Cerca
Close this search box.

Precarietà del critico e sue vulnerabilità
Nodi atavici e attuali

Loredana Longo, CARPET#21, THE IDEALS ARE THE STARTING POINT FOR EVERY REVOLUTION, 2017, 316 x 208 cm, bruciature (slogan di politici occidentali) su tappeto orientale, courtesy Galleria Francesco Pantaleone, Palermo

Questo articolo è disponibile anche in: English

La critica d’arte esiste ancora? Quali sono gli ambienti in cui si manifesta? Che cos’è la critica d’arte oggi? Quali sono i suoi strumenti? È una professione? A chi è indirizzata? Che impatto ha? Chi e che cosa sposta? Quanto è autonomo il critico?

Le tante domande che investono la critica d’arte contemporanea danno prova della sua vulnerabilità. Fare critica significa prendere posizione, raccontare e sostenere il proprio punto di vista utilizzando gli strumenti analitici acquisiti, le conoscenze specifiche e chiamando in causa la propria sensibilità. Un testo critico fa emergere i caratteri di innovazione e di necessità di una ricerca artistica così come gli elementi non convincenti, assolvendo a una funzione di verifica della produzione in corso. Nell’analisi che il critico conduce, entrano in gioco fattori prima di tutto umani, di empatia, che lo portano a fare i conti con la produzione e la sensibilità di un artista dichiarando il proprio giudizio. Il critico, quindi, si assume una responsabilità di carattere pubblico nei confronti dell’artista e della comunità a cui si riferisce. Esercitare la critica significa conoscere il lavoro di un autore, scendere in profondità e possedere un’attitudine alla comprensione delle pratiche. Implica tempo, studio, sedimentazione, elaborazione, tutte azioni che è difficile tenere insieme vista l’accelerazione che contraddistingue il nostro tempo e la necessità da parte del critico di ricoprire diversi incarichi per potersi sostenere. Pertanto, va da sé che in genere scelga di quali artisti, ricerche e mostre scrivere e quali invece evitare.

Questa è la prima ragione per la quale siamo abituati a leggere, tra le pagine delle riviste specializzate, quasi esclusivamente critiche positive, testi scritti con sapienza da bravi autori che mettono in luce le ricerche attuali. Le recensioni negative di mostre e i testi monografici che presentano criticità nella ricerca di un artista sono casi isolati. Al lettore ignaro delle peculiarità del sistema dell’arte, il solo fatto di comparire tra le pagine di una rivista conferirebbe, in effetti, dignità alla ricerca di un artista o alla mostra analizzata. E ciò sarebbe senz’altro vero se le riviste fossero indipendenti da finanziamenti privati, da pubblicità e sponsor. Il loro sostegno economico da parte di gallerie commerciali, ma anche di privati e di soggetti senza scopo di lucro crea invece un ambiente ambiguo, che mette in crisi l’esercizio libero della critica. Negli anni si è assistito d’altra parte a un impoverimento di tale pratica intellettuale, anche a causa dell’impiego di figure a ‘basso costo’ (se non a costo zero) mosse dal desiderio di entrare nel mondo dell’arte cominciando a costruirsi una propria credibilità nel sistema. In questo modo è gradualmente diminuita la necessità del critico, attribuendogli perlopiù un compito promozionale di riscrittura di comunicati stampa. Se l’editoria online ha giocato un ruolo chiave nel rendere tale dinamica una prassi, la stessa condizione di sfruttamento del lavoro critico è ormai consolidata anche nel campo dei quotidiani che, in diversi casi, impiegano figure altamente specializzate a fronte di compensi irrisori.

Un discorso analitico sulla figura del critico d’arte deve, quindi, necessariamente partire da alcune considerazioni legate al lavoro intellettuale in generale, per poi passare alle peculiarità di quello critico. Per configurarsi come una professione occorre che la retribuzione permetta il sostentamento del professionista. Il suo esercizio esclusivo ad oggi risulta dunque pressoché impossibile. Il critico d’arte ‘puro’, in questi anni, non ha la possibilità di mantenersi con il proprio lavoro e pertanto il suo profilo non potrà che essere ibrido. Non è raro che critici che collaborano con quotidiani e riviste, al tempo stesso scrivano testi e curino mostre per gallerie d’arte. Va da sé che l’attività sia investita da un potenziale conflitto di interessi che non consente all’autore di assolvere alle funzioni della critica convenzionalmente intesa.

Ma la critica non è morta. Non tutta. Come detto, i testi analitici – non promozionali – pubblicati su riviste specializzate o su quotidiani e dedicati alla pratica di un artista o a una mostra, sono spesso di alto profilo e sostengono la necessità di una ricerca mettendone in risalto le caratteristiche peculiari. A tali scritti corrispondono anche funzioni di critica condotta in altre forme e in altri ambienti. L’attività dei musei d’arte contemporanea è fatta di scelte critiche che si compiono su diversi terreni: l’incremento e la valorizzazione della collezione permanente, la produzione di mostre temporanee, la ricerca, l’elaborazione di testi storico-critici. È un gesto critico anche quello del curatore che esercita a pieno titolo il suo compito: al di là del testo che viene prodotto in occasione di una mostra, il fatto stesso di lavorare con un artista e di metterne in luce una linea di ricerca corrisponde a una scelta critica. Il percorso espositivo stabilito e l’allestimento contribuiscono alla narrazione e alla lettura, o rilettura, di un lavoro. Pertanto, occorre parlare di una mostra come di una scrittura e del curatore come di un critico. Ancora oggi sussiste la tendenza a contrapporre la figura del critico a quella del curatore, quasi come fossero antagonisti. A mio avviso, la curatela praticata con diligenza è una pratica critica e non può prescindere da essa. Quando non è così, anche la scrittura espositiva diviene perlopiù un lavoro promozionale.

Nello scenario attuale, fatto di evidenti interdipendenze, se si volesse investire sulla critica, sulla parola, andrebbe prima di tutto creato un ambiente libero per il suo esercizio. Le istituzioni potrebbero fungere da faro per un cambio di direzione, a partire dall’impiego di figure altamente qualificate e retribuite con un giusto compenso. È solo restituendo dignità a questo compito e mettendo coloro che lo praticano nella condizione di poterlo svolgere che si può aspirare a rifondare pienamente la critica. Va condotta, inoltre, una riflessione sulle riviste scientifiche e su come sono alimentate. Tra le riviste d’arte contemporanea che l’ANVUR inserisce nel proprio elenco, ve ne sono alcune che si occupano di stretto contemporaneo, ma che non sono indipendenti dagli investimenti privati. Le riviste accademiche in taluni casi – come «Piano B», «Arabeschi», «Palinsesto», «Predella» – sfiorano solo l’attualità. In Italia, di fatto, manca una rivista con referaggio che si occupi di stretta contemporaneità perché questa non viene considerata un settore di ricerca, lo diventa solo quando è Storia. In aggiunta, gli articoli d’arte contemporanea non vengono valutati dal sistema accademico al pari della produzione scientifica: tale ‘svalutazione’ scoraggia gli storici dell’arte che si interessano anche di contemporaneo a investire tempo nella produzione di ricerche da pubblicare. Così, leggiamo di stretta contemporaneità più da discipline tangenti, quali la sociologia, l’antropologia, l’economia. Quanto un articolo accademico (scientifico) può generare la dimensione critica (speculativa)?

L’esistenza della critica è un fatto politico. La prima domanda da porsi è dunque se la critica, oggi, manchi e se la si desideri davvero. Lo stato di fatto suggerisce che non sia necessaria. O almeno, che non interessi abbastanza da riportarla in luce come dimensione di conoscenza e discussione sistematica dell’arte attuale, con i suoi punti di forza e di debolezza. Perciò, se da un lato si continua a discutere di ‘morte della critica’ e si cercano responsabilità, dall’altro non si percorrono pienamente direzioni sostenibili capaci di generare un cambiamento che le conferisca valore. Ridare dignità alla critica svincolandola da interessi a essa estranei sarebbe fondamentale per riavvicinare l’arte contemporanea al vasto pubblico, che potrebbe così interpretarla, così come a quei decisori istituzionali che finanziano di progetti artistici e agli investitori. Forse è la critica libera, capace di ristabilire una dimensione dialettica e non affermativa, a mancare più di ogni altra cosa nell’arte contemporanea. Tuttavia, non ce ne siamo ancora resi conto o, forse, ci fa comodo così.