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Ciò che rimane
Una conversazione sulla morte

Lars Von Trier, Melancholia, 2011, still dal film

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«Solo una terapia, solo una terapia
Solo una terapia, solo una terapia
Verranno al contrattacco con elmi ed armi nuove
Verranno al contrattacco ma intanto adesso
Curami, curami, curami
Curami, curami, curami»

Curami_CCCP

Questa che segue è una conversazione fatta tra Milano e Venezia. Nessuna verità assoluta da dispensare. Solo uno scambio di opinioni tra due artisti e amici che, seppur in maniera differente, affrontano tematiche vicine nelle loro ricerche.

Giuseppe Di Liberto: Inizierei questo nostro scambio ricordando una puntata di Radio 3 Scienza andata in onda nella primavera del 2020, durante la prima ondata di pandemia, in cui Carlo Rovelli, fisico quantistico, presenta L’ordine del tempo, un saggio che tenta di spiegare cosa è il tempo. Rovelli si sofferma sull’ultimo capitolo, La sorella del sonno, approfondendo il tema che sarà il filo conduttore della nostra discussione, ovvero quello della morte, metafora della fine e ostacolo cronologico del tempo umano. Egli cita Il terzo libro della grande epica indiana: «Ogni giorno muoiono innumerevoli persone, eppure quelli che rimangono vivono come se fossero immortali» e poi continua «io non vorrei vivere come se fossi immortale, la morte non mi fa paura, ho paura della sofferenza, della vecchiaia. […] penso alla morte come un meritato riposo, sorella del sonno, la chiama Bach nella meravigliosa cantata BWV 56, una sorella gentile che verrà presto a chiudere i miei occhi e accarezzarmi la testa». Tutto ciò, a mio avviso, è un ottimo punto d’inizio rispetto ai temi che tratteremo. E chi meglio di Rovelli poteva introdurre l’argomento?!

Lorenzo Montinaro: Trovo molto puntuale la citazione di Rovelli. Penso che almeno una volta nella vita a tutti gli esseri umani sia passata per la mente, anche solo per un secondo, l’idea di essere immortali. Jankélévitch parlava di ‘sofisma della speranza’: arrivare ad autoconvincersi di essere quella rara eccezione, quello strappo alle leggi della vita che non sono altro che le leggi della morte. Il problema più grande di questo macrotema è l’atteggiamento del singolo individuo verso sé stesso. Per l’essere umano la fine della propria esistenza coincide con la fine di tutto, della Storia, dell’universo. Tendiamo a pensare alla morte come qualcosa di lontano, distante anni luce e ne procrastiniamo ogni pensiero tutte le volte che si fa vivo. Penso a una scena di Holy Motors di Leos Carax, in cui il protagonista recita: «Niente ci rende così vivi come vedere gli altri morire».

GDL: Rispetto a questo credo che la reale paura della morte sia il terrore della scomparsa della propria immagine dalla Storia, dell’annullamento della nostra effigie temporanea, un confine immateriale che, in vita, pesa come un macigno.
L’immagine del morto diventa medium[1], quindi testimonianza della storia vissuta, non a caso la fotografia è stata inventata per ‘intrappolare’ l’imago su una traccia cartacea che potesse testimoniare la reale esistenza di quella persona per le generazioni future.
Dai monumenti antichi ai ritratti di epoca etrusca e romana, dall’utilizzo del calco scultoreo all’importanza delle cerae pictae[2].

LM: Mi viene in mente la teoria del ‘valore delle rovine’ (Ruinenvert) di Albert Speer. Secondo il suo pensiero tutti i palazzi e gli edifici del regime nazista dovevano essere costruiti utilizzando solo materiali naturali. In questo modo sarebbero risultati, centinaia e migliaia di anni dopo, come delle rovine esteticamente perfette. Speer fu duramente criticato dai collaboratori di Hitler perché, proponendo questo tipo di architettura, in qualche modo presagiva la fine del regime nazista. Il Führer invece ne rimase estasiato: quale miglior modo di resistere al tempo se non attraverso maestosi monumenti che rispecchiassero la ‘grandezza’ del Terzo Reich, al pari delle grandi costruzioni greche e romane? Questa storia, però, ci spinge a fare un passo in avanti. E se la morte non fosse la fine di tutto ma il principio di qualcosa assai più vasto? Lars Von Trier in La casa di Jack parla della muffa ‘nobile’ e della sua natura decadente che, attraverso la decomposizione, nobilita i grappoli d’uva rendendoli pregiatissimi vini da dessert. Alberto Burri, con il suo Grande Cretto a Gibellina, è la chiara testimonianza che il tempo, la distruzione o l’abbattimento sono in grado di monumentalizzare la perdita. Così facendo i luoghi del trauma, del dolore e della morte sono diventati il punto di partenza per una delle opere d’arte più intense mai realizzate, una ferita vivente.

GDL: Qualsiasi cosa che rimane, come dici tu, è stata pensata da chi resta. Penso al progetto del collettivo Lu Cafausu: La festa dei vivi che riflettono sulla morte, una riflessione che spetta ai vivi, ma dagli stessi viene censurata, affrontata come un tabù invalicabile. Ad oggi, a seguito degli sviluppi medici e farmaceutici, la società contemporanea fa fatica a parlare di morte, vuole vivere in eterno. Dalle nuovissime sperimentazioni, come la criogenia[3] ─ fortemente presente nella serie animata Futurama ─ alla riprogrammazione genetica attraverso la terapia genica, un progetto in via di sviluppo, in grado di allungare la vita di alcune cavie.

LM: Ritornando però alla questione del medium fotografico è molto interessante quello che hai detto. Per esempio, le fotoceramiche sulle lapidi sono un chiaro esempio di come l’immagine riesca ad attivare e a incorporare la presenza fisica del defunto. Penso a uno degli episodi che ha influenzato il mio lavoro: passeggiando per il cimitero dei Tamburi di Taranto mi sono imbattuto in un campo di inumazione, probabilmente devastato da un atto vandalico o dalla semplice noncuranza. C’erano frammenti di lapidi ovunque, interi scatoloni di fotoceramiche non più riconducibili alla tomba di appartenenza. Mi sono presto reso conto di trovarmi in un campo di anonimi. Queste persone avevano perso la loro identità semplicemente smarrendo una foto di 12 x 9 cm su un pezzo di marmo. I parenti, che da lì in poi sarebbero andati a portare un fiore al proprio caro, lo avrebbero donato a uno sconosciuto. 

GDL: Siamo entrambi del sud Italia e qui, l’idea di scegliere quale immagine rispecchia meglio il carattere e la persona sta alla base di tutto. Tu hai parlato di fotoceramiche, ma nella storia della rappresentazione medievale il potere delle immagini mediava messaggi in funzione di una buona morte. Ad esempio, attraverso l’Ars moriendi[4], il popolo si preparava spiritualmente e mentalmente alla fine. In un articolo pubblicato da Iconografie del XXI secolo, vi era un focus su come oggi i guerrieri ‘martiri’, in Medio Oriente, vengano rappresentati come vere e proprie icone religiose. Quella estetica, quasi kitsch e barocca, non si distanzia molto da alcune modalità di rappresentazione funeraria a Catania, Palermo o Napoli. Queste diventano così contenuti mediali, dei veri e propri trend, prodotti da alcuni fruitori di Tik Tok. Quello che nella metà del Novecento Ernesto De Martino teorizzò, ovvero gli ancestrali rituali funebri nella Grecia salentina, oggi assumono un carattere ‘social’. Questa nuova modalità del compianto funebre e della condivisione del dolore abbina musica neomelodica e immagini di cortei in memoria dei defunti. Se pochi decenni fa il lutto veniva inteso come sofferenza soggettiva ─ Gorer lo analizza in maniera impeccabile in Pornografia della morte ─ oggi, mediante questi mezzi di comunicazione, alcuni utenti siculo-partenopei attuano un’operazione di ipercondivisione del dolore, una sorta di espiazione collettiva. A mio avviso, tutto ciò è una causa scaturita dall’impossibilità del contatto fisico, (l’ultimo saluto) nata durante il COVID-19.

LM: In tutti questi video a cui fai riferimento, effettivamente, c’è una sorta di spettacolarizzazione della morte e del dolore. Quello che noto, rispetto al comportamento degli spettatori di questo genere di contenuti, è che nessuno si scandalizza mai davvero dei momenti che precedono e seguono la morte, indipendentemente dalla violenza o dalla straordinarietà delle modalità. Le persone non hanno nessuna difficoltà nel guardare un video in cui un uomo viene soffocato da due poliziotti, né tanto meno nel vedere i contenuti di cui tu parlavi, in cui il culto funebre viene estremizzato al punto tale che l’intimità della sofferenza, tipica di questi momenti, sembra dissolversi nel nulla. Quello che continua a disturbare, invece, è la visione di un corpo morto, di un cadavere, quasi come se fosse lì a darci un assaggio di quello che diventeremo. 
Probabilmente, l’unico antidoto a tutto ciò risiede nel soffermarci sulla morte e sul dolore dell’altro. Forse si arriverebbe a comprendere che questa lunga marcia che è la vita, non è un mistero da risolvere o un compito da portare a termine, ma un’esperienza da sperimentare, in cui addentrarsi nel buio, alla ricerca della luce: il nostro ultimo respiro darà l’aria necessaria a un neonato per esalare il suo primo filo di fiato. 
Concludo rifacendomi a ciò che Carmelo Bene sosteneva, ovvero che gli esseri umani nascono già morti. Ma se nasciamo già ‘Morte’, allora è la morte stessa che muore quando lasciamo questo mondo.
E dunque, amico mio, muoia la morte!

GDL: Alla luce di tutte le osservazioni fatte, mi domando: attraverso quali mezzi si propagherà l’immagine che rimarrà nella Storia? Ci interessa davvero tramandare la nostra icona nel futuro, per continuare a sentirci vivi anche da morti? Concluderei questo bel dialogo citando una strofa del trapper romano Ketama126, che rispecchia i sentimenti contemporanei sulla fine eterna:

Potevo essere un tossico morto
Invece sono un tossico ricco
A quarant’anni squaglio il disco d’oro
Ma non è mica detto che ci arrivo.

Riferimenti bibliografici
C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017
V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, 2009
H. Belting, Antropologia delle immagini, Carocci Editore, 2013
A. Warburg, Arte del ritratto e borghesia fiorentina – Le ultime volontà di Francesco Sassetti, Abscondita, 2015
G. Gorer, La pornografia della morte, 1955
J. von Schlosser, Storia del ritratto in cera, Officina Libraria, 2011
A. Speer, Memorie del Terzo Reich, Mondadori, 2017
E. Panofsky, La scultura funeraria, Einaudi, 2011
L. Marin, Della rappresentazione, a cura di L. Corrain, Mimesi Edizioni, 2014
AA.VV., Pattern. Sui rituali del XXI secolo, in «Iconografie. Centro Studi Sul XII Secolo», I, 2021, III E. De Martino, Morte e pianto rituale, Einaudi, 2021


[1] Ciò che rende visibile un’immagine e fa sì che essa possa essere trasmessa. Non vi è immagine senza un medium che le funga da supporto, e questo presupposto fa venir meno, secondo Belting, la distinzione tra immagini mentali (quelle della memoria) e immagini materiali (una fotografia, una scultura).
[2] Le maschere e le immagini dei defunti fatte di cera, venivano portate alle cerimonie funebri, o venivano conservate nell’atrio della casa insieme con quelle degli antenati. L’appellativo derivava dall’uso di ravvivare e di rendere più vicine al naturale le sculture.
[3] Tecnologia che si pone come obiettivo quello di consentire, in futuro, di riportare in vita persone ed eventualmente curarle con avanzate procedure scientifiche. Consiste nell’abbassamento della temperatura corporea di persone dichiarate legalmente morte, fino al raggiungimento della temperatura dell’azoto liquido, entro mezz’ora dalla morte. La decomposizione si ferma.
[4] L’arte di morire, titolo generico di scritti latini sulla preparazione per una buona morte, che ebbero enorme diffusione nel XV secolo in Europa.