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Storie e luoghi
Comunità artistica indipendente a Torino

Adele Dipasquale, Lose Voice Toolkit, CRIPTA747 Residency Programme – Open Studio, 2022

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Torino, città sfaccettata e complessa dove il passato autocelebrativo sabaudo si scontra con una realtà postindustriale, caratterizzata dalle ondate di immigrazione e dalla resistenza di un sentire underground dedito alla sperimentazione. Numerosi festival, progetti e realtà compongono, ormai da decenni, un sottosuolo di attività culturali strutturate e diversificate: cinema, musica, sonoro, arti performative, arti contemporanee. In città il tempo è scandito da eventi più o meno istituzionali, in una concatenazione di appuntamenti fissi ma dalle programmazioni in costante aggiornamento. Per questo, nonostante le dimensioni limitate, la città offre una proposta culturale competitiva anche in virtù di una storia passata rinomata e caratterizzata da forti declinazioni internazionali.

Se esiste, da un lato, un sistema artistico dato dalla presenza e coesistenza di istituzioni museali, gallerie e fondazioni private, è interessante, d’altro lato, domandarsi quale sia lo spazio d’azione di quelle realtà come spazi no profit e artist-run space, che, percepiti per posizione e attitudine più vicine al contesto cittadino in cui si collocano, restituiscono una dimensione umana alla comunità dell’arte, contribuendo alla costruzione di visioni allargate del fare arte, unendo ideali di inclusività a progettualità in grado di assorbire con rapidità e radicalità istanze di rinnovamento.

L’idea stessa di comunità è necessariamente mutata nel tempo ed è interessante citare due realtà indipendenti dal portato anche di natura sociale e politica oltre che strettamente culturale: tra queste A.titolo, un modello di curatela comunitaria attivo dal 1997 e fondato da un gruppo di curatrici, critiche e storiche dell’arte quali Giorgina Bertolino, Francesca Comisso, Nicoletta Leonardi, Lisa Parola e Luisa Perlo, che hanno creduto nel ruolo dell’arte pubblica e dei processi partecipativi, lasciando un’impronta metodologica e teorica di grande importanza in città. Altro esempio rilevante è quello di Progetto Diogene, fondato nel 2007 da un gruppo di artisti, tra cui Andrea Caretto, Raffaella Spagna, Franco Ariaudo, Manuele Cerutti e fucina di mostre, talk, eventi espositivi e di residenze internazionali per molti anni, spesso realizzati attorno alla loro sede, un tram color argento tuttora collocato al centro di una rotatoria. Un mezzo di trasporto fermo e dislocato forse, ma anche un simbolo rappresentativo di un’utopia artistica e di una collettività che si unisce per fare del paesaggio urbano la sua stessa residenza: ancora oggi caratterizza l’incrocio tra corso Regio, parco e corso Verona, un’area prossima al centro cittadino ma comunque laterale e che, negli ultimi anni, sta riscuotendo sempre più attenzione dagli spazi no profit.

Lì vicino, in via Catania 15, si è trasferito Cripta747, no profit fondato da Renato Leotta, Elisa Troiano e Alexandro Tripodi nel 2008 per supportare la produzione del contemporaneo e di formati multidisciplinari. Forte di una longevità che ha pochi pari, dati i quindici anni di attività continua, Cripta747 esprime un’identità nomade e ibrida con un programma di mostre in luoghi non canonici, progetti di ricerca e attività partecipate sul territorio, dimostrando particolare interesse per il sonoro e rinnovando la propria programmazione in base alle diverse sedi in cui ha operato, tra cui il basement della galleria Franco Noero tra il 2013 e il 2015.

Tra i principali caratteri operativi di Cripta747 si può identificare la declinazione per processi di auto-formazione di una comunità attiva e ricettiva, pensati sia per funzionare in una prospettiva locale  che internazionale. Dati alla mano, l’accento posto sulla dimensione umana e sull’etica dell’incontro, sulla condivisione del processo piuttosto che sulla produzione in sé dei lavori, assieme alla fortuna dei loro progetti, ha fatto sì che molti artisti si siano trasferiti in città dopo aver collaborato con loro nell’ambito dello Studio Programme (progetto di condivisione di studi) o dopo essere stati assegnatari della Fellowship Residency Programme (residenza di tre mesi finanziata dallo spazio).

Camminando per qualche minuto verso il centro, in via Reggio 13, si incontra Almanac Inn, sede torinese di Almanac Projects, spazio no-profit nato a Londra nel 2013.

Fondato da Astrid Korporaal, Francesca von Zedtwitz-Arnim e Guido Santandrea, Almanac ha l’apparenza di un white cube ma scivola via da questa definizione: se si pone l’obiettivo di sostenere l’arte emergente con mostre personali di artisti italiani e stranieri, allo stesso tempo promuove residenze di produzione e ricerca anche dalla dimensione collettiva e sconfinanti nei territori extraurbani. La stessa elaborazione di un public programme che prevede talk, screening e reading group è pensata per coinvolgere i partecipanti nella riflessione su temi e teorie del contemporaneo, per dare corpo e voce a istanze progressiste e alle tematiche di genere. Sono inoltre in preparazione una serie di crits, ideati per incentivare la discussione su progetti artistici alla presenza di artisti, curatori e critici del territorio, al cui termine potrebbe seguire la consueta cena di cibo cinese in condivisione post-opening.

Un approccio diverso muove invece l’associazione Barriera che ha sede nell’omonimo quartiere, in via Crescentino 25, dove si incontrano ricerca autonoma e partecipazione di privati.

Nato nel 2007 come deposito di opere d’arte di un gruppo di collezionisti torinesi, lo spazio è diventato subito altro: un ricettacolo di mostre personali e collettive caratterizzate dallo stile industriale del luogo. Tra queste, i progetti di giovani curatori selezionati al termine della partecipazione a Campo (il corso della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e di altre realtà curatoriali, oltre alle personali di rilievo internazionale che si tengono sotto Artissima in collaborazione con gallerie estere.

Negli ultimi anni, sotto la direzione di Sergey Kantsedal ─ anche lui proveniente da CAMPO ─ e con l’assistenza di Yuliya Say, si è rafforzata una proposta che catalizza una scena underground attiva in città e che prende le mosse da istanze queer e dalla rilettura delle estetiche glam, gotiche e hardcore, in dialogo con figure storiche di stanza a Torino: artisti come MRZB e Sebastiano Impellizzeri, galleristi come Guido Costa, e non solo.

Non è per nulla secondaria, infine, la collocazione in un quartiere periferico raccontato come difficile: se da un lato appare un’opportunità per ridurre i costi, dall’altro crea un luogo di confronto aperto a tutti in un’area dimenticata dall’arte contemporanea.

Tra i molti progetti emersi negli ultimi anni e che rinnovano il carattere no-profit della città, c’è Osservatorio Futura, che si trova in via Giacinto Carena 20. Fondato il 1° settembre 2020 da Francesca Disconzi e Federico Palumbo come progetto editoriale, è presto diventato anche spazio espositivo in continua evoluzione, che eredita e trasforma il particolare interesse per la scrittura e il confronto critico in progetti espositivi che interpretano lo spazio come strumento per fare rete in maniera multidirezionale.

Lo spazio fisico all’apertura, in piena pandemia, ha prodotto tredici mostre di artisti emergenti, alcune dai titoli che dichiarano essi stessi premesse comunitarie, come Abbiamo invitato un po’ di artisti nello spazio. La vocazione al gruppo, che abita le stesse mura dello Spaziobuonasera, ormai chiuso e di cui forse eredita un carattere giovanile, è però portata avanti con attenzione a ciò che avviene oltre la propria cerchia. Il sito internet osservatoriofutura.it è un luogo di esercizio per la critica d’arte, messa in generale ai margini negli ultimi anni, e la passione per l’editoria sconfina nelle numerose pubblicazioni: “Fanzine”, rivista di circa sessanta pagine a numero, in cui vengono pubblicati articoli e interviste; “Speciale +”, e libri come Centro di gravità temporaneo, vol I, a cura di Carlo Corona su no-profit e artist run-space presenti sul territorio nazionale. Un lavoro encomiabile, con la sola pecca di non avere anche una versione in inglese, lingua franca dell’arte.