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Conflitti di disinteresse
Una conversazione con Andrea Bellini

Ennio Flaiano con Vittorio Gassman sul set di Un marziano a Roma, Milano, novembre 1960 (©lapresse)

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Andrea Cortellessa: Non può non colpire che «Artribune» abbia decretato le tue Storie dell’arte contemporanea (ex æquo con quello di Marco Mancuso) «miglior saggio» dell’anno; e che anche ne Il meglio e il peggio del 2023 de «Il Giornale dell’Arte» il tuo venga segnalato, da Laura Cherubini, come «libro dell’anno». Quando è evidente, a chiunque solo lo scorra, che non si tratta affatto di un saggio di critica d’arte e in effetti non sia proprio un saggio (sebbene la provocazione dell’editore Timeo, di architettare una trappola percettiva grafica che simula la cornice saggistica, magari qualche effetto l’abbia avuto). Ma al di là del gioco, anche che la Quadriennale ci chieda di parlarne nel frame di una discussione sulla critica è il segno che, magari al di là delle tue intenzioni, tu abbia finito per evidenziare una latitanza, più che una ‘crisi’, di quell’istituto che continuiamo a chiamare ‘critica’. Come c’è un quanto di provocazione in chi il libro lo ha scritto, ce n’è in chi lo usa – ed è il caso, credo, della testata che ci ospita – come piede di porco per mostrare il re nudo: e cioè che i format della critica istituiti dalla modernità, e in qualche misura sopravvissuti anche nel corso della postmodernità, non funzionano più.

Andrea Bellini: … Il libro evidenzierebbe una latitanza della critica… A dirti il vero non lo so, e comunque non erano queste le mie intenzioni. Non ho scritto il libro per partecipare a un dibattito di idee. Questa è l’ultima cosa che mi interessa. Volevo misurarmi con la scrittura, e realizzare dunque un’opera letteraria. Spero di aver trovato (non sta a me dire se ci sia riuscito) un ritmo, un tono personale. Ho voluto farlo al di fuori delle categorie classiche; il mio è un testo ibrido, inclassificabile: non è un pamphlet, né un’autobiografia, certo non è un saggio di critica d’arte o anche sulla fine della critica. Il mio problema, nel descrivere certe situazioni tipiche del mondo dell’arte, era di evitare il moralismo, che trovo più imbarazzante dell’immoralità. Il che mi ha costretto a procedere come un equilibrista sul filo dell’ambiguità. Ma le cose che racconto sono perlopiù arcinote agli addetti ai lavori, quello che conta per me è ‘come’ le ho raccontate.

AC: Insomma, capovolgendo una classica immagine, a stupirti è che si guardi la luna anziché il dito…

AB: Mettiamola così, se preferisci!

AC: Però, volendo stare al gioco di questa inchiesta della Quadriennale, questa tua postura solitaria – so che ti piace citare il titolo di Flaiano, La solitudine del satiro – colpisce anche perché si colloca non al di fuori dell’istituzione ma ben dentro di essa; e proprio per questo finisce per essere vista, forse, come possibile via d’uscita da un’impasse innegabile. Fra l’altro, dal mio punto di vista (non è la prima volta che mi capita di fare questa riflessione), proprio lo sputare nel piatto dove mangi contribuisce a salvarti dalla secca del moralismo.

AB: A me sembra che un libro di questo genere possa essere scritto solo da chi frequenta l’ambiente dall’interno. Le critiche fatte al sistema dell’arte dall’esterno sono buone come sceneggiature per film parodistici, ammesso che si disponga di attori divertenti come Alberto Sordi.

AC: Cosa succede quindi alla critica?

AB: Non lo so, è da qualche decennio che si parla della sua morte no? Forse è dura a morire? Per quanto mi riguarda, leggo con sempre maggiore difficoltà le riviste d’arte, e mi capita di non leggere nemmeno le recensioni delle mie mostre. Perché è venuta meno la voglia di leggere d’arte? Forse uno dei problemi della critica (in realtà sono molti, come si evince dagli interventi pubblicati su questa rivista) è che nella maggior parte dei casi è veramente penosa e sciatta: fa male alla salute leggere certe cose. Vedi Andrea, tu stesso hai appena curato gli scritti d’arte di un outsider come Giorgio Manganelli. Io ho letto Emigrazioni oniriche con grande piacere: la scrittura del ‘Manga’ è quantistica, tira in ballo una straordinaria quantità di analogie, informazioni, associazioni di idee. Quando leggi un suo articolo, anche breve, impari sempre qualcosa. Ecco, io penso che questa scrittura ‘quantistica’ rappresenti una possibilità per la moribonda critica d’arte.

AC: Questa metafora ‘quantistica’ forse fa riferimento al concetto di entanglement, alle relazioni a distanza fra elementi che appartengono a sistemi diversi (come quelle che intrattengono fra loro, secondo una certa teoria, le particelle subatomiche). Alberto Arbasino amava citare la formula di Edward Morgan Forster, «only connect»: vero e proprio comandamento modernista per cui più che ‘interpretare’ una certa opera, magari facendole dire non solo quanto non voleva dire ma quanto non era proprio in grado di dire, meglio funziona collegarla in un sistema di relazioni diverso dal codice che l’ha prodotta. Un testo letterario può essere letto alla luce di un dipinto o di un quartetto, e viceversa.

Però, e qui mi prendo la parte dell’avvocato del diavolo, forse proprio questo ragionamento nel corso degli anni Settanta ha condotto certi critici – critici straordinari – ad abbandonare la scrittura saggistica (o limitarne la portata a mere funzioni di servizio) per abbracciare quella che è stata definita «scrittura espositiva»: la quale produce senso, appunto, tramite accostamenti, connections fra un’opera e l’altra, anziché pretendere di estrarlo da ognuna di esse singolarmente. Il tramonto del critico come interprete – per non parlare del critico-legislatore: dei Longhi, degli Argan, dei Greenberg – comincia, mi pare, proprio con la pratica della collezione come collazione (per dirla col lessico dei filologi). Passato ormai mezzo secolo dal periodo ruggente dei Celant e dei Bonito Oliva, degli Szeemann e degli Ammann, mi pare che assistiamo oggi all’esaurirsi anche di questa pratica. Sono restati pochi i suoi interpreti che, nel concepire e allestire una mostra, lo facciano oggi sulla base di un originale paradigma concettuale – frutto, piaccia o meno, di una posizione ‘critica’ – come si faceva memorabilmente allora. Ma anche la ‘solitudine’ del critico come performer – che fa leva non tanto sulla sua scrittura e sulle sue idee ma sull’esibizione di sé come personaggio, della propria prossemica e del proprio comportamento – è stata una via d’uscita squisitamente postmodernista da un’idea di critica come interpretazione. Da noi A.B.O. ha portato questo modello al suo apice nonché alla sua consunzione (e la mostra ‘retrospettiva’ che gli ha dedicato qualche anno fa Rivoli non ha fatto che sottolineare l’inattualità anche della sua posizione).

AB: Sono d’accordo con te. Il critico come personaggio ha fatto la sua epoca. A me sembra che il pubblico oggi abbia bisogno di altro. Per non parlare del critico legislatore, il quale creava o stroncava la carriera di un artista. Chi se ne frega di questa roba? E poi il critico come interprete… Perché sforzarsi di dare ‘una’ interpretazione univoca e definitiva dell’opera? Meglio una scrittura, appunto, quantistica: ricca, interdisciplinare, in grado di attirare l’attenzione di chi legge.

AC: A proposito di attenzione, pare proprio che il tuo libro ai lettori piaccia.

AB: Però, come dicevamo, il mio non è un libro di critica d’arte. Semmai è un libro caustico nei confronti di un certo sistema dell’arte. E poi sono contento che piaccia ai lettori, ci mancherebbe, ma mi chiedo e ti chiedo: è possibile che nessuno si risenta? Non sarà questa la dimostrazione del fatto che il mondo dell’arte è del tutto impermeabile alla sua stessa critica?

AC: Viene da pensare che chi lo elogia tanto, o non lo abbia proprio capito o faccia il pesce in barile. Perché a parte gli artisti, che descrivi come l’unica parte sana del sistema, le altre figure tirate in ballo non ci fanno questa gran figura… Non vorrei che l’aver adottato una postura, prima che uno stile, della letteratura ti conferisca uno statuto speciale, diciamo, che ti consente di dire tutto perché da quella postura si crede non possa provenire un giudizio del quale prendere atto. Come se la letteratura, da Dante in poi, non fosse stata capace di giudicare il proprio tempo in modo anche atroce! Il rischio, per restare al tuo amato Flaiano, è che come il famoso Marziano a Roma all’inizio tutti lo guardino con curiosità, poi si abituino, e alla fine più o meno educatamente gli dicano di togliere il disturbo.

AB: Gli chiedono di andarsene ma il Marziano non può nemmeno lasciare Roma perché gli hanno pignorato l’astronave! Se il mio libro non suscita rancori o malumori è forse perché è pieno di depistaggi e anche di bugie. Ogni bugia è un racconto significativo, diceva Freud, e ogni racconto è una bugia significativa. Insomma, chi lo legge può sempre pensare che stia parlando di qualcun altro, e quindi ridere e magari farsene una ragione.

AC: Tutti colpevoli, nessun colpevole: è la critica storicamente fatta alla componente autoassolutoria della satira. Qui veniamo a un altro tema fondamentale, che è il rapporto della critica con le istituzioni. Mi ha colpito sentirti affermare, sulla base della tua esperienza personale, che è ben diverso rapportarsi con le istituzioni politiche svizzere, nel tuo caso il Centre d’art contemporain di Ginevra, rispetto al farlo con quelle italiane, a suo tempo Rivoli.

AB: Lungi da me il voler descrivere la Svizzera come un paradiso in terra. Il Padiglione svizzero che sto curando per la prossima Biennale di Venezia sarà anzi una critica puntuale di questa autonarrazione ‘nazionale’, ampiamente mistificata. Però è vero che un sistema come lo spoils system italico è inimmaginabile in Svizzera, o anche – nel settore che ci riguarda – nel Paese che lo ha inventato, cioè gli Stati Uniti.

AC: Continuando a fare l’avvocato del diavolo, a questa ipostasi del battitore libero o del cane sciolto oppongo il carattere eminentemente dialogico, al limite polemicamente tale, della critica nel suo statuto moderno, ma che per qualche tempo è rimasto tale anche in seguito. Il gruppo di «October», per esempio, si costruì un’identità contestando i critici della generazione precedente, gli high-modernists à la Greenberg. Invece, il sistema individualistico oggi prevalente fa sì che ognuno se ne vada per conto proprio stando bene attento a non pestare i piedi agli altri, anzi disinteressandosi del lavoro altrui (o fingendo di farlo). Poi il sistema, in questa sua anomia anonima, privilegerà l’uno rispetto all’altro, farà le fortune dell’uno rispetto all’altro, e nessuno si porrà il problema del perché sia stato scelto l’uno invece dell’altro.

Anche questo, peraltro, lo si osserva da tempo in ambito letterario. Oggi gli scrittori veri evitano perlopiù di scrivere dei loro colleghi e, anzi, con una buona dose di approssimazione al vero, si può dire che se un narratore o una narratrice su un giornale incensa un altro narratore o un’altra narratrice lo faccia solo per amicizia, lobby, cosca, o soggiacendo a un conflitto d’interesse editoriale neppure troppo velato. Questo malcostume segna la fine di un’idea sociale di letteratura come luogo del conflitto delle poetiche, che poi nella modernità e nella prima postmodernità erano anche contrapposti modelli sociali e politici.

AB: È il motivo per cui non si dà più una critica negativa. Senza voler ipostatizzare l’istituto della ‘stroncatura’ fine a sé stessa, che può avere valenze ‘performative’, in ultima analisi funzionali al sistema spettacolarizzato in cui viviamo, certo è difficile riscuota interesse un giudizio che, solo per essere stato formulato, sappiamo già essere in sostanza positivo!

Mi pare che a fare eccezione resti forse solo la critica cinematografica. Se ancora oggi capita di vedere stroncati certi film dipende dal fatto, credo, che le strutture produttive nel cinema sono differenti da quelle che gestiscono le sedi di commento (sebbene col prevalere delle piattaforme digitali questa distinzione stia venendo meno). Se sono due campi diversi, dall’uno si può sparare nell’altro senza che questo venga considerato ‘fuoco amico’! Anche in questo caso, come vedi, è il salto di piano che si deve fare, a garantire un certo interesse alla scrittura critica. Se si vuole essere davvero spietati bisogna cominciare con l’essere sé stessi: cioè diversi’ dall’altro di cui scriviamo. Gli antichi chiamavano curiositas questa capacità, o questo desiderio, di fare un passo di là. Senza la curiosità di chi scrive non si potrà mai incontrare l’interesse di chi legge.

In ogni caso dici bene caro Andrea, di questi tempi la preoccupazione sembra essere esclusivamente quella della carriera: mai fare niente che possa danneggiarla. Con questo libro ho voluto concedermi il rischio e il lusso di un autosabotaggio. Ma come vedi sono vittima di un conflitto di disinteresse.