visive, in particolare con la pratica di artiste e artisti connesse e connessi alle research-based practices, che hanno lavorato quasi in parallelo a e con studiose/i, incrociando più volte premesse ed esiti delle loro ricerche. Ciò ha contribuito a consolidare un modello di relazione che rappresenta un caso di studio ‘in corso’, in cui alle attività istituzionali e universitarie si integra la ricerca sulla storia e gli immaginari coloniali attraverso il ricorso a elaborazioni visuali, discorsive e performative, sottolineando la complementarità tra approcci teorici e artistici.

Saperi accademici e sguardi critici
Nel 1965 viene pubblicata la prima di una serie di fondamentali ricerche condotte da Angelo Del Boca sulle colonie, La guerra d’Abissinia, 1935-1941, in cui, per la prima volta, uno studioso italiano rompe il silenzio sull’uso dell’iprite, sulle stragi di massa e le deportazioni avvenute durante la guerra d’Etiopia, in un generale contesto di rimozione strumentale delle responsabilità coloniali e di inacessibilità delle fonti pubbliche[1]. Da allora, chiunque abbia trattato da una prospettiva critica il tema delle responsabilità storiche e delle eredità contemporanee del colonialismo italiano non può fare a meno di affrontare la questione dei processi di amnesia, rimozione, autoassoluzione, persistenza e rimemorializzazione della storia coloniale italiana e delle retoriche e narrazioni a essa correlate. Gli studi sul colonialismo italiano si sono trovati a dover attraversare una nebulosa di ‘conflittualità memoriale’, tracciando percorsi di analisi tra insabbiamenti, continuità e riemersioni di un passato che – per decenni non metabolizzato – è destinato a riaffiorare[2].

A partire da questa dimensione iniziale di marginalità, nelle università italiane, durante gli ultimi quarant’anni, si sono aperti spazi e tempi di discussione che hanno offerto prospettive, metodologie ed elaborazioni teoriche fra loro articolate, e che hanno contribuito alla definizione di posizioni disciplinari sempre più specifiche e documentate (nate in seno agli studi storici, a quelli storico-culturali, anche di carattere archeologico, e alle analisi socio-antropologiche) di cui è necessario fornire almeno una superficiale interpretazione[3], per quanto risulti complesso analizzare tali percorsi di ricerca nei loro possibili punti di connessione e intersezione con le arti visive. Su questo tema risulta fondamentale – anche grazie a contributi di recente pubblicazione qui a seguire riportati –  avviare un sistematico confronto interdisciplinare e una vera e propria indagine di campo, un fieldwork sul rapporto fra ricerca accademica/istituzionale e ricerca artistica contemporanea, al fine di analizzare le diverse modalità con cui il passato coloniale entra nel campo delle arti visive italiane, vittima, anche quest’ultimo, di quella ‘pervasiva rimozione collettiva’ presente tanto nell’opinione pubblica italiana quanto nel suo sistema dell’arte[4].

Data l’urgenza ma anche la complessità del tema, in questo contributo sono riportate solo alcune delle questioni emerse dai recenti studi sui rapporti tra il mondo accademico/istituzionale e la ricerca artistica, da una prospettiva che è quella di una curatrice interna a un museo pubblico, il Museo delle Civiltà di Roma. Un museo in cui nel 2017 sono confluite le collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma e che, negli ultimi anni, a partire da oggetti e documenti sensibili e problematici, in quanto connessi all’unilateralità della propaganda coloniale italiana, ha esplicitamente avviato un percorso di ripensamento sulle modalità di presentazione delle stesse collezioni, costruendo narrazioni condivise con comunità e individualità che operano nell’ambito della letteratura, dell’arte, dell’editoria contemporanea e dell’attivismo, per strutturare pratiche critiche che, nel contesto museale, non possono che tramutarsi in autocritiche. Un posizionamento, quindi, interno a una istituzione che a sua volta si posiziona tra accademia e arti visive, sostenendo la produzione e l’elaborazione di narrazioni differenti a quelle del proprio passato istituzionale e sperimentando pratiche di catalogazione e di restituzione interdisciplinari relative al passato coloniale italiano.

Porosità e complementarità tra approcci teorici e ricerche artistiche
Negli ultimi decenni, le istituzioni culturali sono state interessate dalla richiesta di assumere e di sperimentare una postura (auto)critica, generata da prospettive post-, de- e anti-coloniali. I musei etnografici, in particolare, sono stati oggetto di un processo di contrapposizione alle stesse ragioni alla base dei metodi occidentali di interpretazione, classificazione e presentazione dei patrimoni extraeuropei che, pur in una rinnovata consapevolezza, continuano ad agire attivamente nelle modalità di autoconservazione e riproduzione della funzione museale tradizionale e delle sue narrazioni[5]. Sul fronte delle università italiane, diverse sono le prospettive avviate al fine di sperimentare forme di posizionamento anticoloniale, antirazzista e intersezionale, pur in un più ampio contesto in cui sembra ancora predominare la produzione di saperi eurocentrici e di forme di esclusione[6]. Le curatrici del numero monografico Razzismo e antirazzismo in Italia (2023) ricordano, inoltre, quanto le genealogie del pensiero decoloniale rimandino non alle istituzioni di produzione e riproduzione ufficiale dei saperi disciplinari[7], ma prendano avvio da rivendicazioni e reti ‘dal basso’, sottolineando la relazione tra canone epistemico eurocentrico, colonialismo, razzismo, classificazione delle alterità, costruzione di oggettività e occultamento delle forme di storicità del sapere.

A partire da queste considerazioni, si possono individuare percorsi di relazione tra mondi apparentemente distanti – quali quello storico, teorico e letterario – con conseguenti porosità tra elaborazioni e codici espressivi differenti[8]. Considerando la complementarità fra le ricerche e le pratiche universitarie da un lato e quelle artistiche dall’altro, vale la pena citare una delle prime analisi della produzione critica delle arti visive degli ultimi decenni, il volume curato nel 2020 da Francesca Gallo Anticolonialismo e postcolonialismo nelle arti visive: prospettive italiane, che propone di ricostruire genealogie e fratture, individuando figure esemplari nella sperimentazione italiana sull’argomento. Negli ultimi decenni, del resto, l’emersione del tema relativo ai rapporti tra Italia e Paesi ex colonie, così come quello delle connessioni e delle conseguenze a essi associate nella società italiana contemporanea, ha costituito l’aspetto centrale e caratterizzante della ricerca di artiste e artisti, con una particolare attenzione alle relazioni con Etiopia e Libia[9].

Le accademie di belle arti in Italia sono state fra le piattaforme più incisive nell’analizzare i rapporti tra gli studi coloniali e la ricerca artistica, perché permeate da una pratica riflessiva e al contempo pedagogica, di storia e critica dell’arte e di docenza dal vivo, in tempo reale. In questo senso, risulta fondamentale la ricerca di Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi svolta a partire da un’indagine condotta tra il 2017 e il 2018 all’Accademia di Belle Arti di Brera, poi confluita nel volume Colonialità e culture visuali in Italia[10]. Il libro si presenta come «un’operazione di coscientizzazione e decostruzione» attraverso cui far dialogare, lungo l’arco temporale degli ultimi tre decenni, la ricerca teorica e le pratiche di artisti e artiste italiane/i e africane/i, con «l’ambizione di restituire in modo parziale le coordinate di un network in costruzione di autori, autrici e ricercatori e ricercatrici che[…] ha cominciato a strutturare un sistema di alleanze e affinità culturali e politiche»[11]. Un altro importante lavoro che ha interessato e interessa le accademie di belle arti quali luoghi e momenti di connessione, è quello realizzato da ricercatrici come Viviana Gravano e Giulia Grechi, cofondatrici della rivista «roots§routes. Research on visual cultures», che ha accolto numeri dedicati al dialogo tra riflessione teorica e artistica sul passato coloniale italiano[12]. Il lavoro di ricucitura tra queste due galassie dell’universo culturale si ritrova anche in diversi progetti realizzati da accademie e istituzioni culturali internazionali attive in Italia, come nel caso della mostra Tutto passa tranne il passato, organizzata nel 2020 dal Goethe Institut in collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino[13]. Ma questa lista potrebbe continuare, ampliando il panorama a luoghi non istituzionali, che – come suggeriscono Cippitelli e Frangi – svolgono un ruolo da protagonista nel lavoro di transizione postcoloniale in Italia e costituiscono un «altroveramificato e carsico che ha portato avanti processi di risveglio politico anti-coloniale in archivi informali e resistenti»[14]. Tra gli altri potremmo ricordare l’attività mobile di piattaforme curatoriali indipendenti come, a Roma, Spazio Griot o il collettivo Locales, entrambi partner anche del Museo delle Civiltà.

La Strage di Zeret: operare tra ricostruzione storica e ricerca artistica
Nel 2021-2022, il progetto PAC – Piano per l’arte contemporanea della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura ha permesso al Museo delle Civiltà di acquisire una serie di opere ispirate da alcuni episodi relativi alla storia coloniale italiana[15]. Opere che, attivando linee di attenzione e memoria su alcuni episodi dimenticati dall’opinione pubblica, costituiscono una rottura nella linearità e autoreferenzialità delle collezioni dell’ex Museo Coloniale. Uno dei lavori è la serie di fotografie tratte dal più ampio lavoro di ricerca realizzato da Rossella Biscotti, Note su Zeret (2014-2015), attualmente esposto nel percorso Museo delle opacità, che presenta e rilegge opere e oggetti delle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma (1914-1971) attraverso un dialogo con opere d’arte contemporanea[16]. L’artista ha realizzato un ‘diario visivo’ di quello che fu il luogo di una delle più violente stragi perpetrate dall’esercito italiano a danno della popolazione etiope. La grotta, divenuta rifugio dei combattenti della resistenza e delle loro famiglie dopo l’invasione, fu assediata e attaccata brutalmente dagli Italiani, anche con l’iprite, nell’aprile del 1939, causando l’uccisione di circa duemila persone. Biscotti ha visitato e fotografato la grotta con l’assenso della comunità, accompagnata da dieci suoi membri guidati da Elfinesh Tegeni, discendente di uno dei sopravvissuti. Il progetto dell’artista si colloca tra le ricerche artistiche che, recuperando tracce fra le meno facilmente ‘musealizzabili’ della storia coloniale italiana ed elaborando la relazione tra falsificazione ufficiale di propaganda e memoria orale contemporanea, si focalizzano sulla necessità di lavorare nei vuoti istituzionali per ripararli (più che riempirli) di un ricordare collettivo. Spazi in cui il pubblico e il privato, il museo e le sue responsabilità si ritrovano (finalmente?) faccia a faccia.

La sua ricerca si ricollega inoltre a quella svolta nel 2006 da Matteo Dominioni, illustrata nell’articolo Etiopia 11 aprile 1939. La strage segreta di Zeret[17], in cui lo storico ricostruisce le vicende relative alla repressione della resistenza etiope durante gli anni che seguirono l’occupazione ufficiale nel 1936, e restituisce un racconto della sua personale missione a Zeret realizzata tra il 10 e il 22 aprile del 2006[18]. Dominioni stesso scatta alcune fotografie inserite a corredo dell’articolo che, sebbene ancillari al racconto, diventano prova testimoniale della sua ricostruzione storica. Guardando a quelle immagini e al lavoro di Biscotti si materializza la sensazione di una continuità, pur nella differenza espressiva: la scelta dei dettagli rappresentati (esterno e interno della grotta), la testimonianza visiva di una presenza fisica che rintraccia i frammenti di una vicenda sconosciuta all’opinione pubblica, la compartecipazione della comunità locale, il dubbio sotteso alla possibilità di mostrare immagini violente. Come coniugare queste ricerche, storica da un lato e artistica dall’altro? Come guardare in prospettiva i diari visivi dello studioso e dell’artista?

Le differenze e reciprocità impongono di forzare la nostra attenzione e di prendere posizione. Un dato che, prima ancora che essere estetico è etico, e che, forse, tenta di rispondere alla percezione di una necessità: quella di collocarsi anche politicamente nel sistema culturale contemporaneo, raccontando a pubblici diversificati (giornale e museo) aspetti del nostro passato ritenuti finora marginali, che hanno però ramificazioni evidenti nel nostro presente. In questo senso, la pluralità di metodo e sensibilità provenienti da contesti diversi può aprire a forme plurali di storia sociale e contribuire a decostruire le narrazioni artistiche con cui è condivisa la loro rappresentazione.


[1] M. Dominioni, Il maestro Del Boca. Un ricordo di chi lo ha conosciuto da vicino, Dinamopress, 22 luglio 2021 (https://www.dinamopress.it/news/il-maestro-del-boca-un-ricordo-di-chi-lo-ha-conosciuto-da-vicino/, ultima consultazione: 10.10.2023).

[2] Sul tema della rimozione del passato coloniale italiano si rimanda a: N. Labanca, History and Memory of Italian Colonialism Today, in J. Andall, D. Duncan (a cura di), Italian Colonialism: Legacy and Memory, Peter Lang, pp. 29-40; A. Triulzi, Displacing the Colonial Event, in «Interventions», vol. 8 (3), Routledge, 2006; M. Mellino, Italy and Postcolonial Studies. A Difficult Encounter, in «Interventions», vol. 8 (3), Routledge, 2006; A. Del Boca, The Myths, Suppressions, Denials, and Default of Italian Colonialism, in P. Palumbo (a cura di), A Place in the Sun: Africa in Italian Colonial Culture from Post-Unification to the Present, University of California Press, 2003, pp. 17-36; V. Deplano – A. Pes, Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, Mimesis, 2014; G. Grechi – V. Gravano, Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, 2016.

[3] Pur non esistendo in Italia una tradizione di studi coloniali organizzata in dipartimenti specifici, si ricordano, senza pretesa di esaustività, alcuni autori che hanno avviato e contribuito all’affermazione della ricerca accademica sulla storia del colonialismo italiano: A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, 1976-1986, 1988-1990; N. Labanca, L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, Pagus, 1992; Id., Oltremare. Storia dell’espansione coloniale, Il Mulino, 2002; Id., History and Memory of Italian Colonialism Today, in J. Andall, D. Duncan (a cura di), Italian Colonialism: Legacy and Memory, Peter Lang, 2005, pp. 29-40; Id., La guerra italiana per la Libia. 1911-1931, Biblioteca storica, Il Mulino, 2012; Id., La guerra d’Etiopia. 1935-1941, Collana Le vie della civiltà, Il Mulino, 2015; G. Dore, Antropologia e colonialismo italiano. Rassegna di studi di questo dopoguerra, in «La Ricerca Folklorica» – La cultura popolare. Questioni teoriche, n. 1, aprile 1980, Grafo Spa, pp. 129-132; G. Dore, Per una storia sociale del colonialismo italiano, in «Passato e Presente», marzo 2018, pp. 129-132; A. Triulzi, a cura di, Fotografia e storia dell’Africa: atti del convegno internazionale, Napoli – Roma, 9-11 settembre 1992, I.U.O., 1995; C. Lombardi-Diop, C. Romeo, a cura di, L’Italia postcoloniale, Mondadori, 2014.

[4] Francesca Gallo scrive: «[…] Se nelle proposte artistiche internazionali la prospettiva postcoloniale emerge chiaramente nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, l’arte italiana degli ultimi decenni si sia occupata di rado del colonialismo nazionale, coinvolta sia nella generale e pervasiva rimozione collettiva che per primi gli storici hanno iniziato, tra mille resistenze, a incrinare, sia nel perdurare della mancata decolonizzazione della memoria pubblica», F. Gallo, a cura di, Anticolonialismo e postcolonialismo nelle arti visive: prospettive italiane, «From the European South» n. 6, p. 3.

[5] Il Museo come istituzione è stato al centro di riflessioni e letture critiche che ne hanno messo sotto analisi le specifiche retoriche e pratiche di comunicazione e rappresentazione (cfr. J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, 1993; I. Karp, S.D.Lavine, a cura di, Exhibiting Cultures. The Poetics and Politics of Museum Display, Smithsonian Institution Press, 1991), le procedure classificanti, i processi di decontestualizzazione, le tendenze predatorie (S.Price, I primitivi traditi. L’arte dei “selvaggi” e la presunzione occidentale, Johan & Levi, 2015; M.O. Gonseth, J. Hainard, R. Kaehr, a cura di, Le musée cannibale. Musée d’ethnographie de Neuchâtel, Neuchâtel Ed., 2002), le relazioni di potere/sapere (T. Bennet, The Exhibitionary Complex, «new formations», n. 4, primavera 1988). Sulle prime pratiche di progettazione sperimentate negli anni Duemila all’ex Museo Preistorico Etnografico L. Pigorini si rimanda a: R.A. Di Lella, Progettazione partecipata e dialogo con le comunità della diaspora, in «Nuova Museologia», n. 41, novembre 2019, pp. 55-59; V. Lattanzi, Musei e antropologia. Storie, esperienze, prospettive, Carocci 2021.

[6] T. Petrovich Njegosh, V. Ribeiro Corossacz, Introduzione: saperi e pratiche decoloniali, in Razzismo e antirazzismo in Italia. Saperi e pratiche decoloniali attraversano l’università italiana, «From the European South. A Transdisciplinary Journal of Postcolonial Humanities, n. 12, 2023, p. 6.

[7] Il pensiero decoloniale è radicato «nelle lotte per la sopravvivenza di gruppi storicamente oppressi in Abya Ayala e Nord America, gruppi appropriati nei rapporti sociali di razza, sesso/sessualità, classe che sfidano gli effetti concreti della valorizzazione del paradigma eurocentrico», ibidem, p. 8.

[8] Il panorama di approcci teorici e pratiche di ricerca si è intrecciato, a partire dagli anni Novanta, con una produzione discorsiva sulla storia coloniale italiana che vede il contribuito di opere di scrittori e scrittrici italiani/e e afrondiscedenti ─ produzione letteraria da Ennio Flaiano, Wu Ming 2 & Antar Mohamed a Pap Khouma, Gabriella Ghermandi, Francesca Melandri e Igiaba Scego, per fare solo alcuni esempi – che, ponendosi in una dinamica critica rispetto al passato coloniale, inaugurano in Italia un racconto postcoloniale che ha esplorato percorsi inediti rispetto al romanzo storico tradizionale, nella rinnovata relazione tra discorso storiografico e discorso narrativo letterario (Cfr. M. Bovo Romœuf, Vers un canon postcolonial multiculturel: Les cas paradigmatiques de Gabriella Ghermandi et Martha Nasibù, in M. Bovo Romœuf, F. Manai, a cura di, Memoria storica e postcolonialismo. Il caso italiano, Peter Lang, 2015).

[9] Sulle relazioni tra Italia e Libia, come analizzato da Francesca Gallo, si concentrano alcune produzioni di Martina Melilli, Leone Contini e Alessandra Ferrini, con approcci diversificati che vanno dalla dimensione memoriale e autobiografica alla prospettiva critica postcoloniale (F. Gallo, L’arte contemporanea di fronte al colonialismo italiano in Libia, tra autobiografia, memoria e critica postcoloniale, in «La Diana», n. 3, 2022, pp. 105-119).

[10] La ricerca ha dato vita a un laboratorio di curatela, un programma pubblico e il progetto espositivo del 2019 Amnistia. Colonialità italiana tra cinema, critica e arte contemporanea (Milano, 2018).

[11] L. Cippitelli, S. Frangi, a cura di, Colonialità e culture visuali in Italia. Percorsi critici tra ricerca artistica, pratiche teoriche e sperimentazioni pedagogiche, Mimesis 2021, pp. 13-14. Tra le artiste e artisti di cui sono pubblicati o ripubblicati saggi o interventi: Angelica Pesarini, Neelam Srivastava, Liliana Ellena, Peter Friedl, Gaia Giuliani, Wissal Houbabi, Alessandra Ferrini.

[12] Per i temi affrontati dalla rivista si rimanda a: <https://www.roots-routes.org/infine/> (20 ottobre 2023).

[13] La mostra è stata accompagnata da un ‘programma discorsivo’, con un programma di tavole rotonde e contributi di attivisti, artisti, esperti, curatori e ricercatori internazionali: <https://fsrr.org/mostre/tutto-passa-tranne-il-passato-everything-passes-except-the-past-festival-sulleredita-post-coloniale/>.

[14] L. Cippitelli, S. Frangi, a cura di, Colonialità e culture visuali in Italia, cit., pp. 15-16.

[15] La proposta del Museo delle Civiltà, dal titolo Metodologia contemporanea: cambiare linguaggio e riscrivere storie, è stata presentata con la curatela di Matteo Lucchetti, curatore per le Arti e culture contemporanee al Museo delle Civiltà.

[16] Museo delle opacità (6 giugno 2023 – in progress), a cura di Gaia Delpino, Rosa Anna Di Lella e Matteo Lucchetti, costituisce il nuovo capitolo dedicato al riallestimento in corso delle collezioni e delle narrazioni museali: un nucleo di opere e documenti dalle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma, entrate a far parte delle collezioni del Museo delle Civiltà nel 2017 e in corso di ricatalogazione.

[17] M. Dominioni, Etiopia 11 aprile 1939. La strage segreta di Zeret, in «Italia Contemporanea», n. 243, giugno 2006, pp. 287-302.

[18] Alla missione presero parte anche Yonatan Sahle, giovane ricercatore dell’università di Arba Minch, al sud dell’Etiopia, e Kebbedè Cherinet in qualità di autista, che supportano e aiutano lo studioso nell’individuazione della grotta.