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La costruzione del consenso
Breve storia di un corporativismo forzato

Tommaso Trini, Achille Bonito Oliva, Germano Celant, Filiberto Menna e, in secondo piano, Marcello Rumma, all’inaugurazione della mostra Arte povera più Azioni povere, Antichi Arsenali, Amalfi, ottobre 1968

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Cos’è la critica d’arte, a cosa serve, quali sono i suoi metodi e le sue potenzialità, e come mai quando sorge una polemica al suo interno – qualcosa abbiamo visto su «IlSole 24 Ore» di recente – si infossa immediatamente?

È nata in tempi recenti – un paio di secoli al massimo ─ cedendo agli specialisti il diritto di spiegare di cosa tratti un’opera d’arte e di come lo tratti: se in modo innovativo e coerente, allacciandosi a certe e non altre eredità del passato, e se alla semplice osservazione dell’opera vadano aggiunte cognizioni che il pubblico può non sapere e che la critica, appunto, fornisce.

Il tema della spiegazione è il più pressante, dal momento che persino le opere di pittura e scultura, cioè quelle che si potrebbero offrire a un godimento immediato, hanno in realtà bisogno di mediazioni e spiegazioni. Senza un testo che le accompagni e ne riveli l’intrinseco meccanismo, restano mutilate, quando non completamente mute: anche grandi installazioni spettacolari, come quelle delle serie Unilever e Hyundai presso l’invaso della Tate Modern a Londra, concepite per essere godibili al primo sguardo, non le avremmo capite appieno se, per esempio, non ci fosse stato detto che il sole di Olafur Eliasson era una lampada a raggi UVA e UVB coordinata con le tempistiche del vero Sole; che l’installazione postatomica di Dominique Gonzalez-Foerster era ispirata da un libro di fantascienza e ‘leggibile’ a partire da un evento immaginario capace di gonfiare le opere della collezione del museo; che i volumi di plastica di Rachel Whiteread erano stati ottenuti facendo calchi dell’interno di scatole a forma di edifici; che a muovere i pannelli dell’opera di Philippe Parreno era una centralina contenente microorganismi viventi i quali, con i loro moti stocastici, davano impulso al saliscendi delle finte pareti; che le tende luminescenti di El Anatsui erano composte da tappi metallici di bottiglie raccolti in Ghana, legati tra loro manualmente. Si dirà che questo è il lavoro di chi redige didascalie, ma il critico oggi fa anche questo: redige e controlla didascalie sempre più lunghe.

Oltre a ciò, ha anche il compito di ‘sceverare il grano dal loglio’: nel gran mare di opere che vengono prodotte e nella folla di sedicenti artisti, gli si chiede di individuare cosa e chi possa meritare credibilità artistica. Senza sapere bene cosa sia l’arte, una nozione costruita nel tempo e che non gode di un perimetro disciplinare solido[1], entriamo qui nella questione del suo valore: la critica dovrebbe indicare una scala di meriti da attribuire a opere e autori. Il discorso si complica, giacché non ci sono dati oggettivi a cui aggrapparsi con sicurezza, per esempio le parole dell’artista o i dati delle vendite mercantili. Le prime, in effetti, tendono ad avvalorare l’opera il più possibile, i secondi, invece, sono il risultato di un coacervo complesso di condizioni: dalla nazionalità di un artista al medium dell’opera (la pittura vende meglio di ogni altra tipologia) fino all’adozione dell’artista da parte di gallerie internazionali e alla sua partecipazione a mostre significative ottenuta mediante l’azione di curatori ben inseriti. Per inciso: in un contesto professionale e non da piccolo imbroglio locale, la critica in quanto ‘intervento scritto’ ha un ruolo residuale nell’aiutare il successo di un artista.

Un ulteriore compito della critica è poi quello di giudicare la riuscita di una mostra personale o l’emergere sopra la media di un artista in una collettiva o, viceversa, di stroncare un lavoro o un’intera operazione espositiva. Alcune firme non hanno mai cessato di essere taglienti e rispettate, per esempio la temutissima coppia composta da Roberta Smith («New York Times») e Jerry Saltz («New York Magazine», Premio Pulitzer 2018 per la critica). Non a caso si tratta di due nomi statunitensi, e a essi potremmo affiancarne altri di nazioni in cui il ruolo di chi scrive d’arte per un giornale, per un settimanale, talvolta anche per una rivista specializzata, preclude qualsiasi incursione nell’ambito della curatela. Il fatto che chi scrive non possa essere rivale di chi concepisce e allestisce esposizioni conferisce una libertà di parola che altrimenti verrebbe meno: è evidente che se si aspira a lavorare come curatori in una certa istituzione, non si esprimerà un giudizio negativo su eventi promossi da quest’ultima. La nitidezza di alcune rubriche, per esempio le due righe con cui una mostra può venire promossa o bocciata su «The Village Voice» o su «Time Out», non potrebbe essere raggiunta da chi non opera sotto la protezione professionale della testata giornalistica.

Tuttavia, questa divisione dei compiti si è andata attutendo anche in America, con incroci tra attività accademica, redazione di volumi enciclopedici che assegnano giudizi di valore, direzione di riviste di settore che a volte spezzano le ali a un artista (nel 1995 accadde a Joseph Kosuth sulle pagine di «October» per la penna di Benjamin Buchloh) e curatela di mostre, come nel caso di Rosalind Krauss o Yves Alain Bois. Intendiamoci, questo saltare da un ruolo all’altro ha i suoi vantaggi: chi scrive capisce meglio una mostra se ogni tanto ne fa una anche lui, chi organizza può aspirare a una maggiore profondità di pensiero, senza ridursi al solo lato pratico della faccenda, se è anche un docente universitario; la partecipazione a comitati scientifici di riviste, fondazioni, musei aiuta a tenersi informati. Gli italiani che hanno fatto fortuna a New York, da Germano Celant a Francesco Bonami, Massimiliano Gioni, Cecilia Alemani ne sono un esempio.

Ma, certamente, il sovrapporsi delle funzioni nella stessa persona impedisce che ci siano prese di posizione radicali, tranne in casi rarissimi. Il critico-curatore-docente tende a scambiare con i suoi pari dei consensi, dei sorrisi, delle complicità. Ma come si è arrivati, soprattutto in Italia, al costume degli inchini reciproci? Volendola prendere da lontano, dobbiamo ricordare che la prima cattedra universitaria dedicata all’arte contemporanea fu istituita a Salerno nel dopoguerra. La figura di uno studioso serio che si occupasse di attualità non è mai stata contemplata prima. Si riteneva – e in fondo ancora molti ritengono – che chi si occupa di contemporaneo non possa che essere un Louis Vauxcelles, un critico da sensazione, un cronista da Salon che ‘appioppa’ ai nuovi movimenti qualche umiliante nomignolo.

I metodi per lo studio dell’arte contemporanea sono sempre stati, del resto, assimilati a quelli di chi studia arte antica, con una sopravvalutazione del ruolo dell’archivio e una sottovalutazione della conoscenza diretta dell’artista, dello studio visit, dell’intervista scritta o registrata, della visione in prima persona di molte mostre internazionali. C’è stato uno scandalo metodologico che stenta ancora a riassorbirsi, oltre cinquant’anni dopo la sua comparsa, incarnato da testi ribelli alla prosa narrativa e ornata come Autoritratto di Carla Lonzi[2] e Arte povera di Germano Celant[3], vicini alla radicalità usata in Six Years da Lucy Lippard[4]. Un altro scandalo indigesto è consistito nell’immissione dentro al linguaggio critico di discipline a esso esterne come la semiotica, la psicanalisi, una filosofia di matrice soprattutto continentale che, va detto, non sempre ha favorito la comprensibilità dei testi, ma che certamente ha aperto le porte a una ‘critica creativa’ che gioca con le parole e con le opere senza grande rigore[5].

Tutto questo è accaduto in un humus culturale in cui il critico, se non era direttamente un giornalista, veniva comunque dalle file dell’Accademia: Giulio Carlo Argan, Adolfo Venturi, Roberto Longhi, Lionello Venturi, Luciano Anceschi, erano difatti docenti universitari[6]. Molti di coloro che hanno tenuto rubriche sugli organi di stampa, dal già citato Argan a Renato Barilli, Luciano Caramel, Flavio Caroli, Gillo Dorfles, hanno raggiunto queste opportunità grazie alle loro cattedre. Quasi tutti questi protagonisti sono stati anche curatori di mostre e, soprattutto nel caso di Barilli e Caroli, hanno tentato di lanciare dei movimenti di cui si sono fatti scopritori o coordinatori. Date queste condizioni, è chiaro che non avrebbero mai potuto esprimersi in maniera aggressiva all’interno dei propri contributi scritti. Veniamo dunque da una tradizione in cui la sovrapposizione di ruoli si è sposata a una diffidenza verso la serietà dell’arte contemporanea, verso la sua considerazione come materia universitaria che necessita di sistemi di studio autonomi.

Nel tempo, tutto ciò ha avuto una deriva che potremmo definire compiacente: ‘io non attacco te, tu non attacchi me’. Come asserisce il critico del «Corriere della Sera» Pierluigi Panza, «Nell’età delle lobby e della finanziarizzazione dell’arte, la figura del critico sta lasciando spazio a quella di una costruzione del consenso orientata secondo logiche di appartenenza e strutturata sul modello dei sistemi del marketing, della pubblicità e del condizionamento dei media. Il compito di selezionare e orientare il gusto secondo metodologie estetiche, storicamente affidato al critico, è stato soppiantato da artificiose costruzioni di consenso che trovano ragione all’esterno dell’artisticità, nelle lobby di potere o, al meglio, nel potere dei grandi galleristi e collezionisti (che, spesso, coincidono)»[7].

Ecco che entra in campo il denaro, nella forma di chi lo muove davvero: i galleristi. Scopritori, amatori, animatori fino agli anni Settanta, con l’ascesa alle cronache finanziarie della pittura neoespressionista italiana, tedesca e americana attorno al 1980 hanno iniziato a essere sempre più capitani di ventura. La figura del gallerista di successo oggi prevede l’apertura di varie sedi nel mondo, un carnet di collezionisti che spesso posseggono fondazioni, dirigono musei, comprano per istituzioni bancarie e altre collezioni di grande liquidità. Non sempre chi scopre un talento è nella posizione di promuoverlo: non stiamo infatti parlando de gallerista che lavora con artisti under 30 appena introdotti al mercato dell’arte, ci riferiamo piuttosto alla figura di tycoon dell’arte contemporanea che vede alcuni esempi di imprenditorialità sintomatica in Hauser&Wirth, David Zwirner, Michael Werner, Esther Schipper, Perrotin, in Italia Massimo De Carlo e Galleria Continua. Con un gioco continuo tra primo e secondo mercato, cioè tra artisti con cui lavorano direttamente e altri di cui ottengono le opere mediante intermediari, grazie a una rete diffusa di relazioni con curatori interni ed esterni ai musei, i galleristi diventano collettori di denaro, di decisioni sugli artisti a cui procurare mostre in istituzioni di rilievo, a cui dedicare importanti monografie o a cui sponsorizzare la realizzazione di un’opera per importanti rassegne artistiche quali documenta di Kassel o la Biennale di Venezia. Alla fine, anche se non espresso in parole, il giudizio critico più importante è diventato il loro, con tutta la comprensione che si può avere per chi si assume non solo un rischio di opinione ma anche un rischio d’impresa.

Sulla professionalità dei critici si può anche non discutere: sono tutti bravissimi, anche con l’aiuto di manuali che insegnano loro come scrivere[8]. Ma sulla loro capacità di uscire dal cono d’ombra dei galleristi e dalla sollecitudine verso colleghi potenzialmente rivali (da non inimicarsi), sì, si dovrebbe discutere. Perché, anche quando indossano le vesti del curatore, è con questi che devono poi dialogare per ottenere spazi, finanziamenti e prestiti di opere. Il loro ambito di libertà non può stare nella parola scritta, dunque, è troppo pericoloso. Meglio sfogarsi in aula con un pubblico di studenti e, al di fuori di quella, dismettere qualsiasi ostilità dannosa e inutile.


[1] L. Shiner, L’invenzione dell’arte. Una storia culturale, Torino, Einaudi, 2010.
[2] C. Lonzi, Autoritratto, Milano, et./al Edizioni, 2010 (Prima edizione Bari, De Donato, 1969).
[3] G. Celant, Arte Povera, Milano, Mazzotta, 1969.
[4] L. Lippard, Six Years, The Dematerialization of the Art Objects 1966-1972, Berkeley, University of California Press, 1997 (prima edizione 1973).
[5] Per una panoramica sui diversi approcci colta nella viva voce di alcuni protagonisti si veda: Teorie e pratiche della critica d’arte, Atti del Convegno di Montecatini (1978, Montecatini), a cura di E. Mucci e P. Tazzi, Milano, Feltrinelli, 1980.
[6] I nomi sono moltissimi, per un elenco più esaustivo della generazione di critici italiani attiva fino al 1985 si veda: A. Vettese, La critica d’arte, i luoghi di un’autoriflessione, in Arte in Italia 1960-1985, a cura di F. Alfano Miglietti, Milano, Giancarlo Politi Editore, 1988, pp. 23-39.
[7] P. Panza, La critica nell’età delle lobby, in La critica oggi, Atti del Convegno presso la Triennale di Milano e l’Accademia Nazionale di San Luca, a cura di F. Purini, F. Moschini, C. De Albertis, Roma, Gangemi Editore, 2014, pp. 175-177, in partic. p. 175.
[8] G. Williams, How to Write about Contemporary Art, London-New York, Thames & Hudson, 2014.