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Pietre di paragone
Il modello di «Teatro e Storia»

Franco Ruffini, Ferdinando Taviani, Mirella Schino, Nicola Savarese sistemano un regalo per il trentesimo compleanno dell’Odin Teatret, Holstebro, 1994, Foto Roberta Carreri

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Quella che sto per raccontare è una storia sul teatro e i suoi studi, ma anche interessante in sé, che riguarda le fondamenta della memoria: il rapporto, molto diverso dal consueto, che diversi anni fa si creò tra un gruppo particolare di studiosi e alcuni particolari teatranti. Tra studi e pratiche. Ma è una vicenda che deve essere raccontata a partire dalla esperienza pregressa, anch’essa anomala, di questi studiosi.

Allievi di Giovanni Macchia, illustre francesista innamorato del teatro, la maggior parte di loro cementò il rapporto reciproco tramite la partecipazione a un ambizioso progetto ideato da Ferruccio Marotti: una vasta ricognizione documentaria del teatro in molti volumi, per Il Saggiatore, che non vide mai la luce. Si trattava di un gruppo relativamente ampio, all’interno del quale c’erano anche Nicola Savarese e Clelia Falletti, ma qui, anche per motivi di spazio, parlerò solo di alcuni: Fabrizio Cruciani, Franco Ruffini (un fisico passato agli studi teatrali), Ferdinando Taviani, un gruppo nel gruppo e, anche, la sua parte più influente. Proprio la varietà di un ambiente coeso, formato però da personalità molto diverse, è stata essenziale.

Il lavoro da fare insieme creò infatti una relazione inconsueta nell’umanistica: abitudine a reciproca lettura, discussione, scambio di idee all’interno di uno spazio fisico comune, in cui lavoravano tutti quotidianamente. Condivisero anche una visione combattiva degli studi sullo spettacolo, che riportò al loro fianco Claudio Meldolesi, anche lui allievo di Macchia, assente dal progetto del Saggiatore. Meldolesi si era diplomato come attore all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, era impegnato in una intensa attività politica con gruppi di estrema sinistra e in una riflessione battagliera sull’arte e la figura dell’attore. Tutti e quattro sono diventati gli studiosi probabilmente più eminenti della loro generazione. Vorrei evitare mitizzazioni, ma sono state persone fuori dal comune (parlo al passato: Cruciani, Meldolesi, Taviani sono morti, tutti e tre prematuramente). Gruppo eccellente, e gruppo di pari, hanno costituito un fenomeno raro, di grande impatto, e temuto.

La svolta nell’ambito del teatro pratico era avvenuta quando, neppure trentenni, all’inizio degli anni Settanta, Cruciani, Ruffini e Taviani avevano conosciuto a Roma, sempre attraverso Marotti, l’allora giovanissimo Odin Teatret – un teatro danese, di anomala avanguardia, diretto da un italiano, Eugenio Barba, a sua volta allievo del grande regista polacco Jerzy Grotowski. A differenza di tanti, non furono colpiti da novità estetiche o tecniche, ma da altro: un modo di fare teatro diverso; in gruppo, per esempio; con un’attività complessa, non solo indirizzata al far spettacolo; con un percorso di formazione degli attori differente; con un tipo di impegno di tutti differente; una relazione con il pubblico particolare. Da questo modo di guardare, che si concentrava su aspetti per altri osservatori secondari, è nata una forma paritaria di collaborazione.

Nel Settantaquattro, l’Odin, come altri teatri e teatranti innovatori, decise di spostarsi per un lungo periodo in luoghi lontani dal teatro. Si recò per una permanenza di mesi in un Salento oggi inimmaginabile – donne vestite di nero, povertà, solitudine. Taviani e qualcun altro – Savarese, per esempio – condivisero la permanenza e i suoi problemi. Taviani entrò a far parte dell’Odin, come consigliere letterario: non un collaboratore, ma un membro del gruppo, con una conoscenza dall’interno, in dettaglio, della vita, dei piccoli e grandi problemi. E dell’arte, naturalmente.

Il rapporto con l’Odin – già famoso, e presto famosissimo – è però forse la parte meno interessante della storia dei quattro, o del più vasto gruppo di studiosi che si era raccolto per il progetto del Saggiatore. Tuttavia è stato un rapporto catalizzante, e anche per questo è necessario dargli spazio. Più importante ancora, però, è stata la relazione con gruppi teatrali di diversa età e stile. Verso la metà degli anni Settanta era cominciato, infatti, un periodo davvero peculiare, non solo europeo, ma mondiale: la crescita improvvisa di innumerevoli giovani e giovanissimi gruppi teatrali (non compagnie, ma gruppi, cioè persone che si riunivano per una lunga durata e non per un solo spettacolo). Molti di essi nacquero e morirono in pochi mesi, ma nel loro insieme costituirono un caso impressionante, in particolare nell’Italia lacerata dalle bombe di destra e dal terrorismo di sinistra. Cruciani, Meldolesi, Ruffini, Taviani seguirono da vicino questo fenomeno, in cui si intrecciavano tendenze molto diverse e, da studiosi, ne fecero parte. Savarese fondò un suo gruppo e fu anche attore. «Attraverso l’Odin – scrisse Meldolesi, che pure è stato, tra loro, il meno direttamente legato al gruppo danese – abbiamo capito la possibilità di farci fratelli dei teatranti». Non erano, dunque, semplicemente osservatori partecipanti, ma persone coinvolte, senza confusione di ruolo, però in modo profondo. È una differenza enorme, non sempre compresa. Specie per alcuni di loro, il primo nucleo di interesse era stranamente umano e diventava poi lavorativo. Soprattutto Taviani e Cruciani, se hanno dato consigli lo hanno fatto allo stesso modo per spettacoli, strategie politiche, e per quei problemi di quotidianità che sempre travagliano i gruppi teatrali. Consigli di amici, non di padrini, sebbene la parola amicizia può far nascere immagini sbagliate. Erano studiosi (grandi studiosi) e si proponevano ai gruppi in quanto tali, rispettando la specificità dell’essere artista e mai fingendosi tali.

Il loro coinvolgimento non si è limitato all’esplosione degli anni Settanta, è continuato per tutto l’arco delle loro vite.

Qui ho parlato del rapporto con i gruppi, per brevità e anche perché particolarmente vistoso, ma per Taviani, e soprattutto Meldolesi, furono altrettanto forti i rapporti con artisti diversi, in cui possono però ritrovarsi stesse modalità e sensibilità. Non si sono mai posti il problema di formalizzare un modo di essere nei confronti del teatro vivente, che è stato rivoluzionario – lo è ancora – e completamente estraneo a qualsiasi logica corrente.

Cercherò di sintetizzarlo con tre parole chiave (tre più una, in realtà) e qualche esempio.

Le parole sono: partecipazione, sperimentazione, testimonianza. Partecipazione: ne ho in parte già parlato. Seguire l’Odin in Salento all’inizio degli anni Settanta non voleva dire partecipare a una tournée interessante, ma lavorare duramente, senza alcun tornaconto personale, anzi, in mezzo a difficoltà di ogni tipo, anche logistiche, per osservare un gruppo teatrale celebre per perfezione tecnica riciclarsi come gruppo di approssimativi clown, in selvagge parate di strada per un pubblico di contadini. Secondo alcuni era una piccola rivoluzione, per altri un tradimento d’arte. Negli anni successivi ci furono, talvolta organizzati dall’Odin, talvolta da altri, grandi incontri di teatro in cui attori – o giovanissimi aspiranti tali – si iniziavano all’uso dei trampoli e a rudimenti del training, scambiavano le loro scarse competenze, lavoravano dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Creavano grandi eventi comuni nelle strade. Il gruppo degli studiosi seguiva e partecipava. Ho visto – ero una studentessa, lui il mio temuto professore, perciò mi colpì molto – Taviani fare l’uomo-sandwich con un cartello di annunci sugli eventi del giorno. Un altro aspetto importante è stata la presenza costante, definibile solo come militante, ad alcuni specifici festival, nel corso della quale sono state spesso da loro tentate forme nuove di conferenze indirizzate a spettatori e a teatranti (penso soprattutto a Ruffini) o modi diversi di interrogare, anatomizzare e presentare gruppi teatrali (ricordo l’attività in questo senso di Cruciani al festival di Santarcangelo).

La seconda parola è anticipata dal ricordo di queste attività: sperimentazione. Per esemplificarla esco dal giro di Barba, dell’Odin, dei gruppi teatrali, più appariscente ma non esclusivo, per parlare di una ricerca di Meldolesi con uno splendido attore napoletano, Renato Carpentieri: ricerca congiunta, attoriale e di studio, sui grandi attori italiani della seconda metà dell’Ottocento. Era il 1983. Meldolesi aveva pubblicato nel 1971 un libro importante su Gustavo Modena, grande attore e rivoluzionario. Forse era il secondo aspetto quello che più aveva interessato Meldolesi. I risultati della sperimentazione degli anni Ottanta furono uno spettacolo, con Carpentieri attore e Meldolesi drammaturgo, conferenze, incontri, dibattiti. Per Carpentieri una piccola svolta di vita. Per Meldolesi un modo diverso di pensare a Gustavo Modena e al periodo teatrale del ‘grande attore’ (espressione che si riferisce al teatro italiano della seconda metà dell’Ottocento, n.d.r.). Perché c’è un’altra parola fondamentale, ricaduta: la ricaduta negli studi di queste esperienze di partecipazione e sperimentazione. La lunga consuetudine con la vita di alcuni gruppi fu la leva che permise a Taviani di rovesciare il modo solito di guardare alla Commedia dell’arte, il suo principale campo di studio. Lo spinse a cercare modi di vita e di produzione, e ad approfondire alcune tecniche; a indagare sui motivi per cui intellettuali, borghesi, popolani, ragazze allevate al mestiere di cortigiana, avessero preferito riunirsi insieme in ‘fraternal compagnie’ e girare il mondo recitando in maschera: per fuggire tempi bui, guerre, destini di vita segnati. La conoscenza dall’interno della vita di compagnie che si riuniscono per lunga durata è più utile, per capire il teatro del passato, e forse anche quello del presente, della visione di una gran quantità di spettacoli. Qualità di rapporto più che quantità di conoscenze: una delle indicazioni più importanti che ci viene da loro.

La sperimentazione, d’altra parte, significò mettersi a rischio, non temere di compromettersi con teatranti sconosciuti o poco accetti, di cimentarsi in attività parallele agli studi. Significò sviluppare i muscoli del coraggio. Tutti e quattro, in modo esplicito o solo attraverso consigli, hanno lavorato con teatri più o meno giovani dal punto di vista della drammaturgia, una attività ben lontana da quelle ordinarie e accettate in uno studioso, da cui ci si aspetta che si occupi del passato e che osservi, analizzi, giudichi, etichetti e sistematizzi il presente, non che si faccia coinvolgere fino alla passione. Quando hanno scritto in termini generali, o hanno analizzato fenomeni nascenti (Meldolesi, per esempio, è stato uno dei primi a occuparsi di quello che oggi viene chiamato teatro sociale; Taviani ha scritto forse il primo articolo importante su Armando Punzo e la ora celebre Compagnia della Fortezza; Cruciani ha pubblicato un libro, insieme a Clelia Falletti, sul teatro di strada; Ruffini ha scritto sulla particolarissima ‘scuola’ di teatro inventata da Barba), lo hanno sempre fatto dal di dentro. Né direttori, né giudici o critici. Quello che gli interessava non era dare nomi, catalogazioni, gerarchie. Mi viene da dire che li attraeva la vita pura, in sé, del teatro.

E qui arrivo all’ultima parola, testimonianza. Avrebbe dovuto essere il centro di questo breve intervento, ma non sarebbe stato comprensibile senza il resto. Da un simile rapporto con persone di teatro, così intimo e politico, sono nate testimonianze dall’interno. Scritti pugnaci. Una riflessione anche teorica, perfino filosofica – un interesse distintivo e costante – sulla questione ‘attore’. Partecipazioni combattive a convegni e tavole rotonde. Sono stati pubblicati articoli e libri, e potrei fare parecchi esempi. Alcuni su situazioni, teatri, persone, che altrimenti sarebbero spariti senza traccia. Si è generata e sviluppata in modo diverso quella che nel teatro è la cosa più importante: la memoria. Però la cosa veramente unica è l’intreccio, l’impossibilità di distinguere tra i libri che raccolgono polemiche, recensioni o racconti, e i libri ‘di studio’: in questa fraterna vicinanza è fiorito un modo inconsueto di guardare al passato, che diventava di per sé testimonianza del presente.

Nel 1986 hanno fondato una rivista importante, «Teatro e Storia», la cui redazione è adesso arrivata alla terza generazione. Molti aspetti del modo di lavorare della prima generazione sono irripetibili. Molti erano personali. Alcuni sono rimasti: non modelli, ma pietre di paragone per le generazioni successive, in particolare per quel che riguarda il tipo di rapporto tra studi e teatro vivente. In quanto modello è irripetibile, per la rara qualità umana e intellettuale dei quattro, come per i tempi in cui hanno vissuto, tanto diversi dai nostri. Ma abbiamo ereditato qualcosa. Se vogliamo, soprattutto un memento scomodo, un modo di riflettere, e forse una sensibilità.