Questo articolo è disponibile anche in: English
Post Human
La mostra Post Human, curata da Jeffrey Deitch, era arrivata da Losanna al Castello di Rivoli nell’autunno del 1992, e aveva subito ottenuto un certo riscontro, perché sembrava segnare una sorta di frattura epistemologica vissuta nella realtà che l’arte contemporanea, più o meno puntualmente, registrava. La tecnologia iniziava a interferire con la struttura dei nostri corpi, le possibilità della chirurgia estetica e della medicina promettevano benessere e gratificazioni psicologiche. Già si parlava di manipolazioni genetiche, cyborg, robotica, fino a toccare delicate questioni etiche. L’arte ne registrava la portata, non senza sorpresa: fino ad allora, le ricerche più radicali si erano rivolte in direzione opposta, alla salvaguardia di un rapporto positivo fra il soggetto della cultura e l’ambiente naturale che lo sviluppo tecnologico aveva da tempo messo in pericolo. La famosa performance di Joseph Beuys, I Like America and America Likes Me (1974), è stata epocale, in quanto tematizzava la necessità per il soggetto di recuperare la propria animalità, per giungere a un assetto psicologico meno precario di quello conseguente al ‘disagio della civiltà’. Ricordiamo: l’artista si è fatto rinchiudere per diversi giorni in una galleria di New York con un coyote; la documentazione fotografica restituisce le fasi di questa convivenza, dalle azioni aggressive dell’animale verso l’umano, protetto da morsi e graffi con una coperta di feltro, fino all’accettazione. Si è trattato, in altre parole, del tentativo di armonizzazione fra umano e preumano (termine decisamente antropocentrico) che ha messo alla prova anche altri artisti. Si può fare riferimento al Teatro delle orge e dei misteri di Hermann Nitsch, basato sullo sventramento di animali sul corpo dei suoi assistenti, dove simboli religiosi si mescolano all’esibizione di budella e sangue, in una specie di cortocircuito fra apollineo e dionisiaco che rimanda all’origine dei riti con sacrifici violenti. All’opposto di tali pratiche, tese allo shock percettivo (simili a certe azioni di Marina Abramović, come quella che la vede alle prese con un pitone), Giuseppe Penone lascia tracce del suo corpo su alberi, blocchi di argilla o mucchi di foglie, segnalando comunque un analogo intento disalienante.
Siamo però fra anni Sessanta e Settanta, mentre Post Human arriva in Italia all’inizio dei Novanta, in un contesto storico ed estetico completamente diverso. Non è più il preumano a essere evocato come confronto o compimento, ora è la macchina che intende prefigurare la nuova umanità, non più l’arcaico, ma il futuribile. Gli artisti chiamati da Deitch erano quasi tutti americani, e ognuno, da Cindy Sherman a Paul McCarthy, Jeff Koons, Charles Ray, nei propri ritratti, fotografici o scultorei, elabora i segni delineanti la corporeità secondo canoni e stereotipi in voga nel sistema delle informazioni. A volte accettandone la fascinazione, più spesso rifiutandoli tramite una retorica autodenigratoria. Anche in Italia quelle istanze cominciavano a emergere, e in alcuni casi sono diventate mainstream. Vanessa Beecroft in quel periodo esordiva con tableaux vivants a cui partecipavano ragazze in collant e parrucche rosse, accanto a grandi dipinti di corpi femminili quasi deformi, sinteticamente definiti in rosa su bianco. Immagini generate dal disagio che l’artista provava per la propria fisicità, le sue installazioni hanno imboccato via via un’altra direzione, costituendo una specie di ininterrotto catalogo delle stereotipie che informano l’ideale estetico espresso dai media. Nel 1998, al Guggenheim di New York, Beecroft presenta un gruppo di modelle coperte solo da un bikini creato da un famoso stilista. Da allora la moda contribuirà frequentemente nella selezione delle sue performer: corpi conformati dai segni, dai ‘tratti di moda’ di barthesiana memoria, cui si affida quasi interamente la definizione di una identità. Anche questo è postumano, essendo i tratti di moda condizionanti e mai oggetto di libere scelte. Negli stessi anni, Maurizio Cattelan iniziava la ricerca che l’ha portato al successo internazionale, e le sue opere si possono avvicinare all’estetica postumana di cui stiamo parlando. Gli animali tassidermizzati e, poco dopo, i manichini divenuti sua cifra stilistica, possono ben confrontarsi con le altrettanto perfette repliche del vivente che veicolavano quella visione critica riguardo ai simulacri del sistema delle informazioni. La differenza è però marcata: gli artisti post human, almeno quelli contemplati nella mostra di Deitch, immaginano l’esistenza futura, auspicata o temuta, mentre Cattelan tematizza la morte. Dalle prime opere fino alle più recenti, visibili nella grande mostra all’HangarBicocca (luglio 2021-febbraio 2022, n.d.r.), l’artista esprime un forte senso tragico dell’esistenza, che nessun futuro tecnologico riesce a redimere. Se gli animali morti e imbalsamati possono evocare l’idea del superamento della morte nell’effigie eternizzata, i manichini sono l’istanza psicologicamente inquietante del doppio, non importa se rappresentato vivo o morto (i bambini impiccati, il feretro di Kennedy…). In più, essi evocano l’orrore del revenant, il fantasma che torna fra i viventi. Il bambino che vediamo, da lontano e di spalle, stare in ginocchio, da vicino si rivela un Hitler adulto e incongruamente orante: è Him (2001), una delle opere più sconvolgenti di inizio millennio.
È passato molto tempo dall’iniziale utilizzo della parola postumano. I primi a usarlo possono essere rintracciati negli anni Cinquanta, ma solamente fra la fine dei Settanta e gli Ottanta diventa sempre più comune. Un’epoca in cui il concetto di postumano era ancora molto vicino a termini quali transumanesimo. Se quest’ultimo indicava un potere della tecnologia sull’uomo, la possibilità di una nuova evoluzione attraverso la tecnologia, il postumano rappresentava invece un concetto filosofico più generale e profondo, un modo per sviluppare un’inedita sensibilità estetica tra uomo e macchina, differenti identità rappresentate dalla figura del cyborg, come ben espresso nel Manifesto cyborg di Donna Haraway[2]. Per questo il postumano è stato ampiamente indagato da molti artisti, spesso in contrasto con la direzione del transumanesimo. Pensiamo a Stelarc, pioniere dell’esplorazione estetica della relazione corpo/macchina, o a Orlan, Marcel·lí Antúnez Roca, Haim Steinbach, che hanno reso il corpo tavola di sperimentazione di una nuova identità tecnologica. Fino alla mostra Post Human.
Ma, verrebbe da chiedersi, cosa vuol dire postumano oggi? Cosa è rimasto di questo filone? Effettivamente, tale concetto è tornato in auge dopo anni in cui, tra fine anni Novanta e inizio Duemila, se ne sentiva parlare poco. Un ritorno che presenta alcuni mutamenti, anche alla luce degli sviluppi teorici e sociali che la nostra umanità sta affrontando. Non c’è dubbio, infatti, che vi siano drastiche metamorfosi, la nostra era si avvicina a un nuovo modello sociale, economico e filosofico, che intreccia i grandi cambiamenti tecnologici, con quelli sociali e climatici. Pertanto, la nozione di postumano è sempre più connessa a quella di Antropocene, la nuova era in cui l’uomo, con il suo apparato tecnologico, incide direttamente sui processi geologici; i quali, a loro volta, hanno ripercussioni sull’uomo, la sua vita e le modificazioni biologiche impercettibili che la nostra specie sta affrontando. Se il ‘vecchio’ postumano era ancora un’epoca in cui il tecnologico e il naturale, il sintetico e l’organico, erano distinti, oggi viviamo in un’‘era sintetica’, come la descrive Christopher J. Preston, dove è sempre più difficile distinguere il naturale dal sintetico. Un ‘postumano contemporaneo’, appropriandoci dell’accezione di Leonardo Caffo, in cui «i comportamenti, il rapporto con l’ambiente, l’osservazione delle cose sono solo alcuni degli aspetti che evidenziano l’esistenza di un’altra specie di umani»[3].
Su queste basi lavorano molti artisti e designer: ad esempio Neri Oxman, una designer/artista che ha fatto dell’analisi sui materiali naturali, sullo sviluppo di una nuova ecologia, il punto focale della sua ricerca. Dalla corteccia d’albero, dai gusci dei crostacei, alle ragnatele dei bachi da seta e al respiro umano, la natura è ‘material ecology’ dei processi di produzione di Oxman. Il corpo non è più il fine del processo tecnologico, ma la tecnologia è impiegata come mezzo per esplorare nuove possibili umanità in un mondo post-antropocentrico. Così la cyborg art può essere interpretata quale diretta conseguenza del postumanesimo ‘classico’ ma, allo stesso tempo, come un allontanamento da questo. Neil Harbisson, Manel Muñoz, Pau Prats, Moon Ribas, rappresentano una generazione di artisti che mira a indagare nuovi strati sensoriali, sviluppare nuovi sensi, superare le identità di genere e le categorie percettive storiche, attraverso l’innesto di elementi tecnologici nel corpo, riportando in primo piano il cyborg. Indicativa l’antenna di Harbisson, installata sulla sua spina dorsale, che tramuta la gamma di colori in vibrazioni sonore.
Marco Donnarumma sicuramente continua la tradizione del postumanesimo, indagando il corpo attraverso la tecnologia. Ma Donnarumma spinge oltre la questione postumana, integrando performance art, computer music, new media art e scienza. Focus del suo lavoro sono corpo umano, macchine e suono; nel ciclo Humane Methods (2019-in corso), espone la violenza delle società algoritmiche di oggi e porta in scena decine di performer umani, organismi non umani, servendosi di un pubblico-performer. La drammaturgia è guidata da un’IA elaborata da un team di scienziati e artisti.
Da una prospettiva meno tecnologica, molti autori stanno riflettendo su questi argomenti, sul rapporto tra specie, organico e inorganico, terrestri e alieni. L’Italia è all’avanguardia grazie ad artisti quali Benni Bosetto, Ambra Castagnetti, Giulia Cenci, Federica Di Pietrantonio, Antonio Fiorentino.
Così, fra tecnologia, natura, cambiamenti climatici, Terra come parte di un tutto, è ancora l’arte a indicarci una nuova via, per comprendere l’uomo nelle sue innumerevoli metamorfosi, non solo umane, ma anche, appunto, postumane. Emblematico il Leonardo sogna le nuvole di Donato Piccolo: un volto (quello di Leonardo Da Vinci) ancorato a un meccanismo di tubi, dove la tecnologia non aiuta l’uomo a migliorarsi, a diventare più forte, ma semplicemente a sognare. Cosa? Una nuova umanità.
[1] La prima parte è stata scritta da Giorgio Verzotti, la seconda da Valentino Catricalà.
[2] D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, 1985.
[3] L. Caffo, Fragile umanità. Il postumano contemporaneo, Einaudi, 2017.