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Davanti allo specchio
Il domani già raccontato nelle serie televisive

Jonathan Nolan e Lisa Joy, Westworld, 2016/2022

Questo articolo è disponibile anche in: English

«Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum» – questo è San Paolo nella prima lettera ai Corinzi (I Cor. 13:12), e questo è il passo che ha tormentato con febbri della ragione pensatori e teologi, scrittori e poeti. Perché non è la sua traduzione letterale che impegna l’ingegno («Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto»), quanto l’intrinseca vertigine simbolica a tenere in scacco il pensiero (l’anima?). Chi più di tutti ha vergato e rifinito su questo passo è Jorge Luis Borges, ma come in ogni suo fervore cieco si tratta sempre e comunque di un palinsesto, una glossa, in questo caso del ferroviere-asceta Léon Bloy.

Bloy ha seminato lungo tutta la sua opera continue ed estenuanti esegesi del passo di San Paolo, tra il perentorio dubbio che il servo che lustra gli stivali dello Zar sia il responsabile del destino di tutti i russi o l’estatico vaticinio che Napoleone sia solo il precursore di un altro eroe che attende nel prossimo avvenire. Tutto è simbolo in Bloy, tutto è bidimensionale geroglifico che si tramuta in tridimensionale immagine, un’immagine doppia, tripla, attesa, respinta, promessa, negata, ribaltata, trasfigurata.

San Paolo, Borges, Bloy – e quindi De Quincey e i cabalisti – parlavano di uno specchio capace di restituire una visione che non è solo puro riflesso ma anche qualcos’altro. Come in una fredda mattina dell’ottobre 1860, quando il fotografo James Wallace Black si librò in aria sopra Boston con una mongolfiera e scattò le prime foto aeree della città: non appena i suoi concittadini videro le navi del porto e i vicoli bui, la collina sopra le case e i tetti a spiovente, tutte queste cose ‘assieme’ per la prima volta, non furono più gli stessi. Il loro sguardo sul mondo, e quindi il loro essere al mondo, cambiò per sempre; quel mondo che chiamavano l’‘Hub of the Universe’ o ‘The Athens of America’ altro non era che legno, sudore, catrame e miasmi.

Qualche tempo dopo, fu un altro bostoniano a far apparire non più sopra le loro teste ma dietro, no, ‘dentro’ di loro, una nuova visione: William Mumler, fotografo dilettante, che acquisì notorietà proprio in quegli anni come ‘ritrattista spirituale’, dal momento che nel suo studio di Washington Street era possibile, alla non modica cifra di dieci dollari, farsi scattare una fotografia con i propri cari defunti, apparsi per l’occasione. Il successo di Mumler fu tale da attrarre il cruccio del collega Black, come anche del circense P.T. Barnum, entrambi impegnati nello smascheramento del trucco chimico-ottico con cui il dilettante sì raggirava, ma allo stesso tempo mitigava, il dolore altrui.

Era infatti ancora pulsante l’abbacinante ferita della guerra civile americana, con il suo grembo carico di quasi 620.000 morti, e non c’era madre, famiglia, villaggio che non piangesse una perdita.

Così nacque lo spiritualismo, così furono commercializzate le nuovissime tavole ouija e così iniziarono a formarsi le file fuori dallo studio di Mumler per un ritratto in compagnia di una persona defunta, che non c’era e che di certo non ci sarebbe più stata; come fece Mary Todd Lincoln, vedova dell’Abraham assassinato cinque anni prima al Ford’s Theatre di Washington.

Le visioni di Bloy e Mumler sono disancorate rispetto allo sguardo che le nutre, prive per natura di letture univoche sugli assi cartesiani e razionali del tempo e dello spazio: il Napoleone dello scrittore francese è il Ben Yosef che nel Talmud precorre l’arrivo del vero Messia degli ultimi giorni, Ben David, i ritratti del fotografo americano, invece, annullano presente e passato grazie alla supremazia dei processi industriali e al dolore dei sopravvissuti. Sono specchio e immagine assieme, come lo sarà qualche anno dopo il cinema, perfezionamento tecnico e simbolico di tutto ciò, perché la leggenda metropolitana e novecentesca degli spettatori che fuggono dalla sala durante la visione de L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat nel 1896, non riguarda tanto la paura che sullo schermo ci sia qualcosa di ‘reale’ ma piuttosto qualcosa di ‘possibile’.

Il cinema, per dirla alla Paul Virilio, è il cenotafio della modernità, dove si va per ammirare qualcosa che non c’è e forse non c’è mai stata; o, per menzionare Mark Fisher, il perturbante che ti fa sedere al buio in compagnia, anche se in realtà sai di essere solo. L’immagine in movimento è scienza di fantasmi, e quando quest’ultima incontra la più avanzata produzione di massa (quella digitale e globalizzata dei costrutti culturali forgiati dentro i media conglomerate e gli streaming service sovranazionali) allora ciò che ne risulta è la più grande e precisa visione del versetto di San Paolo: «allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto».

Tutto ciò avviene nelle serie tv.

È ormai da un decennio che la produzione televisiva occupa il centro della sfera audiovisiva mondiale, un ‘piccolo schermo’ che ha ormai ampliato e scalato quello che era il suo orizzonte di riferimento e confinamento, se pensiamo per quanto a lungo è stata definita una sorta di immagine minore rispetto al cinema. Ma proprio a partire dai suoi specifici artistici, in primis la possibilità di una narrazione serializzata che sia orizzontale e verticale assieme, nonché il rinnovamento delle potenzialità tecniche (la tecnologia StageCraft per Disney+, ad esempio), l’accrescimento del parco attoriale (le star hollywoodiane A-list da almeno House of Cards e True Detective in poi) e l’integrazione di nuove autorialità (gli spagnoli La casa di carta e i coreani Squid Game tra i tanti), il vecchio tubo catodico è ora in grado di costruire attraverso i suoi ‘specchi’ degli immaginari sempre più discorsivi, penetranti, fecondi. Sempre più proiettati verso le tensioni dirimenti della nostra contemporaneità, per costruire prima di tutto dei resoconti, non reali ma possibili, di quello che ci aspetta come individui e collettività. Lo hanno fatto, ad esempio, le serie-cartello Black Mirror e The Last of Us, da una parte riallacciando le loro forme a titoli e visioni già storicizzate (le antologiche di stampo mistery e sci-fi per la prima, tutto il coacervo di postapocalittico e zombie outbreak per la seconda), dall’altra innervandole con i rischi e le paranoie striscianti che la società globale sta affrontando (l’uso disinvolto delle nuove tecnologie, la possibilità di una nuova epidemia).

Il passo successivo è capire come questi immaginari contaminati dalle tensioni contemporanee riescano a trovare una loro autosufficienza, e due momenti speculari tra loro come Westworld o le serie Marvel possono dimostrarcelo: le quattro stagioni del titolo HBO a firma Jonathan Nolan e Lisa Joy sono, letteralmente, un world building in divenire, episodio dopo episodio, dove gli spettatori possono esplorare il mondo finzionale del parco di androidi (costruito come un aggiornamento neppure così futuristico delle attrazioni Disney, Lucasfilm e Marvel stessa) e simultaneamente vedere come gli NPC (non-player characters), abitanti del parco, costruiscono in maniera autocosciente la propria realtà pur essendo automi. Il loro mondo è fatto di plastica, ma le dinamiche e le relazioni che instaurano sono comunque reali, possibili, quindi cosa importa?

Le serie Marvel sono anch’esse delle ‘riserve ludiche’ da esperire personaggio dopo personaggio, ambiente dopo ambiente, ma riescono a raggiungere il massimo dell’immersione soprattutto quando riportano l’eccezionalità ‘supereroistica’ e fantascientifica a livello della realtà metropolitana contemporanea, come in Ms. Marvel, ennesimo racconto di successo americano narrato attraverso gli occhi di una giovane eroina pachistana nata e cresciuta nel New Jersey (anche in un universo popolato da razze aliene interstellari e dèi della mitologia norrena, l’unico luogo dove potersi realizzare appieno ed emergere è rappresentato sempre e comunque dagli USA).

Anche quando si è trattato di costruire un futuro sì alternativo ma diretto, la moderna ‘serialità’ non si è tirata indietro. Lo ha fatto fronteggiando direttamente l’angoscia globale del collasso della civiltà umana, che se in alcuni titoli è sempre imputata al classico device narrativo del conflitto nucleare, dell’epidemia o dell’invasione aliena (The 100, L’esercito delle 12 scimmie, Station Eleven, Defiance, War of the Worlds ecc.,), in altri affonda la penna nello scenario escatologico del riscaldamento globale, più prossimo alla società presente e futura. Mentre già si elencano le variazioni sul tema (l’era glaciale di Snowpiercer, la terraformazione di Raised by Wolves), è opportuno notare come anche in narrazioni eterogenee per soggetto e forma, delle spinte sotterranee premano per emergere: cos’è la cavalcata cosmico-western di The Mandalorian se non un ritorno alle proprie tradizioni, alla propria gente e quindi a una casa ancestrale che non c’è più? I pianeti della serie Disney+ sono popolati da mostri leggendari e animali chimerici, tutti rintanati nel fondo di grotte, mari, deserti, spinti sempre più lontano dai loro ecosistemi primigeni a causa della presenza invasiva e predatoria non delle razze aliene intelligenti, bensì di quelle dedite a una sorta di capitalismo interstellare ancora più famelico e titanico.

Qualunque sia lo specchio e l’immagine forniti dalla serialità dei nostri giorni, è evidente la volontà di costruire un immaginario futuristico che sia il più accessibile globalmente e il più inclusivo discorsivamente, nel quale, da una parte all’altra di questa forma mediale, si possano ritrovare non solo tutti i nodi irrisolti della contemporaneità, ma anche ogni ‘reale’ e ‘possibile’ sviluppo di questi ultimi: dalle riflessioni sulla Storia intesa come unica guida per navigare il prossimo avvenire (Watchmen, Fondazione, L’uomo nell’alto castello), alla cooperazione dell’intera umanità come fondamentale passaggio per la sopravvivenza (Away, For All Mankind, The Expanse) e alle derive incontrollabili percorribili dalla futura singolarità tecnologica (Scissione, Upload, Devs).

Ora vediamo attraverso lo specchio.