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Popolare, perimetro di un aggettivo controverso

Un’alternativa culturale al populismo
Claire Fontaine, Untitled (votre famille), 2013, led lightbox with crystal digital vinyl print, 300×700×16 cm, photo James Thornhill, ©Studio Claire Fontaine, courtesy Claire Fontaine

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Un film del 1978 di Alberto Sordi, Le vacanze intelligenti (episodio del film collettivo Dove vai in vacanza? con la regia di Bolognini e Salce, oltre che del nostro), esemplifica bene il rapporto tra pubblico di massa e arte contemporanea: incomprensione reciproca. Remo e Augusta, romani veraci che hanno dedicato tutta la vita al lavoro, vengono costretti dai figli intellettuali a una vacanza educativa, e si trovano catapultati alla Biennale di Venezia del 1978, intitolata Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura.Girano smarriti tra padiglioni e sale in cui imperversano l’arte povera e concettuale, osservano con indifferenza il Muro di Mauro Staccioli e la natura morta di Gianni-Emilio Simonetti composta da foglie secche e drappi rossi, scambiano un’opera israeliana fatta di pecore viventi per una stalla, l’opera-ambiente di Richard Long diventa occasione per verificare le proprie capacità contabili, il calco di una ragazza nuda di John De Andrea è motivo di scandalo, le installazioni vengono prese per zone di sosta e sedie dove riposarsi, finché la moglie, generosa matrona, viene scambiata per un’opera vivente – probabile citazione della Seconda soluzione d’immortalità di Gino De Dominicis, esposta con grande scandalo alla Biennale del 1972 – con relativa proposta d’acquisto da parte di un collezionista. La vena ‘populista’ dell’effetto comico sta tutta nella riconferma del senso comune che vorrebbe l’arte ‘riconoscibile’ perché legata al principio mimetico, e quindi che arte è quella che non consiste nell’abilità ritrattistica o nelle marine kitsch che arredano le case della piccola e media borghesia? Al di là del sapore retrivo e della retorica rassicurante, il film rimanda alla rottura tra arte e masse, che si consuma definitivamente alla fine del XIX secolo, quando tramonta la funzione rappresentativa, e quello pittorico, per secoli il linguaggio popolare per eccellenza – basterebbe pensare al rapporto indissolubile con la catechesi cristiana, cattolica in particolare – diventa un linguaggio sempre più autoreferenziale e criptico, che non ‘rappresenta’, ma ‘reinventa’ il mondo a seconda della poetica dell’avanguardia di turno. E non va meglio con le neoavanguardie, che complicano ulteriormente le cose portando l’incomprensibilità dell’opera ai limiti della sua sparizione materiale. In fin dei conti, non era stato Theodor Adorno a insistere sul fatto che l’opera d’arte, per resistere al processo di colonizzazione totale messo in atto dal capitalismo mondiale, dovesse sottrarsi sempre più a qualsiasi processo di comprensione, per rimanere disturbante e riuscire a esprimere il negativo? Certo, Walter Benjamin già nel 1936 aveva indicato una strada alternativa che riconciliava il rapporto tra arte e masse, puntando tutto sull’espressione artistica del futuro, popolare, ‘scioccante’ e, finalmente, senza aura, il cinema. Benjamin, a differenza di Adorno, e come Siegfried Kracauer, ci invitava a superare la divisione tra high e low culture, e a indagare nelle pieghe di ciò che è popolare, perché proprio lì possono nascondersi i bagliori della rivolta. Più tardi, anche Michail Bachtin, ne L’opera di Rabelais e la cultura popolare, avrebbe recuperato la valenza rivoluzionaria del carnevale e della festa, del riso e di tutto ciò che accade dalla cintola in giù – pensiamo anche alla poesia maccheronica di Teofilo Folengo – così come Ernesto de Martino e la sua scuola, che avrebbero visto nella magia e nella cultura popolare un resto archeologico ma indispensabile per evitare le ‘crisi della presenza’ che continuavano, e avrebbero continuato, a investire gli esseri umani, catturati dallo spaesamento psichico e spaziale di una globalizzazione che procede secondo la logica dell’antropomorfosi del capitale (o della biopolitica). Per contraddire il buonsenso populista di Sordi – chissà che orticaria gli sarebbe venuta se avesse provato a leggere alcune pagine di Laborintus di Edoardo Sanguineti o di Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa ‒, e conciliare l’apparente alternativa tra le estetiche di Adorno e Benjamin, basterebbe ricordare l’avanguardia di massa individuata da Maurizio Calvesi e Umberto Eco nei movimenti giovanili del Settantasette, che operarono ‒ nelle radio e sui giornali, negli slogan e nelle forme di lotta politica, nei cortei e nelle manifestazioni trasformate in grandi performance ‒, una riappropriazione collettiva e popolare dei linguaggi più arditi ed elitari delle prime avanguardie novecentesche. Se l’Estate romana di Renato Nicolini provò a mantenere viva nel tempo questa energia (e forse ancora troppo poco si è riflettuto sulla funzione strategica della manifestazione da lui ideata), nel passaggio agli anni Ottanta l’effimero si trasformò ben presto in quel ‘rampantismo’ della Milano da bere che vide l’arte abbandonare le strade e le piazze e rifugiarsi nuovamente nelle gallerie, che offrivano party più o meno esclusivi per i nuovi collezionisti. Il popolare è stato dunque irrimediabilmente trasformato in populista, perdendo ogni valenza sovversiva, mentre la ricerca linguistica è tornata a essere un rompicapo per sparuti studenti impegnati a farsi strada nei diversi campi delle scienze oscure, e un piacere esclusivo per pochi tycoon in cerca di legittimazione culturale? Ennio, l’ultimo documentario di Giuseppe Tornatore su Ennio Morricone, ci restituisce la sofferta biografia di un artista che ha combattuto tutta la vita per conciliare musica dotta e popolare, andando incontro alle critiche dei suoi maestri e colleghi di conservatorio, che lo hanno considerato un traditore della purezza a cui doveva rimanere ancorata la ricerca, o peggio un ‘venduto’ al mercato, mentre il grande pubblico non lo ha subito compreso, risultando spesso troppo colto e sfuggendo alla banalizzazione della dimensione sonora mainstream e populista. In realtà Morricone, straordinario acrobata del difficile equilibrio tra avanguardia e popolare, è stato uno dei migliori esempi di quello che significa essere popolare senza rinunciare alla ricerca e senza mai scadere nel populismo, dimostrando che il cortocircuito tra ciò che si considera ‘alto’ e ciò che si considera ‘basso’ produce risultati sorprendenti, e che fuori dai ghetti esistono solo l’arte che diventa classica e un’altra che rimane mestiere, ai piani bassi o alti. E nelle arti visive, esiste un’arte che potremmo definire popolare, ma non populista? C’è qualcosa del genere, al di là della partecipazione all’evento artistico, alle inaugurazioni delle grandi kermesse internazionali, alle quali bisogna esserci per esistere? Ci sono esperienze che rompono le gabbie dei ghetti, rifugi spesso sicuri e sempre consolatori? Pensando al panorama italiano contemporaneo vengono in mente, in rapida successione, i lavori di Francesco Vezzoli sui miti della cultura popolare; l’artista-collettivo e ready made Claire Fontaine, con pratiche militanti che mettono al centro della scena le questioni del lavoro e dell’identità, delle migrazioni e delle merci; l’operazione di Giuseppe Tubi, che trasporta l’immaginario popolare in una dimensione digitale; l’esperienza della Scuola di Santa Rosa, fondata da Francesco Lauretta e Luigi Presicce, dove la pittura diventa momento di socialità; gli artisti che si sono mossi all’interno dell’area di ricerca denominata neorealismo visivo, con l’intenzione di riportare il loro lavoro nelle strade e nelle piazze; Giuseppe Stampone con il progetto Global Education e la ricerca di una didattica sperimentale. Sono questi alcuni esempi, tra i più significativi, di chi sceglie la strada particolarmente difficile che evita l’elitarismo più sterile e permette di tornare a essere popolari senza essere populisti.