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Non per i titoli, ma per passione
L’accademia di belle arti come passaggio

FUORICLASSE. 20 anni di arte italiana nei corsi di Alberto Garutti, a cura di Luca Cerizza, Milano, GAM – Galleria d’Arte Moderna, 6 ottobre – 9 dicembre 2012. Al centro, Lara Favaretto, Untitled, 2011, foto Delfino Sisto Legnani – DSL Studio / Tag IG: @delfino_sl – @dsl__studio

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«Saper essere e restare scolari non è poco, è già quasi essere maestri»
Claudio Magris

«Non esiste il problema dei giovani artisti, perché se uno è un grande artista lo è anche a dodici anni», ha detto Jannis Kounellis, per poi proseguire «La giovinezza è una grazia straordinaria, se tu incontri un giovane con quello status, bisogna amarlo con tutto il cuore, non bisogna aspettare».

Penso che chiunque insegni in una accademia dovrebbe sempre ricordare queste parole, perché se pensiamo che dalle accademie dovrebbero uscire artisti, sarebbe necessario accoglierli già come tali. Non è un problema facile quello della formazione e della validità delle istituzioni a questa preposte, in particolare le accademie di belle arti. Hanno fatto il loro tempo; sono assolutamente necessarie, condizione imprescindibile di un percorso; la loro struttura è adeguata ad affrontare i tempi, magari con qualche parziale modifica o vanno completamente rifondate? Diciamo subito che non è strettamente necessario seguire un corso di studi di questo tipo per fare l’artista, pensiamo per esempio a Stefano Arienti, uno dei migliori artisti della sua generazione, che ha studiato agraria, e ai tanti artisti autodidatti. Mi è dunque stato affidato un compito molto difficile. Mi scuso, quindi, se questo testo sarà, in larga parte, autobiografico, ma l’esperienza fatta nei miei trent’anni e più da docente all’Accademia di Belle Arti di Brera è l’unica bussola che posso usare per navigare attraverso un argomento tanto complesso. Sono approdata a Brera nel dicembre 1992 come titolare della cattedra in Storia dell’arte dopo un concorso nazionale per titoli, esami scritti e orali. Per me è sempre stata importante la collaborazione con i colleghi, e in accademia era presente un folto gruppo di storici dell’arte. Faccio riferimento, in particolare, al lavoro svolto in sinergia e sintonia con Albero Garutti e Giacinto Di Pietrantonio. Giacinto l’ho avuto come assistente, l’assistente ‘di lusso’ lo chiamavo io. Per felice coincidenza Alberto Garutti, che conoscevo e seguivo dal 1979, era tornato dal suo ‘esilio’ bolognese nel 1994. Brera era la migliore delle accademie italiane e tra le migliori in Europa: spiccavano Luciano Fabro, una vera bandiera (suoi allievi sono stati Liliana Moro, Mario Airò, per arrivare a Gianni Caravaggio), Jole De Sanna, Francesco Leonetti. E Milano era una città fortemente attrattiva: c’era «Flash Art» dove si formavano intere generazioni di critici, spazi no profit come Viafarini e Care of, giovani galleristi come Claudio Guenzani, Giò Marconi, Massimo De Carlo, Pasquale Leccese e, subito dopo, Emi Fontana, in uno stabile occupato Fac-simile, lo spazio aperto dall’artista Horatio Goni; c’erano collezionisti come Paolo Consolandi e Riccardo Tettamanti. Certo è che a Brera, intorno alla metà degli anni Novanta, stava per accadere qualcosa. Dopo aver visto i disegni e il suo ‘diario alimentare’, Giacinto e io invitammo Vanessa Beecroft, che studiava scenografia, a Salon (1993), la mostra annuale degli studenti: fu la sua performance numero zero. Condividemmo subito un metodo di lavoro basato sul contatto diretto con l’opera e l’artista. Ne invitammo moltissimi: Carla Accardi, Nan Goldin, William Kentridge, Ettore Spalletti, Enzo Cucchi, Martin Creed, Lawrence Weiner, Michelangelo Pistoletto, Luigi Ontani, Jan Fabre, Fabio Mauri, Malcom Morley, per citarne alcuni. La presenza di ospiti era fondamentale; Mimmo Rotella, per esempio fece nella mia aula l’ultima declamazione dei suoi versi epistaltici.

Ma accadde anche un fatto veramente speciale: quando Garutti tornò a Milano, un gruppo di studenti da Bologna lo seguì e, alcuni di loro, nel 1996 presero insieme una casa in via Fiuggi: Simone Berti, Giuseppe Gabellone, Stefania Galegati, Sara Ciracì, Diego Perrone, Deborah Ligorio, Gian Maria Marcaccini, Pietro Marchioni, Nada Cingolani. A questi nove si aggiunsero poi Lara Favaretto, Davide Bertocchi, Chyoko Miura, mentre altri andavano e venivano, come Marco Boggio Sella (quando la casa di via Fiuggi chiuse si crearono altre aggregazioni abitative con Perrone, Alessandro Ceresoli, Farid Rahimi, oppure con Gabellone, Favaretto, Ettore Favini; più avanti ci sarà via Poerio). Alcuni erano iscritti all’università, come Ciracì al DAMS, ma frequentavano il corso di Garutti, altri avevano già terminato gli studi, come Bertocchi e Cingolani, ma continuavano a seguire le lezioni. Era il primo nucleo di un’aggregazione che verrà segnalata da un critico acuto, Giorgio Verzotti (It’s Academic in «Art Forum», estate 1998; riguardo via Fiuggi, invece, uscìun articolo di Davide Bertocchi su «Flash Art»). Questa esperienza di vita in comune, fatta di scambi, di incontri e di scontri fu molto importante per i giovani artisti, ma è significativo il fatto che l’essere in gruppo si fosse limitato all’aspetto della convivenza, mentre massima era la libertà e divaricatissime le vie del loro lavoro. Nemmeno dieci anni prima, a Milano, era nato il gruppo di via Lazzaro Palazzi (fondato da allievi di Fabro come Moro e Airò, soprannominati da Amedeo Martegani i ‘fabrini’), ma se è interessante notare che ambedue i gruppi prendono il nome dalla toponomastica milanese, non avendo alcuna intenzione di fare riferimento a comuni poetiche o ideologie, ancor più significativo è il fatto che nel caso di Lazzaro Palazzi l’indirizzo fosse quello di uno spazio autogestito, sede di mostre e di una rivista, mentre via Fiuggi fosse semplicemente un alloggio che i giovani artisti divisero. Esperienza condivisa è la vita, non il lavoro.

Insomma, dell’accademia sono importanti tanto il dentro quanto il fuori.

Tra gli allievi di Garutti figurano Roberto Cuoghi e Paola Pivi. Poi Massimo Grimaldi, Patrick Tuttofuoco, Christian Frosi, Patrizio Di Massimo e Petrit Halilaj; più avanti ancora Beatrice Marchi, Davide Stucchi e i gruppi Armada, Gasconade, Lucie Fontaine. Come evidente, dalla scuola di Garutti è emersa buona parte della generazione che si è affermata anche a livello internazionale (basti pensare a Paola Pivi, Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1999, a Giuseppe Gabellone a Documenta di Kassel nel 2002, a Diego Perrone e a Petrit Halilaj alla Biennale di Berlino).

Si moltiplicavano, altresì, iniziative per i giovani artisti, precedentemente assenti in Italia, come la borsa di studio per il MoMA PS1 attiva per sei edizioni tra il 1998 e il 2003, le cui giurie furono presiedute da Michelangelo Pistoletto, Luigi Ontani e Alberto Garutti (chi scrive fece parte della prima giuria in carica per le prime due edizioni).

È importante sottolineare che il nostro rapporto con i giovani artisti non si limitava al tempo passato in accademia; gli studenti frequentavano lo studio di Garutti, venivano con Giacinto e con me alle mostre, alcuni di loro parteciparono a quelle curate da Garutti con Roberto Daolio e con Di Pietrantonio nello spazio di Viafarini e alle due edizioni di Fuori uso, dedicate ai giovanissimi, da me curate a Pescara, nel 1997 e 1998. Abbiamo sempre continuato a seguirli, con alcuni di loro lavoriamo ancora. Per me si è trattato di rapporti di vita importanti, come quelli con Lara Favaretto e con Paola Pivi, che è diventata un’amicizia grandissima. Spesso ci dicevano: «Come sono stati fortunati questi ragazzi ad avere voi come insegnanti!». Ho sempre risposto: «Come siamo stati fortunati noi ad avere come studenti questi artisti!».

In un’intervista a Diego Perrone, parzialmente pubblicata su «Tema celeste» scrivevo: «Alberto Garutti dice che Diego Perrone, considerato da noi uno dei nostri migliori allievi, non si era nemmeno iscritto… È una leggenda metropolitana?», e Diego rispondeva: «Io avevo trovato la formula: a metà dicembre mi ritiravo, così avevo la possibilità di reiscrivermi l’anno successivo, perché all’accademia si fa così, almeno per come la facevo io: non essendo un’istituzione che ti può dar molto dal punto di vista lavorativo, secondo me devi seguire le persone che ti piacciono, che ti entusiasmano, tipo Alberto, che ti prende per mano, tu sei giovane, sei anche un po’ spaventato dalle cose che vedi nei musei, Garutti ti fa toccare con mano, ti dice guarda che non morde, puoi farlo anche tu, magari…». Nei corsi di Garutti gli studenti erano trattati come artisti, presentavano il loro lavoro, lo spiegavano, discutevano quello degli altri. È importante il rapporto con il professore, ma anche quello tra gli studenti. Ricordo le critiche incalzanti di Lara Favaretto (ha continuato a venire in accademia, anche quando non era più iscritta, come molti non si è mai diplomata), erano quasi un incubo per gli altri studenti. Roberto Cuoghi era tecnico biologo, era iscritto alla Statale al corso per diventare terapista psichiatrico, e decise di fare un ultimo tentativo in accademia dopo aver incontrato Garutti per caso, mentre seguiva una suora: «Vengo in accademia perché so che ci sono le due settimane di presentazione dei corsi. Nel cortile incontro questa suora rumena, abbastanza giovane, vestita con uno strano abito blu elettrico. L’ho vista entrare nell’aula 1 e pensavo fosse una docente, strano, una suora in accademia, vado a sentire cosa dice, e come entro vedo Garutti che accarezza l’abito della suora, perché anche lui era stato colpito da questo abito, elogiava la passamaneria color oro, era veramente un bellissimo vestito. Poi ho sentito, più che altro ho visto, il personaggio, e ho deciso di abbandonare il corso di terapista psichiatrico». Ho sempre trovato questo passo, tratto da una mia intervista inedita all’artista, un bellissimo racconto.

Poi le cose si sono trasformate. Il numero degli artisti usciti da Brera si è un po’ ridotto, il mondo dell’arte è cambiato, si sono affermati altri poli, per alcuni è stato necessario andare fuori dall’Italia. Ma credo che a questo cambiamento, soprattutto, non sia stata estranea la riorganizzazione delle accademie sul modello dell’università (modello peraltro molto criticato anche da numerosi docenti universitari). Ho sempre creduto che l’accademia avesse una sua specificità e che questa andasse mantenuta il più possibile, pur nella sua doverosa equiparazione all’università (equiparazione che peraltro non è mai del tutto avvenuta). L’organizzazione in moduli e semestri e la spartizione in triennio per la laurea breve e biennio per la specializzazione (il cosiddetto 3+2) fanno sì che docenti di indirizzo e delle materie fondamentali, invece di seguire gli studenti per tutto l’anno e per quattro anni, li seguano metà anno, per due o tre anni. L’offerta formativa è aumentata ma l’insegnamento è più frammentato, i corsi somigliano più a seminari e molti punti di riferimento si perdono. Il nuovo ordinamento porta a una parcellizzazione della formazione che, a mio avviso, non ha mai del tutto funzionato. Ritengo che l’ordinamento precedente ottenesse risultati più efficaci e penso che sarebbe necessario restituire assiduità e continuità a docenti d’indirizzo e a materie fondamentali, aprendo, in parallelo a questi corsi, seminari, workshop, visiting professor. Temo non accadrà mai ma credo per l’accademia sarebbe un importante avanzamento. Un’organizzazione del lavoro meno rigida e uno snellimento burocratico permetterebbero un maggiore accesso nelle accademie italiane di artisti con un ricco bagaglio professionale. Ricordiamo Vedova, Fabro, Mauri (di quest’ultimo, in accademia a L’Aquila nascono tutte le performance), Kounellis e Pistoletto, che hanno insegnato in Germania e in Austria. Ma sarebbe interessante anche coinvolgere il più possibile i giovani in esperienze di insegnamento. A loro potrebbero essere affidati seminari e workshop. Bisogna considerare, inoltre, che nelle accademie è difficile che gli studenti abbiano voglia di arrivare al livello specialistico: molti iniziano precocemente un’attività artistica professionale e un buon numero dei nostri allievi, spesso proprio gli artisti migliori, non hanno mai concluso gli studi. Non è mai stato questo l’aspetto più importante, anche se ricordo le bellissime tesi di Stefania Galegati e Simone Berti.

Molto importante mi sembra, insomma, che gli studenti non siano considerati tali (e anche in questo testo i termini ‘studente’, ‘allievo’, ‘giovane artista’ sono stati usati per intendersi, per praticità), ma veri e propri artisti. Fondamentale è, soprattutto, tener sempre presente che il vero maestro è quello che forma allievi che potrebbero superarlo, non avendo paura di questo. Quando mi chiedono: «Ma come avete fatto ad avere studenti così?» io rispondo soltanto: «Gli abbiamo voluto bene», che non è una frase melensa, ma il mio modo di dire, con il mio linguaggio e il mio carattere, la stessa cosa che Alberto Garutti diceva con i suoi: «Nessuno può pensare che l’arte si possa insegnare». Per concludere, il vero segreto è svelato dal grande Salvatore Scarpitta, di cui si dice siano stati allievi molti artisti americani, da Joseph Kosuth a Lawrence Weiner e Julian Schnabel… Gli avevo chiesto: «Cosa consiglieresti oggi a un giovane artista?». Mi aveva risposto: «Là dove c’è un grande artista vai, e stai».