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I ragazzi della via Pál
La banda come forma di vita

Narcisa Monni, Scusami se sono sempre triste, 2020, acrilico e tempera su carta, 18,5 x 17 cm, dettaglio, courtesy l’artista

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Secondo l’antropologia culturale la ‘banda’ è una forma elementare di organizzazione tra persone, che precede la forma tribale e quindi anche quella statuale. È caratterizzata da un basso livello di coesione politica, da una struttura interna piuttosto fluida e dalla mancanza di una formalizzazione dell’autorità.

Una banda è fatta di un numero relativamente esiguo di persone che si uniscono perlopiù estemporaneamente per stare insieme e difendersi dai pericoli esterni e, allo stesso tempo, per ottenere un risultato immediato e necessario alla sopravvivenza che, in origine, era legato all’attività dei cacciatori nomadi. Tutte caratteristiche più o meno riscontrabili nelle bande giovanili che hanno caratterizzato la scena controculturale dei paesi occidentali dal secondo dopoguerra a oggi, ma del tutto assenti nella principale forma organizzativa che ha attraversato le arti del XX secolo, ovvero l’avanguardia.

Ispirandosi all’organizzazione militare propria degli stati moderni e, quindi, alla struttura gerarchica degli eserciti regolari, gli artisti di inizio Novecento, come i loro coetanei militanti politici di professione, diedero vita a quei ‘manipoli’ che cambiarono per sempre le sorti delle arti contemporanee.

Lo fecero all’interno di gruppi più o meno piccoli, ma rigidamente organizzati, guidati da un capo e con un manifesto artistico-politico da realizzare. Lo stesso si può dire, dopo le esperienze storiche, anche per quelle ‘neoavanguardie’ della seconda metà del secolo scorso.

Accanto a questa forma tipicamente novecentesca dello stare insieme in arte, se ne può individuare un’altra – non sempre perfettamente distinguibile dalla prima, ma, a ben vedere, continuamente sovrapposta e incardinata a questa – che è stata quella della ‘tribù’, forma organizzativa meno rigida e più fluida, ma allo stesso tempo più strutturata e complessa rispetto alla banda, e con alcuni tipici tratti comunitari. In questo senso vengono in mente, a titolo esemplificativo, le esperienze dalla comune di Monte Verità in Svizzera, gli espressionisti tedeschi, il gruppo Fluxus, e le comuni hippie.

Entrambe queste forme dello stare insieme, l’avanguardia e la tribù, sono legate alla forma Stato, in chiave di suo rivoluzionamento per quanto riguarda la prima, o di suo rifiuto per quanto riguarda la seconda. Ma sono, tutte e due, forme organizzative indissolubilmente legate allo Stato o, meglio ancora, alla sua declinazione nazionale, e si tengono insieme come antinomie di quel Leviatano che Nietzsche individuava come il più «freddo di tutti i mostri», allo stesso modo della Gemeinschaft e della Gesellschaft (Comunità e Società) che Tönnies considerava equivalenti, due facce della stessa medaglia.

Ora, invece, la banda di cui parlavamo poco fa è precedente, o anche successiva, rispetto a quelle forme organizzative interne alla statualità. La banda, quindi, non rifiuta lo Stato, come faceva la tribù, né intende rivoluzionarlo, come faceva l’avanguardia, semplicemente perché non lo conosce – benché questo possa continuare a esistere e farsi sentire come zombie che non smette di morire – e, di conseguenza, è un problema che per lo più non la riguarda, se non come un fastidio cronicizzato o un film horror che però prima o poi finisce.

È interessante notare, quindi, che, dopo aver convissuto per un certo periodo insieme alle forme dell’avanguardia e della tribù ‒ pensiamo appunto alle controculture giovanili degli anni Sessanta e Settanta ‒, quella della banda si sia affermata, anche nelle arti, come la principale forma esistenziale di organizzazione e condivisione dell’esperienza. Proprio quando la storia dello Stato nazionale che è stato protagonista della vita e della morte di milioni di persone – la prima e la seconda guerra mondiale sono state guerre tra Stati-Nazione ‒, è ormai al crepuscolo, e lo spazio nel quale vivere diventa quello di un mondo globale senza un fuori, ma che da fuori possiamo osservare (come aveva genialmente intuito Alberto Boatto nel suo libro Lo sguardo dal di fuori), la banda torna a diventare la principale forma organizzativa dello stare insieme.

Non è allora un caso che la cronaca dei giornali registri, sempre più spesso, atti di teppismo di cui si rendono protagoniste bande di giovanissimi che così esprimono il loro bisogno distorto di comunità. E non sorprende che negli ultimi anni, dopo una lunga stagione di ‘grande freddo’, durante la quale a farla da padrone era stato l’individualismo, dopo la neoavanguardia dell’arte povera ‒ che in realtà si collocava in uno spazio liminare tra quello dell’avanguardia propriamente detta e quello della tribù ‒, e dopo la transavanguardia ‒ che era un ‘gruppo’ programmaticamente paradossale, perché fatto di individualità riunite da un critico (e lo stesso si potrebbe dire per altre esperienze più o meno simili, che all’epoca esemplificarono la crisi delle due forme moderne dello stare insieme) ‒, sempre più spesso gli artisti delle generazioni più giovani, diciamo quelli nati tra la metà degli anni Novanta e i primi anni del nuovo millennio, abbiano dato vita a una serie di cosiddetti spazi indipendenti che nel loro DNA portano le informazioni genetiche della banda.

Se, infatti, proviamo a guardare da vicino queste esperienze, come è stato fatto nelle pagine di questa rivista e negli studio visit del programma Panorama, ci accorgiamo che questi spazi rispondono proprio a un desiderio di stare insieme che parte dal bisogno di fuggire la solitudine e stringere alleanze con i propri simili per riuscire a difendersi e ottenere un risultato: che, nello specifico, è quello di catturare l’attenzione del sistema dell’arte, e, contemporaneamente, tenere in piedi uno spazio di lavoro sostenibile all’interno di città sempre più attraversate da processi di turisticizzazione selvaggia e desolante gentrificazione.

Spesso non c’è, tranne rarissime eccezioni che rimangono fedeli allo spirito dell’avanguardia, la condivisione di un manifesto artistico-politico, di un progetto da realizzare che non sia quello di rendere possibile la propria esistenza preservando anche la propria individualità poetica e culturale, all’interno di alleanze che rimangono tali fin quando rispondono a questo bisogno. E, spesso, il lavoro artistico di questi compagni di avventure, di quelli che potremmo chiamare ‘singolarità alleate’, risulta molto eterogeneo all’interno della stessa banda, dove manca anche la formalizzazione di un’autorità, ovvero di una leadership che generalmente non esiste o è variabile e fluida.

Siamo molto lontani, insomma, dai modelli di Marinetti e Breton, ma anche da quelli di Celant e Bonito Oliva. La banda, insomma, è un modo premoderno di stare insieme che oggi diventa una forma di alleanza postmoderna, qualcosa che non ignora le esperienze precedenti e che, anzi, ne eredita e ne porta, in qualche modo, i segni, quasi si trattasse di una ripresa o ripetizione ‘distorcente’ (secondo l’interpretazione che della Verwindung heideggeriana ha dato Vattimo) di ciò che sono state le comunità dell’arte, nell’unica forma oggi possibile. Fuori da ogni sicurezza, da ogni autorità paterna e senza resistenze da abbattere che non siano quelle delle generazioni più grandi che appartengono a un mondo che non smette di finire, proprio come nel romanzo I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár, qui si gioca alla guerra, senza farla veramente, si costruiscono le proprie regole come alternativa a quelle ufficiali e adulte, si difende il proprio territorio come spazio nel quale costruire la vita, tra tradimenti e gelosie che rischiano di mettere in pericolo le alleanze, e atti di eroismo che le rinsaldano.

Se nelle generazioni precedenti quella della banda poteva essere al massimo una ‘educazione sentimentale’ attraversata durante l’infanzia e la prima adolescenza e poi subito abbandonata per entrare in società o chiudersi in comunità più o meno escludenti e sempre piuttosto pericolose, ora sembra essere diventata un’esperienza sociale ed estetica di lunga durata, e forse l’unica possibile.

Si tratta di un modo di stare insieme che non conosce solo il clima ‘freddo’ della società fatta di individui e novità, né quello ‘caldo’ della comunità fatta di famiglia e tradizione, ma ha piuttosto quel clima tiepido di certe mattine primaverili che annunciano l’estate, salvo tradire subito la promessa per poi rinnovare nuovamente l’attesa.

È un modo di stare insieme precario e a tempo determinato, come precari e a tempo determinato sono il lavoro e gli affetti. Un’alleanza fluida, come fluide sono le identità sessuali. Una comunità fondata sull’amicizia, ovvero su un sentimento che non ha bisogno di contratti e non conosce tribunali.

È il legame sociale postmoderno per eccellenza, forse l’unico legame oggi possibile, anche nell’arte. La banda offre protezione, relazioni e socialità. È un modo di stare insieme limpido e dignitoso e per questo, quasi sempre, a piedi scalzi.

Quando sei in una banda, infine, è più facile pensare che dietro le sbarre e sotto il cielo, c’è sempre il mare fuori che ti aspetta.

Riferimenti bibliografici

A. Boatto, Lo sguardo dal di fuori, Castelvecchi, 2013
A. Bonito Oliva, Le tribù dell’arte, Skira, 2001
AA.VV., Dizionario di antropologia e etnologia, a cura di P. Bonte, M. Izard, Einaudi, 2009
H. Foster, R. Krauss, I.-A. Bois, B.H.D. Buchloh, D. Joselit, Arte dal 1900. Modernismo, antimodernismo, postmodernismo, Zanichelli, 2017
D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, 2017
F. Molnár, I ragazzi della via Pál, Einaudi, 2016
G. Vattimo, Scritti filosofici e politici, La nave di Teseo, 2021