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Ci sono altri mondi, ma stanno in questo
La strada come centro d’azione sul futuro

Giuseppe Stampone, Global Education, 2017, lavagna, pittura acrilica, courtesy Gino Di Paolo

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«L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio»
Chico Mendes
Sindacalista, politico e ambientalista brasiliano

«Ci sono altri mondi, ma stanno in questo». L’artista spagnola Dora Garcia nella Golden Sentence Series del 2002 riprendeva le parole del poeta Paul Éluard, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista. L’anno precedente, lo slogan «Un altro mondo è possibile» veniva scandito nelle strade di Genova. Ripetuto da duecentomila persone provenienti da tutto il mondo durante le contestazioni per il G8, suggeriva un’alternativa al sistema economico dominante, immaginando un mondo più giusto e sostenibile. Le strade del capoluogo ligure nel luglio 2001 divennero teatro di rivendicazioni e scontri, spazio sospeso tra presente e futuro, possibilità e utopia, desiderio e frustrazione. A riflettere su quel teatro, nel 2013, fu Giorgio Andreotta Calò checonGenova Ventimiglia Genova percorse a piedi, insieme a un gruppo di dodici giovani artisti italiani e francesi del MaXter del Museo di Villa Croce, i duecento chilometri che separano Genova dal limite simbolico di Ventimiglia, con la volontà di costituire un ‘corpo sociale’ e un movimento, inteso sia come atto fisico che in senso ideologico e politico. Al ritorno, il gruppo attraversò il capoluogo ligure nella notte dell’anniversario del G8, ripetendo i percorsi delle manifestazioni del luglio 2001. All’inizio del percorso, l’artista non dichiarò l’origine politica dell’azione, che emerse nel corso della camminata collettiva, lasciando così che ogni partecipante vivesse l’esperienza secondo il proprio punto di vista. Alla strada intesa come luogo di protesta per la costruzione del futuro, la giornalista canadese Naomi Klein dedica un intero capitolo in No Logo (1999). Nella sua visione, questa diventa pretesto per la conquista di uno spazio molto più vasto, che definisce come un «assaggio delle possibilità future». Contestualmente al periodo storico di dissenso verso l’ideologia capitalista, la strada viene dunque concepita come device per «visualizzare il crollo industriale», cioè per verificare in prima persona l’abominio del neoliberismo sfrenato, in un mondo divenuto sempre più iniquo, elitario e culturalmente appiattito. In questo modo essa diventa punto di partenza per occupare metaforicamente lo spazio globale, in un clima di assoluta coerenza e organicità delle istanze portate avanti dai movimenti. Anche l’arte, in questo senso, agisce nella strada intesa come luogo dove si costruisce il futuro. Grazie alla capacità di immaginare alternative all’esistente e alla sperimentazione libera che la connota, l’arte contribuisce a promuovere il cambiamento sociale. Se sono rari i casi in cui un’opera è capace, da sola, di aggregare e mobilitare direttamente grandi gruppi di persone, allo stesso tempo sono molti gli esempi di singoli progetti artistici in grado di agire in specifici contesti o nel solco di precise rivendicazioni. Da luoghi affermativi, la strada, la piazza, e in generale lo spazio pubblico, si sono trasformati in luoghi di contestazione così come di dialogo e discussione, contribuendo in tal modo a mutare la percezione e l’esperienza dello spazio urbano[1].

I giovani artisti dei primi anni del Duemila

Gli eventi di Genova 2001 hanno inciso sul lavoro di gran parte dei giovani artisti di allora. Negli anni, questi ultimi hanno esplorato le problematiche del presente, lo hanno interpretato, hanno immaginato scenari alternativi e nuove prospettive. Numerosi artisti nati tra i primi anni Settanta e Ottanta, come ad esempio Giuseppe Stampone, Gian Maria Tosatti, Alterazioni Video, Leone Contini, Marinella Senatore, Eugenio Tibaldi, Ettore Favini, Isabella e Tiziana Pers, Eva e Franco Mattes (AKA 0100101110101101.org), in modi e in merito a tematiche diverse, fanno dell’attenzione a questioni fondamentali per il futuro (come quelle di carattere ambientale, sociale e politico) il centro del proprio lavoro. Giuseppe Stampone, Gian Maria Tosatti e Marinella Senatore, in particolare, combinano le pratiche artistiche a metodi propri della sociologia e dell’antropologia, arrivando anche a coinvolgere attivamente migliaia di persone. Giuseppe Stampone (Cluses, 1974) con Solstizio Project, fondato nel 2008 insieme a Maria Crispal e sviluppato in diversi Paesi, porta avanti azioni artistiche che sono al tempo stesso metodi didattici fondati sulla creatività, collaborando con artisti, architetti, sociologi, pedagoghi, antropologi e operatori sociali, tra cui il noto massmediologo Derrick de Kerckhove. Fa parte di Solstizio Project, il progetto più conosciuto di Stampone, Global Education, avviato nel 2004 con specifiche comunità, che comprende i suoi noti abbecedari e mappe, spazi di riflessione e proposte educative ed estetiche che germinano dall’analisi dei luoghi in cui esso opera, con l’intenzione di proporre alternative al modello educativo corrente. Meno noto ma molto pervasivo è stato anche l’ampio progetto We Are the Planet! Acquerelli per non sprecare la vita (2006-2012), pensato per rafforzare la consapevolezza comune e mobilitare le nuove generazioni rispetto all’economia sostenibile, il diritto all’acqua potabile, la tutela della biodiversità e la lotta alla deforestazione, temi contenuti nel 7° Millennium Development Goal delle Nazioni Unite. Il progetto è stato realizzato per la prima volta nel 2006 in provincia di Teramo e ha coinvolto ottanta istituti scolastici di quaranta comuni e diecimila studenti, arrivando a istituire partnership con Paesi come la Polonia e la Croazia. Grazie a un finanziamento ottenuto nell’ambito del programma comunitario EuropeAid, in collaborazione con la ONG ProgettoMondo MLAL, ha ideato e sviluppato attività artistiche anche in Burkina Faso e Benin.

Nasce da uno studio diretto dei territori il lavoro di Gian Maria Tosatti(Roma, 1980), che si cala nei contesti, tra gli abitanti, con l’intenzione di captarne l’essenza per tracciarne un ritratto. Con le sue installazioni, che interessano interi edifici o aree urbane, indaga il concetto di identità dal punto di vista politico e spirituale. Il progetto Sette stagioni dello spirito (2013-2016), realizzato a Napoli come una ‘grande sinfonia’ o un ‘romanzo visivo’, ha coinvolto l’intera città registrando venticinquemila partecipanti in tre anni. Partendo dal libro Il castello interiore, scritto da Teresa d’Avila nel 1577, Tosatti ha realizzato un percorso per immagini incentrato sulla questione dello spazio d’uso comune nella città contemporanea, intervenendo in sette grandi edifici storici e monumentali di Napoli, identitari per la città, ma che versavano in stato di abbandono e degrado. Il recupero, la ristrutturazione e la restituzione alla comunità dei sette spazi mediante la creazione condivisa di altrettante opere, ha condotto a una grande operazione urbanistica che ha visto nell’intervento artistico un metodo per ‘mettersi al servizio di’. Il percorso costruito da Tosatti attraverso le installazioni ambientali site-specific è arrivato infatti a coinvolgere non solo le architetture interessate dagli interventi, ma anche le strade, animando interi quartieri.

Azioni molto diverse sono quelle realizzate da Marinella Senatore (Cava de’ Tirreni, 1977), volte a unire forme di resistenza e cultura popolare, danza, musica ed eventi di massa. I suoi progetti si strutturano come archivi di narrazioni condivise e riescono a coinvolgere intere comunità intorno a tematiche sociali quali l’uguaglianza e l’emancipazione femminile, le condizioni lavorative e i sistemi di aggregazione. La formalizzazione dei suoi progetti si rifà alla cultura popolare, facendo proprie l’estetica e la dimensione partecipativa delle processioni e delle feste di paese. Con The School of Narrative Dance (dal 2013), una scuola multidisciplinare, nomade e gratuita, realizzata in ventitré Paesi, Senatore ha finora coinvolto circa sei milioni di persone tra attivisti, danzatori, coreografi, attori, poeti, studenti, artigiani, pensionati e politici che condividono i propri saperi in maniera orizzontale. Il metodo didattico, basato sull’emancipazione, l’inclusione e l’autoformazione, dà vita a una creazione collettiva che si formalizza in primo luogo in performance pubbliche.

I nativi digitali

In questi ultimi vent’anni, temi come il cambiamento climatico, le città sostenibili, lo sfruttamento dei lavoratori, delle minoranze, delle donne, degli animali e delle risorse sono diventati tanto urgenti da figurare, a partire dal 2015, tra i Sustainable Development Goals dell’Agenda ONU 2030, approvata dalle Nazioni Unite e sottoscritta da 193 paesi. L’aumento delle disuguaglianze e l’aggravarsi della crisi climatica indicano che il sistema va cambiato: «Un altro mondo è necessario» è il motto del presente. Il moltiplicarsi di mobilitazioni popolari contro i diversi stati di sfruttamento, i nuovi movimenti a difesa delle minoranze razziali o della comunità LGBT, della parità di genere, il movimento animalista ed ecologista ribadiscono questa necessità. Ma proprio in Italia, gli eventi di Genova 2001 hanno costituito un punto di non ritorno, una sorta di cesura. Si è aperta una ferita mai più rimarginatasi, causata della forza repressiva messa in atto in nome della pubblica sicurezza: «Quel rovesciamento momentaneo dei codici democratici ha modificato per sempre il rapporto degli italiani con la vita politica e l’impegno sociale», scriveva nel 2013 Lucie Geffroy su «Le Monde». Poco è stato fatto per far sì che la memoria di quelle rivendicazioni diventasse ingranaggio collettivo, punto di partenza per nuove utopie; è tuttavia innegabile che, con il tempo, quella stessa memoria si sia trasformata in una sorta di sensibilità collettiva. Esemplificativo in tal senso è il contributo di artisti, cosiddetti nativi digitali, in grado di suggerire radicali cambi di prospettiva proprio a partire dalla strada e dall’occupazione dello spazio pubblico.

Spesso si tratta di esperienze sviluppatesi a partire dalla coscienza politica del singolo e poi configuratesi in forma di attivismo. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di lavori performativi che lasciano tracce visive nello spazio, la cui documentazione ricopre un ruolo centrale. È il caso della pratica ‘politica e poetica’ di Raffaele Cirianni(Torino, 1994) volta a indagare la dimensione umana e sociale del luogo e ad avviare un processo di formalizzazione che si pone a stretto contatto con la dimensione locale e le sue sottoculture. Esemplificativa la performance Viva l’anarchia addio a mia madre, il cui titolo è un tributo alle ultime parole dell’anarchico Nicola Sacco e un chiaro riferimento all’immaginario antagonista, con i suoi codici visivi e culturali. Azioni collettive in nome della rivendicazione e occupazione dello spazio pubblico, inteso come luogo e campo di azione sociale e civile, sono inoltre portate avanti dal collettivo Guerrilla Spam(fondato nel 2010). L’invito, ben sintetizzato nella serie di lavori Prendere una posizione,è infatti a compiere un gesto non solo fisico, ma anche mentale, contro l’ideologia dominante.

Le pratiche finora analizzate si espandono fino a toccare il rapporto complesso che intercorre tra spazio urbano e mondo vegetale, quindi tra cultura e natura. È il caso, per esempio, di Erbario urbano di Simone Scardino(Torino, 1995): una mappatura e una raccolta analitica di circa cento specie vegetali diverse che si fanno spazio tra le crepe della città. Una ricerca, promossa da Progetto Diogene, che parte proprio dalla strada e dalla comunità per analizzare il complesso rapporto di coabitazione multispecifica.

La relazione dell’arte con il futuro, dunque, a partire da questo contesto e più in generale dallo spazio pubblico come luogo di creazione, nel corso di questi vent’anni appare complessa e variegata, non sintetizzabile in una precisa pratica né in un’unica direzione. Se è vero che in linea generale la generazione dei giovani artisti di oggi sembra aver riscoperto una dimensione di lavoro più intima e ‘al singolare’, allo stesso modo vi è una parte di essi che ha scelto di incarnare le urgenze collettive agendo nel solco della produzione artistica della generazione precedente. Oggi come vent’anni fa, l’artista che intende farsi parte attiva del cambiamento sociale si cala nei contesti e affronta questioni per lo più circoscritte a uno specifico territorio o a una particolare lotta, esplorando le sfide della contemporaneità per suggerire visioni future possibili. Il trauma di Genova 2001 non ha segnato direttamente gli artisti nati negli anni Novanta, ma certe istanze appaiono interiorizzate; come se la fine del movimento no global avesse generato uno spazio liminale entro cui intervenire con una consapevolezza totalmente nuova. La rivendicazione dello spazio pubblico in risposta alla repressione diventa dunque il macrotema su cui interrogarsi, soprattutto alla luce di un controllo sempre più capillare e digitalizzato, tollerato in nome della pubblica sicurezza.


[1] Su questo argomento, si veda L. Longobardi, 15 Ipotesi per una storia dell’arte italiana. Appunti per una lettura del XXI secolo, Castelvecchi, 2022.