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La critica e il negativo
Alcune note su una crisi

Hito Steyerl, Power Plants, veduta dell’installazione, 11 aprile – 6 maggio 2019, Serpentine Galleries. Applicazione AR Design, Ayham Ghraowi; Sviluppo, Ivaylo Getov, Luxloop; visualizzazione dati 3D, United Futures, courtesy l’artista, Andrew Kreps Gallery (New York) e Esther Schipper Gallery (Berlino), foto ©2019 readsreads.info

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Cosa è accaduto alla critica d’arte? L’interrogativo faceva da titolo a un pamphlet del 2003 di James Elkins – What Happened to Art Criticism?[1], appunto –, che a più di due decenni di distanza non ha perso attualità. Per lo storico dell’arte statunitense la critica ha definitivamente smarrito il suo ruolo di interprete privilegiato delle novità artistiche e appare ridotta alla convalida dei meccanismi del mercato o confinata nelle controversie accademiche. Schiacciata tra il valore soggettivo dei suoi giudizi (l’‘occhio’) e l’impossibilità di elaborare una nuova teoria generale dell’arte (stante la condizione ‘cinica’ della cultura nell’epoca postmoderna) la critica migra così nei territori della teoria estetica, dell’attivismo, della filologia, della curatorship. Attività discontinua e per definizione priva di standard riconosciuti, per Elkins la critica ha perso il valore di testimonianza libera e selettiva della produzione artistica recente nonché quella essenziale funzione di mediazione tra arte e pubblico che sin dal Settecento costituiva la sua raison d’être. Sintomo eloquente di questa condizione è la virtuale scomparsa delle valutazioni negative, delle opinioni controcorrente se non delle stroncature vere e proprie, sia nei giornali a vasta circolazione che nelle riviste specializzate.

Questo quadro è in Italia aggravato dall’annosa, sterile contrapposizione tra storia e critica dell’arte, vale a dire tra una storia ridotta al puro passato, prigioniera del suo artificiale isolamento accademico, e una critica fatalmente ristretta alla mera attualità, dedita alla divulgazione o allo storytelling. Che risposte offrire, dunque, a questa condizione di paralisi, di emarginazione? Elkins esortava i critici a offrire giudizi ambiziosi, basati su una consapevolezza teorica e storica dei propri ragionamenti. In altre parole, a riconquistare autonomia per sottrarsi all’obsolescenza e alla marginalità e contribuire alla scrittura di una nuova narrazione dell’arte. Se la critica vuole tornare a essere momento creativo distinto e insieme coinvolto nell’opera d’arte, deve di necessità ritrovare la propria perduta indipendenza, cessando di farsi vicaria e fiancheggiatrice dei valori correnti.

Come non condividere questo appello? Tanto più che al suo interno risuona ancora un’idea familiare, risalente agli albori della modernità, la celebre definizione di Charles Baudelaire della critica come attività «parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti», contenuta nel suo Salon de 1846. Secondo questa concezione, più e più volte rivista ma mai del tutto ripudiata nel corso di più di un secolo e mezzo di Storia, il valore della critica – artistica, letteraria o altro non fa differenza – è commisurato alla sua capacità di penetrare l’individualità dell’artista con un altro temperamento, quello del critico stesso, chiamato a esercitare uno sguardo spregiudicato, contraddittorio e paradossale nei confronti dei suoi oggetti. Con il corollario che tanto più esclusivo sarà il punto di vista prescelto tanto più esso si dimostrerà di ampia portata.

Per quanto seducente, questa visione elude però il confronto con le cause, remote e immediate, della crisi e dell’agonia della critica d’arte. Ne elenco solo alcune. Anzitutto, e da tempo ormai, il tramonto della sua funzione ‘legislativa’ in quanto agente dell’avanzamento del nuovo. Illusione ingenua si direbbe, nell’assenza di futuro dettata dal presentismo opprimente del consumo e dal correlato declino del senso storico che nelle società cosiddette avanzate emerge innegabilmente in ogni sfera sociale. In quanto mito centrale del modernismo, il nuovo era il motore della metamorfosi politica e culturale cui puntava l’avanguardia; oggi si tratta piuttosto di adeguarsi alla necessità di un ricambio costante, alla rapida obsolescenza di ogni creazione, indispensabile a un mercato alla perpetua ricerca di nuove, esaltanti occasioni per creare ‘valore’.

La critica rimane poi schiacciata anche, come ha dimostrato François Hartog, dal fenomeno opposto e dialetticamente connesso alla dispersione del senso storico: il culto soffocante della memoria e del ‘patrimonio’, di un’eredità vista di volta in volta come deposito intangibile o come inalienabile garanzia identitaria. Qui la funzione discriminante, e non addomesticabile, che dovrebbe caratterizzare l’operazione critica viene disinnescata dalla supposta autoevidenza dei valori in gioco, dalla loro tranquillizzante invarianza. Pseudomitologie consolatorie (il genius loci, l’immarcescibile e insieme inafferrabile ‘italianità’, ad esempio) messe al servizio di uno svuotamento dell’esperienza storica non più concepita come tensione costante e conflittuale tra presente e passato ma ridotta alla riaffermazione di supposte e perfettamente consumabili ‘radici’.

Altro fattore determinante: per quanti, esplicitamente o meno, assumono posizioni riconducibili a una forma di militante decostruzione, spesso nel gergo giornalistico identificata col termine wokeness, l’opera oggi non rappresenta più il fulcro dell’esperienza estetica. L’autonomia della pratica artistica era già stata ridimensionata, se non demolita, dalle istanze antiautoritarie della Institutional critique e dalle esperienze incentrate su un programmatico distacco dall’istituzione-arte – ad esempio le varie forme di participation o socially engaged art. Ci troviamo tuttavia oggi di fronte a un’ulteriore radicalizzazione di queste posizioni, al cui centro stanno le mutevoli declinazioni dell’identitàdi genere, di sessualità, di ‘razza’, ecc. – in quanto fonte di un automatico, e anzi obbligato rispecchiamento nell’opera d’arte, in apparenza senza scarti o zone d’ombra, senza ambivalenze. Osservate in questa prospettiva così asfittica, le opere si riducono a un affastellamento di ‘significati’ ritenuti inequivocabili, non dialettici, marchi di un’identità che si ritiene assegnata in modo irrevocabile.

Non è difficile cogliere alla radice di questa visione l’inasprimento di una posizione decostruttiva postmodernista che in origine puntava a smascherare l’irriducibile, strutturale complicità coi sistemi di potere di ogni narrazione storica o istituzionale. Spinta talvolta a estremi ‘neozdanoviani’, la retorica dell’identità assume oggi le forme semplicistiche e liquidatorie della denuncia moralista nei confronti di una modernità artistica considerata complice del potere coloniale, oppressivo, ‘bianco’ ecc., denuncia peraltro incapace di formulare alternative alle fin troppo reali contraddizioni della forma di vita tardocapitalista, alla sua crudeltà, voracità e capacità distruttiva. In questa prospettiva la critica, compromessa perché ritenuta portatrice di tare incancellabili, in primis il suo ‘privilegio’ occidentale, è ammissibile solo se diventa pedagogia politica.

Da ultimo: l’esaltazione strumentale della figura e dell’autonarrazione dell’artista, delle sue intenzioni – uniche garanzie di un’opera che ha perso ogni connotato tradizionale e può davvero essere ‘qualunque cosa’ (o, al limite, nulla). Questa visione è perfettamente omogenea alle necessità di indicare appunto nell’individualità, nel ‘nome’, il garante ultimo del valore di operazioni creative ormai scollegate da qualsiasi prospettiva collettiva. In continuità con una visione emersa già negli anni intorno al 1968, lo strumento essenziale della critica, il testo, è visto in questa prospettiva come intrinsecamente autoritario: detto altrimenti, l’interpretazione insidia il potere autoreferenziale dell’artista. La ‘cura’ e la scrittura espositiva, possono dunque prendere il posto della critica, negando a quest’ultima il suo residuo prestigio intellettuale.

Questa è solo una diagnosi limitata dello stato della critica (e dell’arte) nell’epoca della planetary civil war, come la chiama l’artista Hito Steyerl in un libro di qualche anno fa[2]. Stabilita l’impraticabilità di ogni soluzione che non sia pienamente consapevole, come Steyerl sostiene a ragione, dell’inevitabile rapporto di fiancheggiamento tra l’arte contemporanea e i sistemi di potere (in primis quello economico), una possibile via d’uscita dalla paralisi potrebbe corrispondere alla rivalutazione del lato meno ‘socievole’, e per questo più vitale e dirompente, della critica. Stante la sua irrilevanza sociale, resta, infatti, integra la sua capacità di dare voce a quanto nell’opera – che continuo a ritenere, in quanto atto creativo originario, l’autentico apporto dell’arte al mondo – rimane silente, non percepito o rimosso.

Occorre per questo continuare a porre la questione della portata simbolica dell’opera oltreil ‘mondo della vita’ che l’ha generata, vale a dire la sua capacità di simboleggiare realtà ignote ai suoi stessi creatori. Rosalind Krauss, una delle voci più influenti della critica d’arte del tardo Novecento, poneva alla base del suo metodo il ‘fraintendimento’ o misreading, una «perversa ma molto accorta comprensione profonda»[3], che libera dall’interno dell’opera un potenziale rimasto nascosto. Questo è il ‘negativo’ che la critica è chiamata ad afferrare: l’indispensabile, fertile dialettica tra l’ambizione dell’opera d’arte di incarnare il proprio presente e la sua capacità di rendere visibili più identità, più tempi e più mondi. Detto altrimenti, di aprire il presente all’inattualità, ritrovando al suo interno quanto sfugge allo spettacolo, e di rianimare il passato rintracciando in esso il germe di un futuro. Si riconoscerebbe così alle immagini dell’arte, contro la loro diluizione nella generica produzione visiva e riduzione a mere manifestazioni di identità monolitiche, una più consapevole autonomia e una specifica intelligenza e densità, capace di dialogare attraverso il tempo per costruire una nuova, imprevista contemporaneità.


[1] J. Elkins, What Happened to Art Criticism?, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2003. Cfr. anche, per una discussione a più voci, il volume collettivo: The State of Art Criticism, a cura di J. Elkins e M. Newman, New York-London, Routledge, 2008.
[2] H. Steyerl, Duty free art. L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria, Monza, Johan&Levi, 2018.
[3] R. Krauss, La crisi della pittura da cavalletto, in Reinventare il medium, a cura di Elio Grazioli, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 12.