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L’abisso dietro la maschera

Viaggio nelle radici profonde della cultura popolare
Bernt Notke, Danza macabra, ultimo quarto del XIV secolo, frammento di 7 metri dell’originale perduto, basilica di San Nicola, Tallinn

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La notte del 1 gennaio 1091, nella diocesi di Lisieux, in Normandia, un povero prete di campagna, Gualchelino, viene chiamato al capezzale di un moribondo e va a visitarlo, come esige il suo ufficio, in una casa ai confini più lontani della sua parrocchia. Mentre ritorna dalla sua visita, camminando ai margini del centro abitato per non fare brutti incontri, sente un gran frastuono, simile a quello di un esercito. Lì per lì pensa che si tratti della masnada di Roberto di Bellême, crudele signore della guerra che semina il terrore nella regione, e va a rifugiarsi in un campo un po’ discosto dal sentiero, dove sorgono quattro alberi di nespolo. Ma un essere di gigantesca statura che impugna una grossa clava lo precede e gli sbarra il passo – in quel momento il rumore si materializza, a produrlo è un’immensa moltitudine di persone che si incitano l’una con l’altra, avanzando a piedi e portando sulle spalle animali, vesti, suppellettili. I camminanti urlano e si lamentano in continuazione, in mezzo a essi il prete riconosce alcuni suoi parrocchiani morti da poco, ma non ha il tempo di fermarli, perché il corteo prosegue con una rassegna dei più disparati tipi umani: becchini con le loro bare, due Etiopi con un grosso tronco, al quale è legato un povero sventurato, uno stuolo di donne che montano cavalli, sulle cui selle sono stati conficcati dei perni arroventati (sic!), ma anche uomini stimati, considerati quasi dei santi, vescovi, venerabili abati, nobili, avvocati, seguiti da un esercito di cavalieri che, armato fino ai denti, si affretta come in una guerra, alzando vessilli completamente neri. Sfilano a migliaia, come in un lungo piano sequenza, e al termine del loro passaggio Gualchelino pensa tra sé: «Questa è senza dubbio la famiglia di Arlecchino. Ho sentito che un tempo era stata vista da molti ma, incredulo, ho deriso quelli che lo raccontavano, perché non avevo mai visto prove certe di queste cose. Ora però vedo davvero le anime dei morti, ma quando riferirò le cose viste, nessuno mi crederà».

Comincia così, con una visione, La famiglia di Arlecchino (2021) di Massimo Oldoni, uscito per Donzelli, con l’inquietante sottotitolo Il demonio prima della maschera; inizia con una lunga, dettagliata, fantastica descrizione che l’autore affida ad alcune pagine della Historia ecclesiastica di Orderico Vitale, testo di inizio XII secolo, ‘racconto gotico’ concentrato e talmente desideroso di precisare le circostanze dell’esperienza mirifica vissuta dal giovane prete che, all’inizio, ne enuncia addirittura le suggestive coordinate astrologiche: «L’ottava luna in quel tempo risplendeva di chiara luce nel segno dell’Ariete, e rischiarava la strada a quelli che avanzavano. Il prete era giovane, coraggioso e forte, robusto di corpo e agile». La robustezza e il coraggio permettono a Gualchelino di sopravvivere alla stretta ardente di un gigantesco cavaliere, il quale, come prova della realtà delle cose viste, gli lascia sul collo il segno di una tremenda ustione. Che Arlecchino non fosse un’invenzione dei comici dell’arte italiani, ma uno ‘zanni’ di origini ctonie e infernali, lo si sapeva da tempo. Meno noto è che le scampanate con cui si aprivano gli spettacoli fossero un’eco lontana del frastuono dei ‘treni apocalittici’, delle cacce selvagge che solcano il cielo, e delle bande demoniache di cui Oldoni rinviene le tracce in un’impressionante massa di testi medievali, alcuni dei quali si ricollegano ai grandi nomi della letteratura teologica dell’epoca – Agostino, Beda il Venerabile, Gregorio di Tours, Bernardo di Chiaravalle. E ancor meno che l’Arlecchino ‘servo di due padroni’ di goldoniana memoria, fosse originariamente a capo di una famiglia, anzi re di una tenebrosa cricca di biotanati, parola di derivazione greca, poi passata attraverso gli autori latini, che indica i morti di morte violenta, esseri vaganti che non riescono a morire, redivivi che nelle tradizioni nordiche insorgono dalla terra formando minacciosi eserciti, come nel più classico repertorio degli zombie movies.

All’inizio del fantasmagorico excursus di Oldoni, una Notte di Valpurga dell’immaginario medievale, la futura maschera ha un nome, che risuona in varie versioni (Harlequin, Hellequin, Alichino) di diverse cronache, ma non ha un volto, né un costume: è una creatura diabolica, ‘ben nota’ alla tradizione popolare e a un tempo sfuggente, riconoscibile per il frastuono dei suoi cortei – «questa è senza dubbio la famiglia di Arlecchino», come racconta Gualchelino a Orderico Vitale –, se ne individua la presenza, difficilmente i tratti. Come tutte le creature soprannaturali, d’altronde, trasmigra nei racconti e le tradizioni: Oldoni lo smaschera in tutti i suoi avatara, tra i Giganti del mondo greco e biblico, i misteriosi Etiopi, che la superstizione popolare associa al calore, al fuoco, al colore nero; i mitici re norreni e celtici, nelle giostre, nelle danze macabre e negli charivari della Francia di XII e XIII secolo. Ma la smorfia mostruosa di Harlequin appare anche nei timpani delle cattedrali eccolo mentre sul portale sud di Nostra Signora di Chartres conduce una dolente suora all’Inferno – viene registrata tra i diavoli del XXI canto dell’Inferno di Dante: in mezzo ai dodici Malebranche che uncinano le anime fraudolente dei barattieri, c’è Alichino. E, infine, dove la sua forma più indebolita va a posarsi, nel teatro, in un’epoca in cui la scena di quest’ultimo dispone solo dei mercati e dei sagrati delle chiese – quando la paura della morte comincia a essere esorcizzata nel ludibrio e nella finzione, «trasformandosi nel gioco del comico e della follia» – la sua maschera si precisa, e si precisa in quanto sopravvivenza: delle sue apocalittiche epifanie nell’immaginario medievale, Arlecchino manterrà la clava, il bastone che nasconde dietro le spalle, il ghigno deforme (hure) della maschera nera che gli copre il viso, a ricordo della sua origine infernale, lo scampanio, ormai parodistico, che, nella tradizione francese e italiana, lo annuncia sulle piazze e nei cortili, il carattere di demone infingardo che da re si ribalta in servitore, come il ‘servitore di due padroni’ della commedia di Goldoni (dove non si chiama Arlecchino bensì Truffaldino, proprio per allontanare il personaggio dalla sua origine diabolica). E fermiamoci qui, sulla soglia dei carnevali settecenteschi e delle maschere cortigiane e romantiche che popolano la pittura di Tiepolo, Watteau e Fragonard, e che tuttavia, secondo il bellissimo Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi di Giorgio Agamben[1], trattengono ancora in sé il senso apocalittico della fine di ‘un’ mondo. Ben prima che, nella pittura del Novecento, Arlecchino diventi, soprattutto grazie a Pablo Picasso, il simbolo di una poetica, e figurativa, resistenza dell’individuo all’ormai dirompente società di massa[2]

L’immaginario recensito da Oldoni con una sterminata dotazione di fonti – che ci fa sembrare riduttivo il significato che oggi attribuiamo alla parola ‘letteratura’ – è cólto o popolare? L’iconografia arlecchinesca si muove dal basso del racconto orale, in cui tutto affonda e che tutto alimenta, all’alto delle cronache ecclesiastiche e della letteratura teologica, dalla festa popolare al teatro (già) borghese, in una continua e inafferrabile trasmigrazione di motivi e immagini, leggende e allegorie morali, un movimento che, non appena si riposa e si fissa, muore, perché la sua memoria mitica coincide con la sua profanazione: la mìmesis, il ‘facciamo finta che, facciamo finta di’, la trasformazione del demonio in maschera e personaggio, rappresentano la traccia di una presenza/assenza del mondo dei morti nello spazio, anch’esso residuale, del teatro (in un’epoca che, secondo alcuni, sarebbe quella della sua scomparsa e decadenza come istituzione pubblica), da una parte sempre evocata – l’attore ha ancora commercio con i morti, come il negromante, e da questa frequentazione vengono gli interdetti che lo inseguono e perseguitano fino al XVIII secolo – dall’altra non più verificabile, perché l’arte, la forma, la ripresa di un abito mimetico, la esorcizzano. Parafrasando Kierkegaard, il comico è l’infinito che resta preso nelle maglie del finito, un infinito che sub specie terrestre naufraga nel ridicolo; Arlecchino, un demone che sulla terra si muove tra i lazzi del pubblico come uno sfortunato perdente, un innamorato costantemente deluso, un re degli zombie che ha disperso la sua corte mostruosa, di cui già il Jeu de la feuillée di Adam de la Halle (1276) sancisce, malinconicamente, la fine, pur preservando, in scena, i suoi caratteri maligni e, fuori di scena, la sua origine infernale. Perché è proprio dell’Inferno che bisogna ridere. Perché è proprio di ogni potere di incutere paura su una base metafisica – di ogni potere che agita il vessillo della morte e i suoi fantasmi – che le feste e gli charivari, con le loro durissime invettive secolari, si prendono gioco. Nel processo di (ri)nascita medievale del teatro, non può e non deve sfuggire, come ricorda Allardyce Nicoll nel suo classico Lo spazio scenico. Storia dell’arte teatrale, la progressiva separazione dello spazio scenico da quello liturgico, in cui il dramma cristiano inizialmente muove i suoi primi, timidi, passi – in occasione soprattutto delle due grandi feste della cristianità, Natale e Pasqua –; «lo stadio seguente», scrive Nicoll, «fu la separazione di quest’embrione di dramma dalle funzioni religiose vere e proprie della Chiesa. Sia perché questi drammi divennero rapidamente sempre più lunghi, sia perché anche le chiese più grandi non erano abbastanza vaste per accogliere l’immenso concorso di popolo che si affollava per vedere le rappresentazioni, il dramma venne trasferito all’esterno sui gradini dell’entrata occidentale e gli spettatori stavano in piedi sul sagrato. Poi fra le autorità ecclesiastiche cominciarono i dubbi: questa cosa che avevano fatto nascere stava diventando troppo importante nella vita del popolo […] finché al clero fu proibito di prendere parte alle rappresentazioni, o almeno a quelle rappresentazioni che erano fatte fuori dalle mura della chiesa vera e propria». Quando l’attore e regista polacco Juliusz Osterwa diceva che «Dio ha creato il teatro per coloro ai quali la messa cattolica non basta», evocava un confine ben visibile nell’architettura di qualunque città europea, ma anche l’ambivalenza di un’origine che non può mai essere del tutto risolta: il teatro nasce nell’ambito del sacro e del rito, e immediatamente se ne separa, costituendo e istituendo un altro spazio, profano senza essere necessariamente irreligioso (è per questo, d’altronde, che l’idea di rientrare nel tempio, per così dire, ritornare nell’alveo unitario della festa popolare, riprendere il sacro come dimensione originaria, quasi sempre in chiave anti-mimetica, esplorando le tradizioni non occidentali, in particolar modo orientali, è stata accarezzata nel tempo da una moltitudine di artisti non solo della scena e di teorici dell’atto drammatico, da Jean-Jacques Rousseau ad Antonin Artaud, per giungere a Jerzy Grotowski, Peter Brook, al Living Theatre, a Romeo Castellucci, senza tuttavia mai approdare all’ultima Thule di una ri-sacralizzazione della scena di cui molti invece, Grotowski in testa, hanno proclamato l’impossibilità).

Qualcosa di simile, d’altronde, accade all’immagine e all’immaginario, il cui carattere virale, infestante, è sempre sedato da una cultura che rivendica il primato di una verità invisibile agli occhi dei sensi – se il mito (o il dio) decaduto rientra dalla finestra del mondo, lo fa in forma di spettro, sopravvivenza, superstitio. E prima o poi si cristallizza in una maschera, in una persona: il suo statuto è quello dell’apparenza (gioco, illusione, sogno, scherzo, leggenda, arte, tutto quello che la tradizione ebraica, ad esempio, confina nella dimensione della Mishnah Aggadah, segnata dalla perdita o dall’oblio del Libro, della Legge). Nel nostro modello culturale, le immagini possono anche proliferare, e dar luogo ai loro allucinatori cortei infernali, ma, come già sottolineava Gilbert Durand nel 1971, sono sempre chiamate a giustificare la propria minorità in rapporto alla conoscenza e alla verità, perché la loro natura suggestiva non accede mai senza mediazioni al lògos, al discorso, alla serietà del pensiero che, citando Heidegger, «non racconta storie». «Tutta una longeva tradizione pedagogica – e quindi scientifica e tecnica» – scrive Durand – «si è evoluta […] come palesemente iconoclasta […] da noi, nella ‘cristianità’[…] è autorizzata la proiezione disordinata delle immagini visuali, ma ai margini, nel corso delle ‘ricreazioni’, per così dire, delle nostre pedagogie e delle nostre epistemologie»[3]. Ai margini, sui gradini del sagrato della conoscenza. L’attuale tendenza a dissolvere l’estetica delle opere nella loro funzionalità politica, a trasformarle in discorso – sottraendo loro ogni resistenza del significante, ogni enigma, ogni mistero – non rappresenta che il ritorno ciclico di una propensione platonica mai smentita.


[1] G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nottetempo, 2015.

[2] In questa prospettiva lo legge N. Fano in La tragedia di Arlecchino. Picasso e la maschera del Novecento, Donzelli, 2012.

[3] G. Durand, Introduzione alla mitodologia. Miti e società, trad. it. e cura di V. Grassi, Mimesis, 2022, p. 23.