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Il corpo tra dimensione personale e memoria collettiva
Note sull’arte italiana del presente

JJacopo Miliani, Throwing Balls at Night, foto Simone Dipietro per OGR Torino

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Nel volume Materialismo radicale (2019), Rosi Braidotti sostiene che nel XXI secolo la soggettività sia un luogo paradossale, un teatro dove agiscono e si incrociano molteplici fattori sociali, simbolici, economici, politici, e ci avverte di come questa fase storica ci ponga dinanzi a una contraddizione gravida di conseguenze. Ci troviamo ad affrontare, infatti, «la simultanea scomparsa e sovraesposizione del corpo, cioè l’eccessiva esibizione di sé ma anche la perdita di sostanzialità»[1]. Secondo Braidotti, il corpo «diventa il luogo in cui si sovrappongono codici culturali e pratiche discorsive molteplici e contraddittorie. Per una lettrice ironica, ma attenta, della storia della filosofia occidentale, il corpo è: il peggior incubo di Cartesio, la fonte di speranza di Spinoza e l’origine della protesta in Nietzsche, l’ossessione di Freud, la fantasia preferita di Lacan e la più stridente omissione di Marx»[2]. Seguendo il ragionamento della filosofa, il corpo è alla base dell’immaginario normativo diffuso dalle rappresentazioni mediatiche e televisive, ma anche uno spazio che si apre al conflitto e, quindi, un luogo di possibile resistenza e dissenso. Per tale ragione, ancora oggi, la dimensione della corporeità non smette di essere al centro della pratica artistica di molti autori e autrici che, sul piano nazionale e internazionale, agiscono nel campo delle arti visive e performative, mantenendo rapporti saldi con le esperienze della neoavanguardia degli anni Settanta che hanno concepito «il corpo come linguaggio»[3], esplorandone limiti e potenziale rivoluzionario. Rispetto all’arte di quel decennio – a cui le nuove generazioni guardano con interesse, contribuendo a riattivarne la storia – la ricerca degli ultimi venti anni ha allargato lo spettro di questioni analizzate, a partire dall’intreccio sempre più stretto tra corpo, identità di genere, etnia, classe e disabilità, tematica, quest’ultima, cardine delle recenti azioni di Chiara Bersani (1984), performer, attivista ed esponente, dal 2020, dell’associazione Al Di Qua Artists (Alternative Disability Quality Artists). In Italia, in particolare, la memoria degli anni Settanta continua a risuonare forte, soprattutto nell’opera di artiste e artisti attivi dai primi anni Duemila. L’eredità del femminismo della differenza e la rilettura del pensiero di Carla Lonzi rivivono, ad esempio, nel lavoro sulla corporeità condotto, da quasi due decadi, da Silvia Giambrone (1981), le cui azioni indagano le relazioni di potere tra i sessi e la violenza esercitata sui corpi. Il conflitto interpersonale è all’origine del video Domestication (2020), prodotto durante la crisi pandemica nell’ambito del progetto Mascarilla 19 – Codes of Domestic Violence[4]: l’artista riflette sul carattere culturale della violenza di genere, e sulle modalità di apprendimento e trasmissione dei comportamenti violenti che, come dimostrano i dati raccolti dai centri antiviolenza, sono aumentati esponenzialmente durante le chiusure causate dal COVID-19[5], provocando per le donne un’emergenza nell’emergenza. In Domestication, Giambrone mette a nudo i meccanismi culturali e sociali attraverso cui la violenza viene assorbita e tramandata; a tal fine recupera gli scritti sull’educazione infantile pubblicati alla metà del XVIII secolo dal teologo svizzero Johann Georg Sulzer, secondo cui per coltivare l’obbedienza occorre impartire punizioni corporali e psicologiche sin dai primissimi anni di vita del bambino. In questa prospettiva, la violenza è talmente radicata nel profondo degli esseri umani da essere percepita come fenomeno ‘naturale’. Già nella performance Teatro anatomico, realizzata nel 2012 al MACRO Testaccio di Roma[6], Giambrone aveva esplorato il tema della violenza, ma in quell’occasione era partita dal suo corpo, in un’azione di sapore medico-rituale per certi aspetti simile alle performance eseguite negli anni Settanta da Gina Pane. Riprendendo una pratica tradizionalmente associata al lavoro manuale delle donne, Giambrone si fa cucire sulla pelle viva un colletto finemente ricamato, che richiama la moda vittoriana, con tutto ciò che la scelta di questo oggetto desueto comporta simbolicamente. Il ricamo assume uno statuto ambiguo: da un lato, rappresenta un sapere artigianale antico e per le donne uno strumento di emancipazione economica, dall’altro, è simbolo di un sistema valoriale che, per secoli, ne ha decretato la marginalità e l’oppressione. Il corpo dell’artista, esposto nella sua singolarità, si carica quindi di una memoria collettiva, sta lì a ricordarci una storia di violenza condivisa da milioni di donne, ieri e oggi. Anche per la più giovane Silvia Rosi (1992), il corpo è dispositivo privilegiato per fare affiorare storie rimosse, e il partire da sé è inteso come strategia necessaria per affrontare questioni sociali. Nata a Scandiano, è autrice di una serie di intensi autoritratti fotografici, in cui ripercorre la storia della sua famiglia di origini togolesi. Si ritrae nei panni ora del padre, ora della madre, nell’atto di reinterpretare le pose tradizionali della fotografia in studio tipica dell’Africa occidentale. In questi tableaux, caratterizzati da colori accesissimi o da profondi bianchi e neri, l’artista racconta la storia di migrazione del suo nucleo familiare, attingendo al repertorio della fotografia vernacolare e ridefinendo, al contempo, il perimetro dell’autoritratto e i confini di genere. Mette così in scena un album di famiglia, in cui però al posto dei ritratti dei genitori rimane il reenactment di gesti antichi, azioni quotidiane che si ripetono nel tempo, come l’usanza di trasportare oggetti sulla testa diffusa tra le donne togolesi. In tali opere fotografiche e nei video, Rosi riflette sulle sue radici e la sua identità di afro-discendente: «Essere neri in Italia significa dover sempre essere pronti a giustificare le proprie origini e la propria identità. Questo l’ho sempre vissuto in maniera negativa e solo recentemente ho iniziato a prenderla come un’opportunità per fare domande e comprendere la mia storia. A queste domande era possibile rispondere solo attraverso il viaggio che mi ha permesso di ripercorrere il processo migratorio dei miei genitori»[7]. La storia personale e collettiva si fondono in un ciclo di immagini, dove il corpo viene rappresentato quale luogo in cui si incrociano memorie, conoscenze e identità stratificate. Di carattere più apertamente corale è il lavoro performativo di Jacopo Miliani (1979); le sue azioni, al pari del suo progetto editoriale SelfPleasurePublishing (dal 2014) e del film La discoteca (2021), indagano i nessi tra linguaggio, realtà e identità non binarie: «Mi piace pensare e praticare il corpo non come un oggetto di studio, ma come soggetto da cui è possibile immaginare e creare delle realtà. Questo tipo di costruzioni possono essere analizzate attraverso una metodologia performativa del ‘come le costruiamo’ piuttosto che del ‘cosa rappresentano’. Il mondo queer è a mio parere una modalità interessante di ‘come costruiamo il reale’»[8]. L’immaginario visivo e la cultura delle comunità gay degli anni Settanta e Ottanta sono al centro di performance che fanno del corpo e della danza potenti strumenti di liberazione del desiderio, dispositivi di ribellione che pongono in discussione i modelli etero-normativi. Le fonti cui attinge, alte o basse che siano, si radicano in esperienze che eccedono l’ordinario. In Throwing Balls at Night[9] (2016), ad esempio, si rifà a Jeux (1912-1913), lo scandaloso poème dansé frutto della collaborazione tra Sergej Djagilev, Vaclav Nižinskij e un più riluttante Claude Debussy. Miliani ibrida la tradizione dei Balletti russi con la storia, altrettanto sovversiva, del vogueing, nato a New York nei primi anni Sessanta, tra le comunità queer di afroamericani e latinoamericani, e divenuto negli anni Novanta un fenomeno globale. Mescolando tradizioni e storie lontane nel tempo, accomunate dalla volontà di infrangere codici estetici e sociali, l’artista pone al centro il corpo: un corpo liberato, che ci parla di autoaffermazione, riscatto e desiderio. Nei suoi lavori, come in quelli di Giambrone e Rosi, la necessità di partire dal corpo, di inscrivere sulla pelle il gesto artistico, va di pari passo con l’urgenza di incidere sul sociale, ricollegandosi a un tessuto di esperienze collettive per uscire da una definizione del sé unidimensionale, incapace di accogliere la ricchezza delle differenze.


[1] R. Braidotti, Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze, a cura di A. Balzano, Meltemi, 2019.
[2] Ibid.
[3] Il corpo come linguaggio. (La “Body-art” e storie simili), a cura di L. Vergine, Prearo, 1974.
[4] Il progetto, promosso nel 2020 dalla Fondazione In Between Art Film, è stato curato da Leonardo Bigazzi, Alessandro Rabottini e Paola Ugolini.
[5] Si veda il report pubblicato il 24 novembre 2021 dall’ISTAT e dal Dipartimento delle Pari opportunità su L’effetto della pandemia sulla violenza di genere – Anni 2020-2021, <https://www.istat.it/it/archivio/263847> (5 ottobre 2022).
[6] L’azione è stata presentata il 12 luglio 2012 al MACRO Testaccio di Roma, in occasione della mostra Re-generation, a cura di Maria Alicata e Ilaria Gianni. Alla performance ha collaborato Francesco Nucci, medico e presidente della Fondazione VOLUME! di Roma.
[7] S. Rosi, intervistata da M. Zanchi e S. Benaglia, «ATPdiary», 1 luglio 2020, <http://atpdiary.com/new-photography-silvia-rosi/> (8 ottobre 2022).
[8] J. Miliani, intervistato da F. Angelucci, «Inside Art», 125, 18 settembre 2022, <https://insideart.eu/2022/09/18/la-discoteca-il-mondo-queer-visto-da-jacopo-miliani/> (10 ottobre 2022).
[9] L’opera è stata presentata alla David Roberts Art Foundation di Londra nel 2016, al Palais de Tokyo di Parigi nel 2017 e alle OGR di Torino nel 2021. Per un approfondimento sul lavoro di Miliani si veda T. Macrì, Slittamenti della performance. Volume 2. Anni 2000-2022, Postmedia Books, 2022, pp. 243-261.