Cerca
Close this search box.

La Wunderkammer del vivente

Quegli strani oggetti della filosofia
Chiara Bettazzi, Studi preparatori, 2018, SC17/Tuscan Art Industry, Prato, foto di Martina Melchionno, Paola Ressa

Questo articolo è disponibile anche in: English

La scena filosofica del presente è popolata da strani oggetti: semi, radici, foglie, funghi, gigli, licheni… la vita vegetale ha fatto irruzione nel pensiero teorico e l’orizzonte di un nuovo naturalismo pare segnare l’arte della creazione di concetti. Spuntano polpi, oncotopi, ragni, formiche, uccelli, mostri in vari formati. E poi rovine, incolti paesaggi perturbati. Non mancano i virus, ma nemmeno le case o le capanne, il respiro, la tattilità, gli affetti, la camminata. Non sono esclusi il vino, i lieviti, i microorganismi. Una svolta ecosofica di fronte alla crisi ambientale, alla minaccia di catastrofe che incombe sui viventi? Può darsi. Benché alla salvezza del mondo la filosofia non sia più predisposta di altre discipline.

La Wunderkammer filosofica del presente è affollata di oggetti. Altrettante occasioni di pensiero. Possiamo immaginare il filosofo intento ad andare per il mondo, pronto ad agguantare ogni pretesto per riflettere sulle cose più disparate, ad aggiornare il catalogo delle novità mai comparse nel regesto filosofico occidentale. Se la filosofia fosse riflessione. Per come si è data fin qui, somiglia invece più a un’arte, a una tecnica cui spetta inventare i propri strumenti mentre azzarda una risposta sempre insufficiente alla domanda: «per fare cosa?». E se ci sono state epoche in cui la filosofia inventava il logos e una res estensa, un dentro e un fuori, un soggetto e un oggetto, ma anche altre in cui pensava il divenire e le metamorfosi, le affinità e le confluenze, oggi sembra intenta, piuttosto, a farsi sorprendere dagli enti. Non che miceti e piante detengano chissà quale saggezza fin qui ignorata da biologia e botanica, nemmeno che spetti alla filosofia difenderli dal rischio estinzione o dal dolore inferto a essi dagli umani onnivori e industriosi, dando loro dignità di soggetti con diritti. Se questi strani oggetti risvegliano oggi un interesse filosofico non è per la moda dell’antispecismo in filosofia morale, piuttosto perché consentono di interrogare il modo in cui si pensa e da qui i suoi effetti su come si sta al mondo.

Perché occuparsi filosoficamente di un fungo, dunque? Perché nella narrativa dell’apocalisse, della fine del mondo e del collasso degli ambienti, la capacità di rigenerazione dei miceti mette in crisi il modo in cui pensiamo alla crisi, al rapporto tra ciò che finisce e ciò che comincia. L’osservazione del pionierismo vegetale, ovvero l’abilità riconosciuta di alcune forme di vita di insediarsi lì dove la vita è assente o carente, consente di pensare al modo in cui via via si produce un ambiente, a quel sistema di alleanze che la catena degli agenti innescata da una singolarità qualunque può mettere in atto. E l’individuo, fosse anche quello umano, non potrà più starsene in disparte, titolare del suo privilegio di vivente con saggezza, perché l’olobionte verrà a ricordargli le sue relazioni di simbiosi e convivenza con tutto il resto e che la sua vita di singolo non è così indipendente da quella di altri. Nel mezzo del disordine, dunque, lì dove la precarietà ha la forma di un mondo in rovina ecologicamente compromesso, la vita fragilizzata dall’impatto antropico non trova un ripristino conservativo nell’ecologia di un’area protetta, bensì nella capacità di un rilancio della vita stessa che rigenera ambienti e ne produce di nuovi, sempre instabili. L’umano non è dunque né un custode né un rentier, e può tornare a far parte di questa vicenda chiamata Natura anche a partire dalla sua specificità di raccoglitore di funghi, pratica della divagazione e della lettura dei segni, esperienza estatica della sorpresa e del caso, tecnica di orientamento e forma di sostentamento. I funghi diventano dunque una faccenda filosofica perché interpellano il modo in cui l’umano configura il suo rapporto con ciò che s’intende per natura, in genere un vago fondale con il quale intrattenersi, comunque a una certa distanza, per turismo o agricoltura, o per farne un ritratto.

Se vi è un dato comune nell’irruzione di queste entità vive sulla scena filosofica è quello di provare a riavvolgere il nastro della metafisica e delle sue conseguenze, scollando le cose dal loro nome e dal posto che è stato loro assegnato dalla conoscenza nella tassonomia delle funzioni. Certo, in botanica gli attributi di una specie vegetale resteranno avvinghiati alla sua nominazione, ma in filosofia politica la neurobiologia di Stefano Mancuso aiuterà a ripensare il rapporto tra l’uno e i molti e le modalità di una convivenza tra singoli che può non passare per delega e rappresentanza. Così l’osservazione del mondo a partire dalla vita vegetale, nella filosofia di Emanuele Coccia, con formazione agraria, trasforma il discorso metafisico in una narrazione cosmologica che smonta i dualismi di potenza e atto, forma e contenuto, interno ed esterno, ragione e sensi. Come per Felice Cimatti, la vita abbandonata alla pienezza del mondo – la vita degli animali, la vita dei vegetali e di tutti quegli enti che non conoscono l’esperienza di separazione dal mondo – è quella vita estrinseca verso cui l’umano può solo continuare a tendere e nella sua inaccessibilità indica l’handicap inaggirabile dell’animale linguistico.

La filosofia della natura che si va ricostruendo non è tale perché include la Natura tra i propri oggetti di riflessione, ma perché prova a smontare quella separazione su cui poggia parte dell’edificio della ragione moderna quando pone il vivente umano al di fuori della natura e la natura al di fuori della ragione. Così l’indagine di Emanuele Dattilo sul rapporto tra mente e materia, tra spirito e mondo, non è un modo per rimettere le cose a posto nella storia della filosofia, ma per pensare la permeabilità della materia alla vita, ovvero un nuovo materialismo. La filosofia della vita andrebbe allora intesa come genitivo soggettivo, come fa Stefania Consigliere quando, attraverso il reincanto, esorta a procedere nel mondo, inteso come una molteplicità animata diversa da una cosa, e porta avanti una critica all’ontologia della dissociazione che continua a separare qualcosa dentro di noi e noi da tutto il resto, producendo dolore. Mentre nella trama delle nuove parentele – quel kin inglese che forse traduce una philia, un’amicizia tra noi e tutto il resto – spuntano conchiglie, pinguini e cellule staminali, certo di importazione anglosassone, ma assemblati a proporre una filosofia della cura degli enti e tra gli enti nel lavoro di cura, anche redazionale, di Angela Balzano, traduttrice e dunque filosofa.

Per la camera delle meraviglie della filosofia naturale del nuovo millennio si aggirano, infatti, traduttori e architetti, storici dell’arte e gastronomi, artigiani e artieri di un sapere che travalica i confini delle cose e delle discipline. L’attenta osservazione dei licheni, modello di resistenza nonché primo agente dell’organico, membrana di traduzione dell’inerte alla vita, è oggi parte integrante della ricerca estetica dello storico dell’arte Riccardo Venturi. Così come la tattilità della lingua nell’esperienza della critica del gusto del vino è per il filosofo Nicola Perullo una forma contemporanea di quel gusto conoscente di campanelliana memoria che è accesso diretto all’intimità delle cose ed esperienza del superamento della loro estraneità. Il ribaltamento del punto di vista del paesaggio nel pensiero dell’architetto Annalisa Metta, da visione rassicurante delle ‘belle contrade’ a rappresentazione di un’autobiografia collettiva, dunque paradigma della mostruosità, la nostra, consente di pensare la contingenza e la coagentività della progettazione, dunque della tecnica, dunque del fare mondo, lontano dalla finalità dell’opera e dalla permanenza del monumento.

Se il cantiere di un nuovo pensiero della natura consente finalmente alle cose di non essere solo le cose, permette anche a ciascuno di noi di sfuggire da quel posto cui si è destinati per competenza, professione, identificazione o semplicemente salario. Alle nostre spalle sta appunto un’epoca, rigorosamente italiana, nella quale la divisione tra artisti e artieri, saperi teorici e conoscenze pratiche, non fu così netta. Nel Rinascimento la confusione dei destini professionali non fu disgiunta da quel naturalismo in cui l’umano non era più al centro, e così poteva stare in qualunque posto, e il mondo era intelligibile per analogie e rimandi, corrispondenze e connessioni. Un mondo attraversato da una ragione sensibile capace di relazioni anche sensuali con le cose. È a questa connettività che pensano oggi nuovi interpreti della suavitas, siano essi filosofi o artisti, curatori o interpreti, poco importa, sono tutti parte di una scena comune.

Così nel gabinetto delle curiosità delle cose animate, degli affetti motori, delle nuove amicizie, oltre a quelli manipolati dai filosofi, sono comparsi altri oggetti. I Wonder Object di Chiara Bettazzi, ad esempio, sono installazioni di contingenza, fatte di precarietà ed equilibri, oggetti finiti e riattraversati da nuova vita, i cui confini trapassano gli uni negli altri, nella continuità della materia, tra organico e inorganico, a formare una scena dell’essere senza nome, da attraversare e guardare da ogni angolo ma con cautela, attenti a non urtare, a non disturbare quell’armonia tra le cose ricreata dall’artista e sempre a rischio di tornare a un cumulo di rovine. O i bestiari di Marta Roberti, dove la rappresentazione di una vita singolare, quel ritaglio di essere chiamato pavone o licaone o elefante, si fa al negativo, nell’accostare lembi di superfici sottili, porzioni sempre incompiute di fogli, insufficienti a contenere il tutto di un oggetto, una vita irritagliabile nella sua porzione di singolo sconnesso dal resto. Oppure gli animali di Felice Cimatti, sfuggiti dal laboratorio pedagogico del naturalismo per bambini, dalla serialità dei modellini National Geographic made in China, rispuntano riagglutinati su nuove arche della salvezza dalle quali è scomparso Noè, a ricordarci che la vita va avanti senza di noi, che le mosche volano sull’autostrada della Calabria mentre sull’incompiuto delle grandi opere procediamo in fila verso le vacanze. Qui il filosofo si mette a fare l’artista. Lo abbiamo detto: è la confusione di un nuovo Rinascimento.

Riferimenti bibliografici:

A. Balzano et al., Pinguini, conchiglie, staminali. Verso futuri transpecie, DeriveApprodi, 2022

F. Cimatti, La vita estrinseca. Dopo il linguaggio, Orthotes, 2018

E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, il Mulino, 2018

S. Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, 2019

E. Dattilo, Il Dio sensibile. Saggio sul panteismo, Neri Pozza, 2021

A. Metta, Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride, DeriveApprodi, 2022

N. Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, Mimesis, 2016

R. Venturi, Prepotenza di vita. Stare con i licheni, in Ti con zero. Tre stazioni per arte-scienza, catalogo della mostra, Azienda Speciale Palaexpo, 2021