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Sentinella, a che punto è la notte?
Ovvero critica della critica (critica?)

Davide Sgambaro, Eroi #2, 2023, etichetta di birra strappata, 21,5 x 30 cm

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In un articolo uscito a settembre sul domenicale de «Il Sole 24 Ore», Gian Maria Tosatti si interrogava, fra l’altro, sullo stato della critica d’arte in Italia suscitando una serie di reazioni e repliche sulla stessa testata e anche su altri giornali[1]. Un dibattito, evviva! La questione è rilevante e tra l’altro non riguarda solo il mondo dell’arte ma quello della produzione culturale in generale. La critica langue, da tempo, anche in campo letterario e cinematografico, per esempio. Qui proverò ad aggiungere qualche riflessione rispetto a quanto è stato già detto, suggerendo anche una via di fuga, almeno temporanea, dall’impasse nella quale siamo caduti. Prima però, un paio di osservazioni che spero siano utili a inquadrare meglio il nostro oggetto, cioè la crisi, l’assenza o, forse, anche la morte della cosiddetta ‘critica’. Nel lontano 1845 due giovanissimi e brillanti filosofi tedeschi, non ancora trentenni e destinati a cambiare il mondo, tra una pinta di birra e l’altra, scrissero un geniale pamphlet dal titolo altrettanto arguto e sagacemente ironico: Critica della critica critica[2]. Qui Karl Marx, soprattutto, e Friedrich Engels si scagliavano contro Bruno Bauer e famiglia, ovverosia contro la ‘sacra famiglia’ dei giovani hegeliani, sottolineando come la critica non fosse «essenza trascendente», qualcosa che sta e si sviluppa di per sé nel cielo delle idee, così come la filosofia aveva surrettiziamente sostenuto per troppo tempo, ma fosse, al contrario e materialisticamente, il risultato della forza pratica degli esseri umani che si organizzano per vivere. Il motore della Storia, dunque, non è la critica, ma al contrario sono, potremmo dire, le lotte. Questo significa, in generale, che la critica è tanto più viva quanto più la società che la produce è attraversata da tensioni sociali e, quindi, ideologiche di un certo peso. Allo stesso modo la critica sarà tanto più morta quanto più la società sarà pacificata o attraversata da una crisi depressiva radicale.

Non è perciò un caso se, pensando agli anni d’oro della critica d’arte in Italia, inevitabilmente ci rivolgiamo agli anni Sessanta e Settanta, due decenni caldi durante i quali questo Paese ha prodotto, quasi in tutti i settori artistici e culturali, ciò che dell’Italia ancora oggi si conosce e studia anche fuori dai nostri confini. Non si vuole certo riproporre un rapporto ingenuamente lineare tra struttura e sovrastruttura ma, se ci limitiamo a guardare a quello che è accaduto dopo la grande stagione dei movimenti, è indubbio che la crisi della critica italiana sia coincisa con l’inizio dell’agonia di un sistema politico-istituzionale sopravvissuto a sé stesso, con la crisi economica e il progressivo assottigliamento della rilevanza di questo Paese nel contesto geopolitico internazionale. In campo artistico, credo che siano due i testi chiave nei quali vengono segnalati i sintomi iniziali di una malattia e contemporaneamente la cronicizzazione di uno stato di agonia ormai conclamato. Si tratta degli atti di un convegno internazionale sulla critica d’arte intitolato Teoria e pratiche della critica d’arte[3] e tenutosi a Montecatini Terme nel 1978, e di un saggio di Filiberto Menna, pubblicato due anni dopo, sulla Critica della critica[4], quasi un ultimo tentativo di svegliare il paziente dal coma.

Di lì in poi è iniziato un lento ma progressivo processo di ritirata della critica dalla scena culturale italiana che ha coinciso, a livello internazionale, con un salto di qualità del sistema economico mondiale, teso sempre più a integrare la produzione culturale entro la produzione generale di merci. Una merce, tanto più se estetica, non ha bisogno di essere criticata, ma al contrario, per circolare meglio, ha bisogno di essere promossa. Non solo in Italia quindi – benché, forse, nel nostro Paese questa malattia si sia presentata in una delle sue forme virali più acute ‒, la critica si è progressivamente trasformata in promozione, adeguandosi alle esigenze di una industria culturale al passo con i tempi. Da queste premesse possiamo già individuare tre motivi alla base della crisi della critica in Italia: uno endogeno, determinato dalla crisi economico-politica del Paese, uno esogeno, relativo alla trasformazione strutturale dell’industria culturale globale, e uno sia endogeno che esogeno, corrispondente a un diffuso rallentamento della conflittualità sociale, determinato dalla consolidata egemonia culturale liberista a livello internazionale.

In queste condizioni non sarà certo uno sforzo di volontà a far rinascere una funzione critica, così come non si resuscita un cadavere con la respirazione bocca a bocca. Non sarà un impegno individuale a produrre dei nuovi Appunti per una guerriglia[5] e, neanche, una nuova Citazione deviata[6]. È evidente che il problema è ‘politico’, riguardante cioè le condizioni che si devono costruire per avere delle istituzioni preposte alla produzione di questa funzione. E se, dall’Illuminismo (il periodo che vede la nascita della critica d’arte per come la intendiamo) fino alla fine del Ventesimo secolo, la critica è stata legata indissolubilmente alla funzione dell’intellettuale come individuo singolo, le stesse trasformazioni del sistema produttivo a cui accennavamo, dissolvendo la separazione storica tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fanno pensare che ai giorni nostri la critica non possa che essere il prodotto di un lavoro collettivo, soprattutto dopo il tramonto dell’intellettuale moderno e della sua funzione di sentinella[7]. Qui il problema è già, e sarà sempre di più, anche quello di coniugare nuovamente la ricerca, ritirata nei dipartimenti delle università dove si produce un’ottima teoria, e la formazione dell’opinione pubblica attraverso la funzione sociale del sapere. Come possono le intelligenze collettive dei molti gruppi impegnati sui temi della critica contemporanea, riuscire a tradurre la loro produzione culturale in un senso comune diffuso?

A questo punto si pone la questione del linguaggio e della trasformazione del medium attraverso cui noi, in quanto esseri umani, entriamo in relazione con il mondo, lo conosciamo e lo raccontiamo agli altri. Se è vero che, a partire dall’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg e fino alla metà del Ventesimo secolo, abbiamo vissuto dentro una cultura della parola scritta che ha determinato la nostra comprensione del mondo e la sua trasmissione alle generazioni successive, è altrettanto vero che oggi viviamo il tramonto di quell’egemonia e l’affermarsi di una società post-alfabetizzata che comprende il mondo attraverso la multimedialità della rivoluzione digitale. Se si considera esatto quanto sostenuto dagli autori della cosiddetta Scuola di Toronto (Harold Innis, Marshall McLuhan, Walter J. Ong), e cioè che il mezzo determina le forme del nostro pensiero, è possibile iniziare a fare critica (anche artistica) usando i mezzi di comunicazione digitali? E come farlo? È possibile fare critica, e, quindi, produrre un uso critico di TikTok o il mezzo è indissolubilmente legato alle logiche neoliberiste della promozione e dell’autopromozione? In questo caso sarebbe concretamente possibile ‘usare’ dei mezzi digitali alternativi o, evitando un certo determinismo tecnologico eccessivamente radicale, fondare una rivista di critica online senza che questa sia la semplice traduzione in rete di un progetto pensato analogicamente sulla carta?

Se queste sono senza dubbio delle domande a cui inevitabilmente bisognerà rispondere, qualche indicazione su come uscire da questa impasse sembra intanto fornita dal lavoro della filosofia contemporanea che, nel tentativo di superare i propri confini, comincia ormai a parlare non più di critica, ma di postcritica[8]. Questa parola magica può essere intesa nel senso di una fuoriuscita dall’egemonia filosofica della critica, che deve ora contaminarsi proprio per continuare a essere produttiva in un mondo postidealistico come il nostro, con l’antropologia, la fisica e la botanica, o anche come una sua fuoriuscita dal dominio della parola scritta. Per continuare con il ragionamento accennato qui sopra: come fare critica senza le parole e senza cadere nella trappola di una ‘scrittura espositiva’ che troppo spesso diventa solo spettacolo subordinato alle regole del mercato?

Pur nella convinzione che i problemi posti qui sopra siano inaggirabili, e che, quindi, prima o poi sia necessario porsi in tutta la sua radicalità il problema di una fuoriuscita dell’intelligenza dalla scrittura (anche in relazione alle domande sempre più urgenti aperte dall’AI) è vero che raramente i cambiamenti avvengono a partire da repentine apocalissi. Questo ci permette di pensare, con una certa dose di prudente ottimismo, che nei prossimi anni vi sia ancora posto per la parola critica. Ora, pur considerando la relazione biunivoca tra materialità dei conflitti in corso sulle grandi questioni politiche contemporanee – il femminismo, l’Antropocene e l’uso delle tecnologie ‒, e la crescita della tensione anche nel campo delle arti, si potrebbe nel frattempo pensare a come rendere la critica da un lato meno promozionale e, dall’altro – facendo riferimento al modello della critica d’arte che fu – meno cripticamente autoreferenziale e inutilmente incomprensibile per il grande pubblico. Si potrebbe intanto iniziare a riallacciare un qualche legame tra la critica e il pop, tra pubblico e teoria. In questo senso adottare un modello di scrittura ‘anglosassone’ dentro un pensiero ‘continentale’ o mutuare, per così dire, nella critica d’arte un modello ‘Barbero’[9], potrebbe corrispondere a un’efficace strategia per provare a praticare un uso critico dei mezzi di comunicazione di massa, anche di quelli più nuovi. Fatto questo potremmo iniziare a non chiedere più, a nessuna sentinella di turno, a che punto sia la notte. Perché ne saremmo, almeno in parte, già fuori.

Riferimenti bibliografici

A. Bonito Oliva, L’ideologia del traditore, Milano, Electa, 2012
G. Celant, Arte povera. Storia e storie, Milano, Electa, 2011
M. Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Macerata, Quodlibet, 2019
La postcritica è solo un pretesto, a cura di M. Croce e A. Salvatore, Macerata, Quodlibet, 2023
K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia ovvero critica della critica critica: contro Bruno Bauer e soci, a cura di A. Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1979
F. Menna, Critica della critica, Milano, Feltrinelli, 1980
Teoria e pratiche della critica d’arte, a cura di E. Mucci. e P.L. Tazzi, Milano, Feltrinelli, 1979
G.M. Tosatti, Come siamo silenziosi sullo stato dell’arte, in «Il Sole 24 Ore», domenica 3 settembre 2023
E. Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Régis Meyran, Verona, Ombre Corte, 2014


[1] G.M. Tosatti, Come siamo silenziosi sullo stato dell’arte, in «Il Sole 24 Ore», domenica 3 settembre, 2023; Il dibattito si è poi sviluppato con i successivi interventi, sullo stesso giornale, di Michele Dantini(La parola critica e la “comfort zone”) e Christian Caliandro (Gli studi ci sono. I critici camminano insieme agli artisti) il 17 settembre 2023, e di Stefano Chiodi (Dare voce a quanto rimane rimosso) e Luca Bertolo (Grazie agli occhi di altri, vedo ciò che non vedevo) il 22 ottobre 2023.
[2] K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia ovvero critica della critica critica, contro Bruno Bauer e soci, a cura di A. Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1979.
[3] Teoria e pratiche della critica d’arte, a cura di E. Mucci e P. L. Tazzi, Milano, Feltrinelli, 1979.
[4] F. Menna, Critica della critica, Milano, Feltrinelli, 1980.
[5] Si tratta del testo-manifesto di Germano Celant sull’arte povera, Appunti per una guerriglia, in «Flash Art», V, 1967, ora in Id., Arte povera. Storia e storie, Milano, Electa, 2011.
[6] Il riferimento è all’articolo di A. Bonito Oliva, La citazione deviata, in Critica in atto, Atti degli incontri (Roma, 6-30 marzo 1972), a cura di A. Bonito Oliva, II, Roma, 1973, punto d’inizio di una riflessione sul neo-manierismo contemporaneo che poi confluirà in quello che, probabilmente, è il testo più importante di Bonito Oliva, L’ideologia del traditore, Milano, Feltrinelli, 1976, nuova edizione riveduta, Milano, Electa, 2012.
[7] Sulla storia degli intellettuali e la crisi della loro funzione, si veda: E. Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali? Conversazione con Régis Meyran, Verona, Ombre Corte, 2014.
[8] Sulla postcritica si veda il saggio di M. Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Macerata, Quodlibet, 2019, e la raccolta di saggi, La postcritica è solo un pretesto, a cura di M. Croce, A. Salvatore, Macerata, Quodlibet, 2023.
[9] Alessandro Barbero, storico medievista, accademico e allievo di Giovanni Tabacco, ha raggiunto una grande popolarità prima attraverso la sua partecipazione a programmi di divulgazione scientifica come Quark, e poi attraverso una serie di lezioni e interventi diffusi sui social media.