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Come vivono gli artisti (italiani)? Lavoro da circa vent’anni nel settore dell’arte e questo è un problema annoso sul quale si tende spesso e volentieri a sorvolare. Vediamo gli artisti partecipare alla grande festa dell’arte, fatta di eventi, talk, manifestazioni, fiere, mostre, ma raramente ci chiediamo come funziona il tema della sostenibilità per coloro che decidono di percorrere questa carriera molto difficile e con momenti altalenanti.
Il problema della visibilità
Fermo restando che spesso sono gli stessi artisti a volere mantenere alcuni spazi franchi di sperimentazione offerti da mostre di ricerca, esperimenti critici, dimensioni non-profit e indipendenti, artist-run space, contributi volontari e donazioni professionali legati a buone cause, è poi presente una zona grigia, con un ampio margine di ambiguità che si estende tra poli e posizioni opposti. La questione della visibilità – essere in una grande mostra istituzionale, in un grande evento, progetto, in una grande collezione – si è mangiata per anni la necessità di una più sana regolamentazione della relazione tra le varie parti che compongono la struttura professionale del sistema dell’arte. Come in altri settori – le problematiche del sistema culturale sono solo una fetta di un fenomeno che ha carature ben più importanti – il banco è saltato. Le dinamiche professionali si sono fatte più complesse, la costruzione delle carriere è diventata molto più difficile, comportamenti sregolati a più livelli son finiti per costituire una norma, è mutata la percezione delle opere e di chi le fa da parte del pubblico esterno e il desiderio di dare all’arte un allure più glamour, oggi diremmo instagrammabile, ha finito per limitare ulteriormente lo spazio di manovra e di ricerca per gli artisti.
Giovanissimi o deceduti
Il problema della costruzione della carriera si muove come un pendolo tra due fasi della vita importantissime ma che vedono gli artisti o in una posizione di lancio, e quindi in cerca di esperienze, di occasioni, di promozione, o dopo la morte, con la possibilità di storicizzare, lavorare in maniera più articolata e complessa sull’intera opera dell’artista. I passaggi intermedi sono più complessi. L’ingresso nell’età matura; che, tuttavia, è anche la parte più interessante e quella su cui si gioca il futuro del nostro Paese nella storia dell’arte. Oltre che, naturalmente, il tema della questione economica. A quarant’anni le responsabilità e i problemi aumentano: la costruzione e il mantenimento di una famiglia, il complicarsi delle relazioni familiari, l’invecchiamento dei genitori, maternità e problemi a essa correlati, l’insorgere delle malattie: tutte cose che richiedono se non una stabilità economica quanto meno una copertura, argomenti che sembrano incredibilmente svanire dalla narrazione quotidiana che il sistema dell’arte fa di sé stesso e dei suoi artisti, in una logica di rimozione, nonostante negli ultimi anni una pandemia globale abbia totalmente spaginato gli assi cardinali delle nostre certezze, cambiando visibilmente gli scenari, il senso della vita e dei rapporti umani, e anche la nostra agenda. Le manifestazioni artistiche, anche quelle di mercato, vengono ad esempio compresse – è innegabile – in alcuni mesi dell’anno; sono nate nuove occasioni di incontro all’aperto, sono diminuiti i viaggi e gli spostamenti di cose e persone, non solo in un’ottica ambientale, ma anche di ottimizzazione, sono aumentate le call, molti progetti e bandi con una apertura all’internazionalità hanno dovuto almeno per le ultime edizioni riconfigurarsi. Gli artisti italiani sono tornati nei musei italiani in maniera sostanziale, con una presenza maggiore rispetto al mondo pre-pandemico, facendoci scoprire finalmente che l’Italia ha una solida generazione di trenta-quarantenni che hanno elaborato delle forme adulte e aggiornate di interpretazione del presente.
Riferimenti e questioni generazionali
Come già discusso in un articolo a mia firma pubblicato il 2 luglio del 2020 dal giornale «Artribune» in risposta a Gian Maria Tosatti, ci sono anche delle responsabilità che l’intero sistema dell’arte condivide con gli artisti. Uno degli errori della generazione dei trenta quasi quarantenni è stato quello di viaggiare sempre da soli. Quando ho avuto l’occasione di ascoltare conferenze, testimonianze, di intervistare o semplicemente incontrare i protagonisti, per esempio, del movimento dell’arte povera, sono rimasta colpita dallo spirito di fraternità e coesione che li animava, anche laddove spesso c’erano stati dissapori che la storia dell’arte ha tramandato, anche dopo la morte dell’uno o dell’altro. Senso di unione che affratellava artisti, critici, galleristi, tutti. Con questo non voglio dire che non ebbero scontri, né discussioni, né ancora problemi per denaro o altre delle cose che fanno litigare la gente. Ma c’era qualcosa di forte che li univa. E che ha superato qualsiasi evento. Non ho visto questo nella nostra generazione. Possiamo dire che i nostri ‘padri’ hanno adottato l’antico metodo del divide et impera? Possiamo dirlo. Ma un certo grado di complicità da parte nostra c’è senz’altro stato. Troppa protezione genera solitudini, cinismo, diffidenza: ad alcuni sembra ‘resistenza’, ma assomiglia di più ad assuefazione e rassegnazione. I riferimenti – la generazione appunto degli artisti dell’arte povera, continuando con l’esempio – sono stati maestri, ma anche genitori ingombranti. La nostra generazione si è beata della loro aurea e del loro insegnamento, ma allo stesso tempo ha preteso poco per sé. Fino a doversi confrontare con le inevitabili difficoltà del presente.
Le ricerche sul tema
Il rapporto redatto da AWI – Art Workers Italia con ACTA – L’associazione dei freelance, offre uno scenario complesso attraverso 440 interviste, con un campione composto da lavoratori nati tra gli anni Ottanta e Novanta, composto al 60,5% da donne, al 31,5% da uomini, e da un 8% che non ha risposto o non si riconosce in divisioni binarie, residenti tra nord, centro e sud Italia. Il quadro che emerge è quello di una generazione con una formazione di alto livello, tuttavia, si legge, «nella maggior parte dei casi, dispone di contratti instabili e quindi di poche o scarse tutele, oltre che di redditi non proporzionati alle competenze richieste e spesso totalmente inadeguati a garantire la sussistenza. Per questo la grande maggioranza (81%) è costretta a svolgere più lavori, sia nell’arte contemporanea che in altri ambiti». Un canovaccio, quello dell’arte, non troppo dissimile se leggiamo i dati appena pubblicati da Mirco Di Sandro e Antonio Sanguinetti nella loro inchiesta sui lavoratori dello spettacolo, promossa da CLAP – Camere del lavoro autonomo e precario, con RISP – Rete intersindacale professionist* dello spettacolo e ASR – Autorganizzat* dello spettacolo di Roma, andandosi a concentrare su un campione che riguarda maggiormente i lavoratori della generazione tra i 36 e i 45 anni (33,4%) e di quella immediatamente inferiore, tra i 26 e i 35 anni, e riferendosi al 2021.
Io sono cultura, Il rapporto Symbola e Unioncamere presentato nel 2021, ma relativo al 2020 e all’intero sistema della produzione culturale, racconta gli effetti della pandemia che hanno investito l’intera filiera, «con una riduzione della produzione di ricchezza del -8,1% e un’occupazione del -3,5%. Una crisi generalizzata ha interessato le attività di valorizzazione del patrimonio storico e artistico e dello spettacolo: il primo, ha registrato una contrazione del -19,0% relativamente alla ricchezza prodotta e del -11,2% in termini occupazionali; peggio ancora per le performing arts, scese rispettivamente del -26,3% e del -11,9%», come ha scritto Giulia Ronchi nel suo report su «Artribune».
La situazione è dunque complessa, aggravata dagli effetti della pandemia, e si ripercuote a cascata su tutti gli ingranaggi del sistema, andando a colpire con maggiori effetti coloro che fanno muovere l’intero meccanismo, ma che allo stesso tempo ne sono incredibilmente la parte più debole: gli artisti.
Il futuro dopo la pandemia
Molto è stato fatto, molto si deve ancora fare. Il mercato, svigorito dagli effetti della pandemia, dalla diminuzione di occasioni dedicate, dalla prudenza di chi sta guardando in maniera cauta ai prossimi anni, dalla riduzione dei confini e dai cambiamenti già in essere nel contesto internazionale prima del COVID, non può da solo offrire risposte nell’immediato. Alle istituzioni è richiesto un ruolo ancor più di primo piano a fianco e supporto degli artisti. Ovviamente le occasioni non mancano (Movin’ Up, ad esempio, o alcuni progetti promossi dal MiC, da Italian Council a Grand Tour d’Italie), ma l’auspicio è che le occasioni si intensifichino con l’intessere più concreto di un sistema di relazioni tra pubblico e privato, la costruzione di grant, borse di studio, sistemi previdenziali, come avviene già in altri luoghi nel mondo. E ancora, piattaforme di lancio che promuovano maggiormente i nostri artisti nel mondo e bandi più semplificati che diano possibilità di produrre o acquistare nuove opere, e garantiscano il riconoscimento all’ideazione, al mestiere e alla professionalità di chi ci ha lavorato. Gli artisti hanno già le idee molto chiare. Basta solo ascoltarli.
Questo articolo offre una anticipazione del saggio Come vivono gli artisti? che uscirà la prossima estate per i tipi di Castelvecchi Editore, nell’ambito della collana Fuoriuscita, a cura di Christian Caliandro. Il libro è stato scritto dopo una indagine condotta intervistando oltre 30 artiste e artisti italiani, provenienti da più generazioni, ma con un focus maggiore sui nati tra gli anni Settanta e Ottanta.