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Se il domani è fragile
Una mostra sul futuro alle Terme di Diocleziano

Daniele Di Girolamo, Inerte, 2015, video, 1’17”, loop, courtesy l’artista

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Immaginare il domani è ciò che da sempre si chiede alle ultime generazioni: laddove la stanchezza di una vita in parte già vissuta porta a un ripiegamento individuale delle aspettative, la visione di ciò che il futuro riserva alla collettività sembra necessariamente appannaggio di uno sguardo fresco, più fiducioso, magari trasognato, idealmente profetico. Cosa ci riserva il futuro è la domanda di fondo che risuona nella mostra collettiva Dopodomani, organizzata dalla Quadriennale di Roma negli spazi delle Terme di Diocleziano in occasione della prima edizione del suo festival Quorum. Quali siano le risposte è difficile da prevedere, tuttavia è possibile fare alcune considerazioni relative alla selezione delle opere e degli artisti invitati in questa occasione per evidenziare alcune possibili linee di ricerca che provano ad anticipare gli umori del tempo a venire.

Innanzitutto, la sede espositiva, le Terme di Diocleziano, solleva inevitabilmente un confronto con la presenza del passato e con l’archeologia: seppur in condizione frammentata, tali strutture sono ancora capaci di trasmettere magnificenza e monumentalità come forma di celebrazione del presente in cui sono state concepite e realizzate, ma soprattutto come proiezione in quel futuro che è oggi il tempo in cui viviamo. Abbracciando il concetto di unmonumental, già indagato nella celebre mostra inaugurale del New Museum of Contemporary Art a New York nel 2007[1], la produzione artistica contemporanea non sembra abbracciare uno slancio incondizionato verso il futuro ma piuttosto puntare il dito sulla precarietà del presente. E se il presente è precario, come riuscire a mettere a fuoco quel che viene dopo?   

In un articolo pubblicato sulle pagine di questa rivista, poi diventato un saggio e una mostra[2], ho avuto modo di soffermarmi su come uno dei possibili sguardi al futuro preveda la creazione di reperti, una ‘archeologia del futuro’ che ricorre all’estetica del ritrovamento per anticipare la vita e la società che verrà. Anche quando tale orientamento non assume una forma così immediatamente riconoscibile, sopravvivono alcuni concetti cardine che si tramutano in forme instabili, effimere, incompiute. È come se l’incertezza propugnata da Zygmunt Bauman, la precarietà evidenziata da Judith Butler, la flessibilità individuata da Richard Sennett e la fragilità tracciata da Leonardo Caffo[3] si dessero appuntamento in un risultato estetico che fa propri tutti questi aspetti. Un’idea di caducità priva di eroico ottimismo alla quale, tuttavia, si cerca di infondere un afflato di resistenza.

Proprio all’archeologia – ma anche alla modernità liquida di Bauman – fa esplicito riferimento Stefano Canto (Roma, 1974) in Archeologia dell’effimero: ghiaccio e cemento si confrontano qui in una lotta impari per la sopravvivenza, ma che alla fine ha effetti irreversibili su entrambi gli elementi in gioco. La polvere di cemento, materiale da costruzione per eccellenza, si rivela malleabile, pronta ad assumere forme inaspettate mentre il blocco di ghiaccio va incontro alla sparizione.

La tensione tra dissolvenza e permanenza sembra essere uno dei punti cardine anche per i Younger Than Jesus – riprendendo il titolo di un’altra mostra del New Museum che si prefiggeva di offrire una panoramica sulla generazione dei millennials[4]. Prendiamo ad esempio le radici e i semi galvanizzati dell’opera Dove ogni cosa resta (radici) di Lucia Cristiani (Milano, 1991), silhouettes pendenti che si legano a una storia ben precisa – la resistenza della natura in un territorio martoriato dalla guerra, la Bosnia – ma che diventano il racconto visivo di uno spazio di sospensione, come quello che intercorre tra l’oggi e il domani. Facendosi metafora di quella che è a tutti gli effetti una dimensione esistenziale, l’opera affida al processo di galvanizzazione il compito di preservare i semi di tiglio raccolti dall’artista a Sarajevo e farne memoria per il futuro, un piccolo monumento alla stabilità in uno scenario precario.

Interpretando l’idea di reperto come un ipotetico ritrovamento fossile, Lucas Memmola (Bari, 1994) nella serie Dafne (2019-2023) innesta coralli di rame su un ramo di legno, suggerendo la nascita di una nuova vita su un corpo morto. L’opera subisce un’ulteriore mutazione nella sua forma espositiva, agganciandosi a una struttura meccanica che richiama i fissaggi utilizzati nella chirurgia ortopedica e accomunando così la scultura lignea a un corpo osseo.

Metamorfosi, trasformazione e contaminazione appaiono dunque come processi che ricorrono nell’immaginare un futuro in cui l’umano è compromesso e nuovi scenari di commistione tra specie, così come tra naturale e tecnologico, si prospettano: è la mutazione da Homo Sapiens a postumano, dove quest’ultimo è inteso come opera aperta e in divenire[5]. Tuttavia può essere interessante notare che tale prospettiva, almeno nel contesto italiano, sembra essere declinata primariamente attraverso il linguaggio della scultura piuttosto che ricorrendo alle possibilità offerte dal digitale e dalle nuove tecnologie, salvo poche eccezioni. L’aggettivo ‘futuristico’ non sembra associarsi troppo all’idea di ‘futuro’, almeno da quanto emerge in questa raccolta: difficile dire se per una sorta di sfiducia nei nuovi media o se per una scarsa conoscenza e formazione specifica sul loro utilizzo.

A ogni modo il rapporto con questo futuro resta nella maggior parte dei casi ancorato a un’esperienza analogica, che implica una relazione con la materia e con il reale. L’acqua diventa elemento centrale in tal senso, perché in grado di suggerire quella fluidità che costituisce uno degli elementi chiave della produzione e della riflessione teorica proprie delle ultime generazioni. Guardando nuovamente alla mostra Dopodomani, spicca in tal senso l’opera di Giuseppe Di Liberto (Palermo, 1996), per il quale l’elemento acquatico rappresenta un simbolo di vitalità a dispetto della morte: il calco delle pietre tombali del cimitero di Venezia (la cui forma rivive nella morbidezza delle spugne per fiori recisi) si anima attraverso l’acqua proveniente dal calco dei denti dell’artista. Il monumento per eccellenza, cui è affidato il memento mori, trova proprio in quest’ultima una connessione con il calco, sempre fresco e per questo suscettibile di mutazioni, di una parte del corpo dell’artista. Temporalità diverse che insistono ancora una volta sulla caducità del corpo umano: il futuro è lì, ma potremo vederne solo una parte prima che l’acqua cessi di attraversarci.  

La fluidità, intesa in questo caso come sovrapposizione tra moti umani e naturali, torna in Inerte (2015) di Daniele Di Girolamo (Pescara, 1995), video che pur essendo tra i primi lavori dell’artista, risulta tuttavia in continuità con le sue ricerche più recenti. L’ambiguità dell’immagine, dove il corpo umano è inteso in un processo di trasformazione perenne, amplificato dalla circolarità del loop, sembra indicare anche in questo caso una direzione antilineare, fatta di ritorni e riavvolgimenti. Se da una parte la foschia illuminata dalle macchie cromatiche cadenzate dal suono sembra voler nascondere, dall’altra essa pare configurarsi come una sorta di bozzolo pronto a rilasciare un nuovo essere vivente.

La difficoltà di mettere a fuoco un’immagine può farsi essa stessa metafora dello sguardo verso il futuro. Nel riflettere sul rapporto tra realtà e sua percezione, Federica Francesconi (Milano, 1994) realizza dipinti costellati da ombre che sembrano funzionare come gli inganni del mito platonico della caverna: sono proiezioni della realtà ma si distaccano da essa, non è dato sapere in quale misura. L’impercettibile, l’incerto, si fa immagine in potenza di un futuro di cui si percepiscono blandamente i contorni, ma non la sostanza. Come incerta è anche l’immagine nel video Struggle for Life di Irene Fenara (Bologna, 1990): prima opera realizzata dall’artista sfruttando la tecnologia delle telecamere di sorveglianza, racconta di un’aspirazione al cielo costantemente tradita dalle impostazioni delle macchine che riconducono lo sguardo verso il basso. La proiezione verso il futuro sembra in questo caso confrontarsi con la pesantezza di un presente che non lascia grandi vie di fuga.

Ed ecco infine la stella del Planetario di Gabriella Siciliano (Napoli, 1990), un altro invito a osservare il cielo ma stavolta con lo sguardo incantato dei bambini, capace di vedere in una superficie luccicante di plastica la bellezza del cosmo, degli infiniti mondi e possibilità. Come in molte opere di Siciliano, la leggerezza della visione viene investita da un senso di malinconia, proiettandoci in una festa che, pur non essendo ancora iniziata, sembra già essersi conclusa.

Viene da chiedersi quindi se l’impulso a prevedere, per raccontarlo, il futuro, non sia in realtà l’ennesima occasione per fare i conti con le nostre fragilità, individuali, esistenziali, condivise e profondamente ancorate al presente. Se la memoria del passato rivive nella potenza delle sue strutture architettoniche pervenute fino a noi, in assenza di una spinta propriamente ‘costruttiva’, conviene forse appoggiarsi a esse per trovare il giusto slancio e immaginare il domani.


[1] Unmonumental è in realtà una mostra divisa in tre atti, a cura di Richard Flood, Laura Hoptman e Massimiliano Gioni, e dedicata al concetto di unmonumentality nell’ambito della scultura, delle opere bidimensionali e del suono: Unmonumental. The Object in the 21st Century (1 dicembre 2007 – 30 marzo 2008); Collage: The Unmonumental Picture (16 gennaio – 30 marzo 2008) e The Sound of Things: Unmonumental Audio (13 febbraio – 30 marzo 2008).  

[2] A. Troncone, Archeologia di una storia non scritta. L’opera d’arte come reperto del futuro, in «Quaderni d’arte italiana»,III, 2022, pp. 62-69; Ead., Costruire la memoria disfacendo la materia. Appunti per un’archeologia del futuro, saggio per la mostra del ciclo Paesaggio de La Quadriennale di Roma, Palazzo Braschi, Roma, 19 novembre 2022 – 15 gennaio 2023, con opere di Alessandro Biggio e Antonio Fiorentino.

[3] Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, 1999; J. Butler, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, Postmedia Books, 2013; R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita delle persone, Feltrinelli, 2016; L. Caffo, Fragile umanità. Il postumano contemporaneo, Einaudi, 2017.

[4] The Generational. Younger Than Jesus, a cura di L. Cornell, M. Gioni, L. Hoptman, New Museum of Contemporary Art, New York, 8 aprile – 14 giugno 2009.

[5] L. Caffo, Fragile umanità. Il postumano contemporaneo, Einaudi, 2017, pp. 55-61.