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Il vuoto alle pareti
La scomparsa dell’arte dalle vite del ceto medio

Aligi Sassu, Danza, 1981-1990, grafica, 50 x 70 cm, courtesy Raffaello Centro d’arte

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Renato Guttuso nel suo tempo lo conoscevano (e riconoscevano) anche gli operai; oggi chi, tra il pubblico totalmente estraneo alla fruizione attiva dell’arte del nostro tempo, conosce Francesco Vezzoli o ha dimestichezza con l’immaginario di un qualsiasi altro artista italiano di successo? Che fine hanno fatto le opere grafiche di Bruno Cassinari, Salvatore Fiume e Aligi Sassu che molti italiani appendevano con orgoglio sulle pareti dei propri appartamenti non obbligatoriamente borghesi? I multipli che oggi Treccani Arte propone con grande impegno attraverso una studiata e propositiva progettualità, facendo collaborare gli artisti contemporanei con gli studi calcografici e le antiche tecniche di stampa, vanno ancora nei tinelli dell’italiano medio desideroso di ‘arredare’ la propria casa con l’arte? Perché nella ricca provincia italiana la cosiddetta classe dirigente spende diecimila euro per un tavolo di design ‘fighetto’ e riempie pareti e altri spazi della casa con croste che avrebbero senso soltanto se appese in qualche trattoria vista mare? Perché in questo Paese c’è una frattura (insanabile?) tra l’arte contemporanea e la realtà di chi potrebbe permettersi di vivere insieme a essa, a prescindere dalle sue quotazioni reali o presunte? Mi vengono in mente queste e altre domande ogni volta che ho la possibilità di sbirciare nelle abitazioni non necessariamente della classe operaia (esiste ancora?), ma anche negli interni un po’ borghesi dei quarantenni e cinquantenni di oggi, privi di qualsivoglia interesse nella costituzione di un rapporto con l’opera d’arte, sia essa un multiplo o un esemplare unico. Perché tutti vogliono ancora la lampada Arco di Castiglioni mentre in pochissimi bramano il possesso di un’opera d’arte? Ma avete mai visto cos’ha la stragrande maggioranza degli avvocati, dei notai, dei commercialisti e dei medici sulle pareti dei loro studi professionali? Spesso, il nulla cosmico: riproduzioni di robaccia comperata non so dove, o composizioni pseudomateriche rintracciate nell’atelier di qualche pittore del weekend. Mentre scrivo questa prima parte di testo, c’è un amico a pochi centimetri da me, qui in aereo. È un rampante amministratore di una importante azienda, che al momento della nostra conoscenza aveva in casa un’opera di un pessimo pittore pseudoespressionista calabrese, nonostante – sempre il mio amico – sia sempre stato un curioso viaggiatore e consumatore culturale, seppur soprattutto di musica, editoria e food. Forse perché ha la possibilità di affinare i suoi gusti su quei fronti, forse anche perché non gli viene offerta fino in fondo l’opportunità di dialogare in maniera diretta con l’arte di oggi. O forse no, non so dare soluzioni su questo.  

Ma torniamo alle case borghesi. I genitori degli attuali quarantenni e cinquantenni, altrettanto borghesi, possedevano quasi sempre un Paesaggio anemico di Mario Schifano o, nella peggiore delle ipotesi, una Pastorale di Remo Brindisi, un tardo dipinto di Ernesto Treccani (che a dire il vero, prima di una parabola commerciale, è stato un bravissimo pittore di storia e di vite) o un nudo di Fiume. Qualcuno sfoggiava con orgoglio, fino agli anni Novanta, persino i dipinti di Fantuzzi, che i più lungimiranti oggi rivendono per poche lire nei mercatini dell’usato. Mi chiedo anche che fine abbiano fatto i multipli dello stesso Guttuso che costellavano i salotti di molti. Ricordo che il padre di un mio amico d’infanzia aveva la casa invasa da piccole sue incisioni recuperate da ragazzo alle feste dell’Unità del Partito Comunista Italiano, dove Guttuso chiaramente era considerato, vista la sua imperitura militanza politica, un paladino dei diritti civili e un compagno potente e fedele. Ma a prescindere dal suo impegno attivo nel partito, Guttuso era popolare – tanto che alla morte nel 1987, come ha ricordato alcuni anni fa su «l’Espresso» Alessandra Mammì, venne trattato da divo con funerali in pompa magna a Roma e nella sua Palermo – forse anche per la sua storia intensa e tormentata con la contessa Marta Marzotto, che tanto ha incuriosito e scandalizzato l’Italia benpensante di allora. Soprattutto, era una figura autorevole: finiva in televisione, intervistato da nomi come Indro Montanelli, e scriveva editoriali sui giornali dell’epoca con una certa verve.

Oggi la gente comune cosa sa di Cattelan? Certamente si chiacchiera e si storce il naso – complici i social che chiaramente hanno amplificato da un lato la diffusione delle notizie, dall’altro la superficialità nella loro ricezione – leggendo della banana appicciata alla parete di una fiera, poi strappata dal muro da un burlone caciarone nel 2019 nel corso di Art Basel Miami. Ma, oltre a ciò, si può dire che il cittadino mediamente disinteressato all’arte afferri il suo pensiero e riesca a interfacciarsi (e dove?) con il suo lavoro? Come lo interpreta? Ma, soprattutto, se è vero che conosce il dito medio in piazza Affari, allo stesso modo si può affermare che conosca il nome dell’autore di quella enorme boutade marmorea? Oggi, come mi suggeriscono Gian Maria Tosatti e altri artisti, c’è un’attenzione molto forte a ciò che è popolare, a un immaginario prelevato finanche dal folclore e dalla cultura immateriale. Eppure, quanti, fuori dal mondo dell’arte, conoscono il lavoro di uno dei più bravi artisti italiani della nostra epoca, Flavio Favelli, che a ciò che è popolare ha dedicato molta della sua ricerca, recuperando l’immaginario delle luminarie, delle feste patronali e della devozione? O ancora Marinella Senatore, un altro nome che sta tentando riflessioni su questi temi, che fa costruire ad hoc le medesime strutture, creando enormi scenografie entro le quali fa interagire i suoi performer? Quanto siamo in grado, oggi, di far veicolare la validità (o meno) di certe ricerche, fuori dalle strettissime quattro mura di chi si ostina ancora a chiamare questo nostro mondo sistema dell’arte contemporanea? E, soprattutto, siamo realmente disposti a farlo?

Nei giorni scorsi Vincenzo Trione su «La Lettura» del «Corriere della Sera» ha riacceso il dibattito relativo alla validità della didascalia nel contesto museale, alla sua necessità per veicolare un pensiero, per rendere il visitatore consapevole di cosa stia guardando. Ma forse, oggi, il vero punto è: come riusciamo a fare entrare il grande pubblico nella grande macchina museale, quindi a consentirgli di interfacciarsi con un’opera d’arte e, di conseguenza, con la sua didascalia? Quello del pubblico ‘invisibile’ è un tema su cui ci si scervella da un po’, lo sappiamo. I laboratori didattici, i progetti dal basso e le attenzioni da parte dei dipartimenti di didattica dei musei italiani sono ormai all’ordine del giorno, ma siamo certi che sia ancora tempo di pensare all’operosità tradizionale? Qualche dipartimento, penso in particolare a quello del Castello di Rivoli, si sta impegnando realmente. Ma non basta. Quando è morto Germano Celant, mi pare che quasi nessun telegiornale italiano abbia dato la notizia, eppure è stato l’unico nome a sostenere con sistematico impegno l’arte contemporanea italiana all’estero dagli anni Sessanta agli Ottanta, e a farlo con un’autorevolezza assoluta. Ma perché tutto questo disinteresse, perché questa sciatteria culturale? È colpa delle poche, quasi del tutto assenti, ore di storia dell’arte nelle scuole italiane? Se pensiamo che nella maggior parte delle classi italiane non si studia quasi più, dovremmo allora porci un altro interrogativo. Fagocitati come siamo ancora oggi dal culto del passato, non riusciamo a immaginare di poterci occupare con la medesima curiosità di ciò che è presente, di ciò che nasce e germoglia attorno a noi. Certamente la maggior parte degli italiani estranei al mondo dell’arte che conosceva il nome di Mario Schifano negli anni Sessanta e Settanta, lo associava più alle sue gesta chimiche o alle trasferte in carcere piuttosto che al senso profondo dei suoi monocromi o dei suoi paesaggi anemici. In ogni caso, però, c’era più consapevolezza, c’era un’effervescenza che consentiva probabilmente una maggiore divulgazione nell’ordinaria vita di ciascuno. Eppure, non c’erano i musei d’arte contemporanea (che in Italia sono nati con grande ritardo rispetto ad altri contesti, come sappiamo Rivoli è nato nel dicembre 1984 e il MAXXI addirittura nel 2003) e, soprattutto, non c’era internet. E non servono i claim («Tutta l’arte è stata contemporanea») per convincere chi storce il naso davanti all’installazione di un giovane artista, e neanche i consolatori numeri (enormi) di molte mostre mainstream sparse nel Belpaese per tranquillizzarci su questi temi, quanto più un impegno collettivo che non può che partire dal mondo dell’arte stesso. Quanto costa entrare al MAXXI se non hai una riduzione o se non sei un giornalista accreditato? Quanto costano i libri e i cataloghi che sforniamo alla velocità della luce, ogni giorno? Perché uno studente di un’accademia di belle arti dovrebbe pagare un biglietto (caro per le sue tasche) per visitare fondazioni e musei della città in cui studia, mentre già paga affitti carissimi e fa fatica a vivere dignitosamente? Allora, a pensarci bene, i problemi che dovremmo porci sono quelli di natura primaria, che hanno la precedenza rispetto a quelli culturali o concettuali, perché è chiaro che oggi molte riviste non di settore e alcuni quotidiani non prestano un’attenzione all’arte tale da andare oltre la promozione di alcuni eventi, ma i nodi urgenti da sciogliere sono ben altri. Oggi, che non c’è più Telemarket a educare e a diseducare all’arte, cosa ne sarà della formazione domestica?