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La presenza di comunità artistiche nella Milano dai primi anni del nuovo millennio a oggi è costante. Negli anni Dieci, non sono rari gli artisti, spesso coadiuvati da curatori, critici e animatori culturali che si sono riuniti in associazioni o collettivi, dando forma a comunità e condividendo studi e spazi di confronto anche con il pubblico.
I gruppi organizzati, nel mondo dell’arte e della cultura, nascono, principalmente, per due motivi: rispondere a un modello che non li soddisfa creandone uno alternativo, oppositivo o integrativo, e trovare solidità nel gruppo, al fine di superare la fragilità dell’individuo.
A Milano, città fortemente creativa ma estremamente difficile, questa seconda ragione spesso prevale. D’altra parte, è anche storicamente nota la vivacità della città, che già nel 1909 era dotata di uno spazio come la casa degli artisti, che ospitava laboratori e atelier d’arte, rinnovata nel dopoguerra da figure come Luciano Fabro, Hidetoshi Nagasawa, la critica Jole De Sanna. Un luogo che è stato rifondato recentemente e gestito da diverse associazioni come centro di residenza, produzione e fruizione, aperto alla città[1].
Oggi come ieri, i giovani artisti hanno capito che stare insieme è meglio che stare soli. Questa conclusione deriva tuttavia, in alcuni casi, più da un calcolo strumentale che da un’ambizione idealista. Eppure, in tutti i collettivi questa doppia natura ha sempre convissuto: il gruppo fa la forza e ciascuno si aiuta a vicenda. La differenza – una differenza sostanziale – rimane il desiderio di fondo: farsi conoscere come gruppo per poi emergere come individuo o immaginare una dimensione di comunità alternativa.
Se in una città come Bologna la disorganizzata vivacità artistica studentesca dà vita a una moltitudine di esperienze che hanno un sapore anarchico e underground, la scena artistica indipendente del capoluogo lombardo, per quanto patria di numerosi artist-run space, manca oggi di una radicalità politica e immaginativa. In parte è sicuramente imputabile alla digitalizzazione dello spazio fisico, che ha aumentato le distanze e rarefatto la complicità fisica della collettività. Un recente esempio è rappresentato da Residenza La Fornace, curata da Edoardo Manzoni e Giada Olivotto in una cascina di campagna di provincia. Pur avendo unito in un contesto rurale numerosi progetti e artisti calati nella filosofia del luogo, la posizione è rimasta ignota e il progetto diffuso unicamente attraverso i media. Tuttavia, lo sforzo unito di artisti e artiste, pur con poco o senza alcun aiuto istituzionale, ha talvolta creato le basi per un’esperienza collettiva di vocazione ampiamente partecipativa e comunitaria. In questi casi, l’intento degli artisti, o meglio deз artistə coinvoltə, è nella cornice delineata, assolutamente meritevole di attenzione.
Tracciando il profilo degli ultimi vent’anni, è emerso come le comunità siano sorte o si siano identificate sotto diverse forme. A Milano si sono in particolare raccolte intorno a uno spazio indipendente o artist-run space, a una rete di comunità o, infine, intorno a un magazine. Bello e quasi stupefacente come, nonostante il declino dell’editoria e l’affermazione del digitale, un’idea di collettività possa ancora oggi affermarsi intorno alla carta stampata, in maniera non troppo dissimile da come avveniva nella prima metà del Novecento.
Queste tre forme di raccoglimento permettono di comprendere, attraverso il confronto, come, tra i primi anni del Duemila e le espressioni attualmente attive, l’idea di collettività sia mutata. In questo testo si è dunque deciso di raccontare le esperienze più significative che hanno attraversato la scena artistica di Milano nel recente passato fino a oggi.
Gli artist-run space, in particolare quelli fioriti a cavallo tra il primo e il secondo decennio del Duemila, testimoniano il desiderio di co-creare e di tessere relazioni stabili con il pubblico, oltre che con la comunità artistica. Tra quelli che sono stati veri e propri luoghi di confronto tra artisti e curatori, esemplare fu Brown Project Space, il primo spazio di progetto gestito da artisti, diretto dal 2008 al 2012 da Luigi Presicce e Luca Francesconi, che seguiva la pubblicazione della rivista «Brownmagazine», attorno alla quale si erano riuniti artisti, curatori e critici. Gli spazi espositivi di Brown furono un vero e proprio laboratorio aperto al pubblico dove confrontare idee, pratiche e strumenti: non era solo uno studio condiviso o uno spazio espositivo, ma un soggetto unico, unitario.
Nello stesso anno si avviava anche MARS, come realtà gestita esclusivamente da artisti e aperta al pubblico dell’arte. Con una formula diversa, ebbe poi un certo seguito Mesopotamia, fondato da Alessandro Nassiri e Matteo Zarbo, che tra il 2012 e il 2013 organizzarono dodici incontri in uno studio che veniva svuotato una volta al mese per ospitare un incontro pubblico tenuto da un artista, un critico o un curatore.
Oggi, dopo le esperienze di Gasconade, Tile Project Space, Current e molti altri progetti che hanno formato artisti e curatori, sono pochi gli artist-run space che resistono alla forza centrifuga del capoluogo, che li spinge a disgregarsi e ‘re-individualizzarsi’, destinando i membri a proseguire le proprie ricerche altrove.
Tra questi, radicati da tempo sul territorio urbano sono Spazio Serra e Edicola Radetzky, entrambi gestiti da artisti, per artisti, con grande generosità. I due spazi, nati da luoghi di fruizione pubblica – il primo riqualificando uno spazio metropolitano, il secondo, appunto, una ex edicola sulla Darsena – portano avanti, con scarsi fondi ma una notevole tenacia e organizzazione, una programmazione aperta e sperimentale ormai da numerosi anni, a cui si è più di recente unito l’esperimento di Co-Atto, nella stazione ferroviaria di Garibaldi.
Il cosmo degli spazi di ricerca indipendenti si è spesso unito, nella recente storia milanese, a numerose forme e manifestazioni di attivismo, talvolta in maniera programmatica. Le questioni abitative e che interessano lo spazio pubblico di Milano, unite alla difesa dei beni comuni, di cui fu ispiratore Ugo Mattei[2], diedero vita e cementarono alcune comunità di artisti e lavoratori dell’arte, che crearono diversi spazi di discussione aperti alla cittadinanza. Un caso esemplare fu Isola Art Center, progetto nato nel 2001 che riunì un gruppo di critici, curatori e artisti allo scopo di collaborare con le associazioni del quartiere Isola in difesa dello spazio pubblico e per la creazione di un centro per l’arte.
Tra il 2003 e il 2007, il gruppo occupò la “stecca degli artigiani”, trasformandola in uno spazio espositivo, e sostenne le lotte degli abitanti del quartiere contro l’urbanistica top-down. Insieme a numerose altre personalità autonome attive nell’arte e nella cultura, nel luglio 2011 venne fondato il gruppo Lavoratori dell’arte, che si riuniva all’ARCI Bellezza in confronti pubblici molto partecipati. Dopo un atto dimostrativo, l’occupazione del PAC di Milano, il 2 dicembre 2011, il gruppo iniziale si disgregò e confluirono altre personalità e attivisti dando vita all’occupazione di un grattacielo abbandonato, Torre Galfa, rinominato Macao, poi sgomberato e spostato a palazzo Citterio a Brera e, in seguito, in un ex macello nella zona di Calvairate. Era il periodo di altre occupazioni di luoghi della cultura in Italia, di cui il più noto fu il Teatro Valle di Roma[3].
Un caso peculiare di attivazione artistica e sociale nel segno della rete è l’idea della piattaforma che, facendo affidamento (anche) su una comunicazione basata sulle caratteristiche dei media, è cambiata notevolmente a distanza di poco tempo. Per vent’anni, dal 1995 al 2015, è stato attivo UnDo.net, grazie agli artisti Anna Stuart Tovini e Vincenzo Chiarandà (Premiata Ditta), in grado di coinvolgere centinaia di autori e operatori dell’arte nella costruzione di una piattaforma di dialogo e condivisione online e in presenza sul fare arte, «modello partecipativo che sviluppi la condivisione di ricerche, risorse e conoscenze, la collaborazione e lo scambio».
Oggi, la più importante e continuativa esperienza tra arte e attivismo, emersa a Milano e poi estesa anche oltre il territorio nazionale, è la multiforme realtà di Tomboys Don’t Cry. Nata nel 2011, è una piattaforma aperta per ragazze di ogni genere e alle persone non binarie, nell’intersezione tra lesbismo, queer e transfemminismo. È un collettivo attivista, ma anche una serata itinerante, un gruppo performativo e un’indagine artistica; al di là delle definizioni, che Tomboys Don’t Cry sembra far di tutto per rifuggire, le fondatrici hanno voluto creare una rete sociale che sostiene e si sostiene, animata da una volontà di resistenza e di unione. Ogni iniziativa accompagna un discorso politico e sociale che fino ad allora non trovava identità e riconoscimento né nella dimensione artistica né in quella commerciale e musicale. La realtà TDC è ora uno dei principali riferimenti in Italia della comunità LGBTQAIXYZ, ma le fondatrici sono anche l’anima di Sprint, la fiera dell’editoria indipendente che si svolge ogni anno in autunno a Milano, giunta alla decima edizione.
Rimanendo nell’ambito dell’editoria, in questi ultimi anni sono state tante le nuove riviste create o autopubblicate, dalla più storica «Kaleidoscope» al più recente «Frankenstein Magazine».
Dove il magazine supera i confini fisici della carta stampata, facendo confluire l’espressione di una serie di legami e relazioni più ampie, vi si può leggere l’espressione di una collettività. L’esteso universo della rivista si concentra nella realtà cartacea della pubblicazione, al tempo veicolo e contenitore di un principio di comunità 2.0, sia essa basata su un canone estetico e un’affinità alla sperimentazione, come nel caso di «Kaleidoscope», più vicino alla moda e alla brand identity, sia specificatamente orientata a un tema, come per «Frankenstein Magazine».
«Kaleidoscope», attiva dal 2009, condivide, insieme con Slam Jam e Carhartt Wip, la direzione creativa di Spazio Maiocchi, un ex edificio industriale riconvertito a spazio espositivo, ricco di eventi e manifestazioni, tra cui screening, mostre e incontri. La distinzione tra la direzione artistica della rivista e quella dello spazio fisico è a tratti sfumata; si può dunque notare come la rivista possa rappresentare il corollario di una progettualità più ampia o, viceversa, come lo spazio possa essere ausiliario alla rivista, pur essendo, quest’ultima, un oggetto-opera ben definito.
«Frankenstein Magazine», fondata solo nel 2019 da Stefano Coizzi, Emiliano Fadda, Marcello Mosca e Dario Guccio, è oggi un punto di riferimento per la comunità di scrittori che spazia dal fumetto alla scrittura creativa, fino alla graphic novel.
Per certi versi una classica raccolta di fumetti, la rivista ─ ogni numero più corposa ─ raccoglie un pluralismo di contributi all’incrocio tra linee stilistiche e narrative diverse. Le narrazioni, come storie a puntate, si dividono sovente tra più numeri, per dare un senso di continuità e maggior spazio agli autori, oltre che un senso di appartenenza. Lo scorso anno si è inoltre inserita nell’organizzazione della Drawing Week, la settimana dedicata al disegno nelle sue varie forme espressive, in collaborazione con la Collezione Ramo e culminata in un momento di incontro ai Caselli 11-12, intorno all’ottavo numero del magazine.
La comunità è una realtà che può assumere molteplici forme, accomunate dal desiderio e dalla propensione a rinunciare a parte della propria individualità per costruire qualcosa di condiviso. A Milano, forse proprio per lo stress a cui la città sottopone l’individuo, e l’artista, l’esigenza della condivisione ha sempre dato luogo e spazio a iniziative propositive, che hanno cercato di ritrovare il senso della connessione sopra il lavoro, la carriera, l’autorialità o il denaro.
Nonostante i numerosi esempi di gruppi e collettivi attivi, rimane tuttavia vivo il dubbio che l’artista, in questo nuovo millennio, ambisca più di tutto a inserirsi nello scacchiere sociale, adeguandosi a determinate norme e aspettative, piuttosto che rigettarle per immaginare nuove forme di relazione. Nonostante, a parole, il desiderio di creare una società alternativa sia estremamente diffuso, viene da chiedersi quanto l’immaginazione e il ripensamento della vita collettiva siano formule retoriche, entrate nel vocabolario quotidiano per abitudine e ripetizione, piuttosto che obiettivi concreti.
Dopo oltre due mesi di radicale e collettiva messa in discussione della società occidentale, durante la prima quarantena di COVID-19, sia in seno al mondo dell’arte, sia fuori, dopotutto, poco appare cambiato, tanto meno a Milano.
[1] In seguito all’aggiudicazione del bando di gestione dell’immobile, indetto dal Municipio 1 del Comune di Milano, è stata costituita un’associazione temporanea di scopo (ATS) comprendente le cinque realtà no-profit che hanno partecipato al bando: ZONA K, capofila, That’s Contemporary, Atelier Spazio XPÒ, NIC Nuove Imprese Culturali e Centro Itard Lombardia, con Future Fond, come partner esterno.
[2] Ugo Mattei nel 2012 pubblicò per Laterza Beni comuni. Un manifesto.
[3] M. Watson, La lotta comune di Macao. Produzione, sovversione, proprietà, «Operaviva», 2017, https://operavivamagazine.org/la-lotta-comune-di-macao/ (22 feb. 2023).