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Scorrendo le esperienze e le teorie più importanti, e meno allineate, nella storia moderna dell’educazione in Europa e in Nord America appare chiaro che le migliori versioni della pedagogia si siano sempre delineate a partire da modelli alternativi, quando non antagonisti, a quelli somministrati dal costrutto sociale. A quelle idee, dunque, che, come scrivono Marx e Engels ne L’ideologia tedesca, sono «in ogni epoca l’espressione della classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio»[1], veicolate anche da chi insegna, riversate così in chi apprende.
Quando rifiuta, disconosce, travisa la vasta costellazione speculativa e sperimentale composta da moltissimi nomi, tra i quali John Dewey a Bell Hooks, Paulo Freire e Joseph Beuys, il patto educativo si riduce, nei casi migliori, a un passaggio di informazioni e a un ammaestramento relativo a specifiche competenze. Oppure, come surrettiziamente avviene dalla fondazione di un’istruzione statale obbligatoria estesa a tutti i cittadini, a un complemento dell’indottrinamento che lo Stato quotidianamente somministra con altre pratiche demagogiche. Negli ultimi decenni, poi, i disegni egemoni della politica si sono intrecciati con quelli dell’economia neoliberista riducendo l’educazione a un settore di investimento e l’idea di scuola a un’interpretazione manageriale, tra standardizzazione dei percorsi e incentivazione alla competitività, esasperando così i peggiori caratteri della didattica tradizionale[2].
Antitetica a questa uniformazione, alla consacrazione dell’efficienza, alla misurabilità della prestazione, una pedagogia radicale si posiziona all’origine del concetto di educazione e ne rivisita i fondamenti: la verticalità, la conoscenza come un patrimonio di dati da trasmettere, lo squilibrio nella relazione di potere tra docenti e studenti. L’educatore radicale, in questa prospettiva, agisce di conseguenza: sceglie formati di comunicazione orizzontale, predilige l’ascolto e le pratiche di condivisione della conoscenza, rinuncia al patetico privilegio della posizione cattedratica e, primariamente, si concentra sull’apprendimento piuttosto che sull’insegnamento. Smantella, quindi, la gerarchia tra docente e studente e, ancora più efficacemente, riconosce la mutualità di ogni sensata azione educativa.
L’esperienza dell’arte è quanto mai estranea alla dinamica dell’educazione trasmissiva, non solo rispetto alla sua creazione, ma anche per quanto riguarda la sua esegesi critica (imparare a commentarla) e comprensione (imparare a guardarla, a goderne). È impossibile insegnare, come fosse un qualunque insieme di competenze oggettive, il funzionamento di quella complessità che lega lo sguardo dell’artista sul mondo all’esito di questa osservazione, cioè l’opera. Se la pedagogia, nell’inclinazione che abbiamo definito radicale, non può essere modellata dagli imperativi del finalismo e del funzionalismo, la pedagogia artistica (l’educazione a fare arte, a commentarla, a misurarsi con le sue epifanie) è del tutto inconciliabile con il modello neoliberista.
Il dibattito sul funzionamento delle scuole d’arte, e la lista dei desiderata per la migliore delle scuole possibili, corre parallelo alla storia della pedagogia moderna ed è altrettanto denso e variegato. È ancora attuale, e vale la pena qui citarlo pur senza condividerne la linea conservatrice, quanto il teorico belga Thierry de Duve ha scritto riguardo le due principali scuole di pensiero che, contrapponendosi inconciliabilmente, hanno in parte fossilizzato le possibili evoluzioni del sistema educativo: quella di impianto accademico, di radice ottocentesca, e quella ispirata al baluardo del modernismo, la Bauhaus di Gropius, Klee, Kandinskij, Albers, da poco, più che centenaria[3]. De Duve articola la sua disamina in una triade di antinomie entro le quali ancora oggi si attardano tanto le istituzioni educative quanto i docenti: la formazione accademica crede nel talento, mentre il modello Bauhaus punta tutto sulla creatività; là dove, in ambito tradizionale, la tassonomia degli artisti e delle arti si struttura secondo il mestiere (anche nelle traduzioni inglesi de Duve usa il termine francese métier) e tutto quanto sia connesso alla sapienza artigianale, presso i pionieri del modernismo prevale invece il medium, quindi i materiali, le tecniche e i processi; ancora, mentre l’accademia di ascendenza ottocentesca coltiva l’imitazione, fondata sull’osservazione e la copia della natura, dell’antico e dei maestri, gli discepoli della scuola di Weimar prediligono l’invenzione, che «mostra la liberazione della creatività dello studente e la realizzazione del suo potenziale artistico»[4].
La crisi culturale che ha radicalizzato il Pianeta a partire dalla metà del secolo scorso ha reso però obsoleto anche il campione modernista. Così l’antitesi tra i due paradigmi si è afflosciata e, in quella zona d’ombra che sembra presiedere l’universo educativo, poco si è mosso. Secondo De Duve si è affacciata una nuova triade di nozioni (come risposta o opposizione alle precedenti diadi): attitudine, pratica e decostruzione. La prima emerge alla fine degli anni Sessanta e viene consacrata dalla mostra curata da Harald Szeemann, Live in Your Head: When Attitudes Become Form, alla Kunsthalle di Berna nel 1969. A diventare forma erano le attitudini di Hans Haacke, Eva Hesse, Jannis Kounellis e di altri artisti, intese come capacità critiche, personali e talvolta politiche, posizioni influenzate dalla cultura storica, dai temi sociali, dalle scienze cognitive e dalla filosofia. Purtroppo, i sistemi educativi, quando non riescono a influenzare il mondo fuori dalle aule, più facilmente si limitano a emularlo supinamente. Così le attitudini creative degli artisti sono scolorite per diventare atteggiamenti automatici, formati astratti e avvilenti per l’invenzione, almeno quanto lo era l’imitatio naturae del così remoto, in apparenza, passatismo accademico. Il medium, intanto, è naufragato nella pratica, disincarnando in modo definitivo il rapporto con la tecnica, e dalla dualità tra imitazione e invenzione è stata sintetizzata la decostruzione, che de Duve imputa all’influenza (io direi, piuttosto, a una frettolosa lettura) della French Theory, con il risultato che «gli studenti che non hanno avuto il tempo di costruire una cultura artistica di alcun tipo vengono educati alla diffidenza decostruttiva tipica del nostro tempo»[5].
La verità, ancora una volta, è che l’universo della didattica (quella artistica in testa) è espresso dal medesimo costrutto sociale che assorbe, fiacca e pertanto neutralizza l’innovazione, la provocazione e ogni rovesciamento estetico. Così, anziché incoraggiare la sperimentazione e sollecitare un pensiero divergente, i docenti, con sporadiche, eroiche eccezioni, preferiscono l’adesione alle indicazioni ministeriali o alle tendenze dettate dal mercato, dalle opinioni preconfezionate e dall’automatismo del gusto corrente. Prevale oggi la tendenza alla professionalizzazione, un paradigma accettato passivamente che intralcia lo sviluppo della pienezza personale e creativa, tra reificazione del talento e travisamenti dell’attitudine. D’altra parte, nel grigiore conformista della maggior parte dei musei e delle gallerie, le scuole d’arte, assieme a una manciata di spazi istituzionali e di situazioni perlopiù periferiche (rispetto al potere politico e al mercato) sarebbero gli ultimi luoghi in cui una sperimentazione autentica, ferocemente indipendente potrebbe realmente avere luogo. Ciò può avvenire solo a patto che si abbia il coraggio della radicalità, la forza di smantellare le architetture di una didattica arenata tra le scorie teoriche del secolo scorso e le ingerenze finanziarie del presente.
Peraltro, nessuno dei due modelli delineati da de Duve è sufficiente a comprendere e affrontare le trasformazioni in corso, e non lo sono nemmeno le loro combinazioni o le loro evoluzioni. Lo stesso teorico aveva elaborato un’altra, ugualmente vana, triade: giudizio (critico), tradizione e simulazione[6]; e anni più tardi, Daniel Birnbaum, in un’irresistibile conversazione letteraria tra Adorno e il Diavolo, fa pronunciare a quest’ultimo la terna composta da ospitalità, collaborazione e scambio, che «almeno somiglia a quello che hai fatto nell’ultimo decennio»[7]. Ma, nella attardata postmodernità che stenta a lasciarci, è possibile pensarsi fuori da una dialettica di questo tipo? È possibile, senza oblio del passato, edificare un presente e progettare un futuro della pedagogia in termini propositivi? Esiste in realtà un arcipelago, per lo più poco rumoroso, di centri per la sperimentazione, di spazi dedicati alla ricerca di quell’enorme potenziale che l’arte possiede quando viene intesa come pedagogia. Sono luoghi, talvolta transitori, spesso difesi con coraggio, che intendono quest’ultima nella più libertaria delle interpretazioni: un esercizio del pensiero, un dispositivo cognitivo, un’avventura di carattere esplorativo, per chi la crea, per chi la osserva, per tutti coloro che vengono coinvolti nell’indecifrabilità del suo prodursi e manifestarsi.
Più che altrove, nel mondo dell’arte l’educatore dovrebbe aspirare a una visione radicale, ben informato della struttura scolastica tradizionale e della sua assonanza con le geometrie del potere, ispirato dalla storia delle sperimentazioni anarchiche e libertarie e, infine, audace quanto basta per pensare a sé stesso come a un provocatore, un iconoclasta capace di ridiscutere il sacro e il magnifico, l’intoccabile e il conveniente: un’educazione attraverso l’arte, prima, e meglio, di un’educazione all’arte.
[1] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, 2000, p. 14.
[2] L’assoggettamento dell’educazione all’economia è leggibile tra le righe del controverso Processo di Bologna, 1999, nato per creare un’area europea dell’istruzione superiore, al quale hanno partecipato tutti i ministri dell’educazione degli stati membri dell’Unione; per una rapida ricognizione sul processo si veda, tra l’altro: D. Lesage, The Academy Is Back: On Education, the Bologna Process, and the Doctorate in the Arts, in «e-flux – journal» marzo 2009, <https://www.e-flux.com/journal/04/68577/the-academy-is-back-on-education-the-bologna-process-and-the-doctorate-in-the-arts/> (settembre 2023).
[3] T. de Duve, Faire école (Ou la refaire?), Les Presses du réel, 1992; Id., When Forms has Become Attitude – And beyond, 1994, ora in: Z. Kocur, S. Leung (a cura di), Theory in Contemporary Art since 1985, Wiley-Blackwell, 2004, pp. 21-33.
[4] Ivi, p. 26.
5] Ivi, p. 32.
[6] Cfr. Id., Faire école… cit.
[7] D. Birnbaum, Teaching Art: Adorno and the Devil, in S. H. Madoff (a cura di), Art School (Propositions for the 21st Century), MIT Press, 2009, p. 241.