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Conversazione a specchio con Francis Offman

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Siamo due artisti.

Io, Igiaba Scego, scrivo testi letterari di diversa forma e origine.

Francis Offman è un artista visuale che usa per le sue opere materiali recuperati o donati.

Ci portiamo entrambi due Paesi sulle spalle, due continenti. Siamo Europa, ma siamo, anche se in modo diverso, Africa.

Francis è nato in Ruanda, io invece sono nata a Roma da genitori somali scappati dalla dittatura di Siad Barre.

Ma quando cominciamo a parlare non iniziamo la conversazione dal Ruanda o dalla Somalia. Cominciamo dalla nostra arte, la terza patria, il mestiere tanto voluto, il cammino che abbiamo intrapreso.

La voce di Francis si colora di entusiasmo quando parla del caffè che usa nelle sue opere mischiandolo alla colla e all’acqua. Caffè che fa da controcanto al gesso e alla tradizione europea che in parte lo ha formato. Il caffè è legato a doppio nodo al Ruanda. Lo ha portato la madre dopo un ritorno tanto atteso nel Paese natale, e il fatto di consumare un caffè prodotto nella propria terra ha colto di sorpresa Francis. Prima del genocidio il caffè ruandese, mi spiega, non era una bevanda popolare, veniva esportato e quasi mai consumato in loco. C’era più l’influenza francese del tè con il latte, il Ruanda prima degli anni Novanta del Ventesimo secolo non era un Paese da caffè. Ma poi, dopo il genocidio, ne è diventato un grande consumatore. Questa novità, che la madre quasi casualmente aveva riportato dal suo viaggio nelle sue valigie, ha spinto Francis non solo a bere con gusto il caffè prodotto dalla sua terra, ma a pensare al caffè anche come materiale possibile da utilizzare nelle sue opere, in cui ha sviluppato una vera e propria ossessione per la bevanda. Ha cominciato a studiare, anche dal punto di vista chimico, i fondi di caffè e a raccoglierli in modo certosino, venendo in contatto con molte persone, molte vite. La capacità di assorbire l’acqua del caffè, in fondo era anche la capacità di assorbire pensieri, vita, eventi. E in più lo avvicinava concettualmente al Ruanda e a tutta una serie di tematiche legate al continente: dallo sfruttamento del pianeta all’idea di riciclo. Mentre parla, con il suo tono pacato e preciso, nella mia testa si affollano pensieri tutti diversi. Primo fra tutti l’importanza nel lavoro di artista della materia prima che si usa per dare forma alla propria arte. Una materia fatta di concretezza tattile, addirittura di mani sporche. La mia materia di lavoro, certo, è meno palpabile del caffè di Francis Offman. Io uso le parole, la lingua italiana, ma sento tra le mani la stessa concretezza che lui prova quando maneggia il suo strumento di lavoro. Scrivo in una lingua che non è quella dei miei genitori, non è né il somalo materno né il bravano paterno, ma la lingua di chi ha colonizzato la Somalia, una lingua europea che ha imposto il suo alfabeto, il suo ritmo, le sue parole d’ordine a un popolo lontano, un popolo dell’equatore, che è stato costretto a piegare il capo e suo malgrado sottomettersi. L’italiano che uso, pur essendo la bella lingua di Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Elsa Morante e Natalia Ginzburg, si porta dietro molti elementi di tossicità. Ma nella mia scrittura l’italiano diventa qualcosa di diverso, si spoglia dei panni del colonizzatore, per indossare quelli più intimi di chi, come me, in questa terra ci è nato. Una lingua italiana decolonizzata che mi ha permesso di poter raccontare rimossi storici e generazionali, ricordi familiari e costellazioni spirituali. In questa concretezza della materia usata mi sento molto vicina a Francis. E mi sento ancora più vicina a lui quando penso che ha dovuto vivere un genocidio, uno dei più cruenti e senza senso del Ventesimo secolo. All’inizio ho molta cautela nel chiedergli di questa tragedia ruandese. Ma lui, pur portandone le cicatrici sulla pelle, mi dice «ricordo benissimo tutto come se fosse ieri». E comincia a spiegami della propaganda di odio che ha attraversato il Ruanda attraverso le radio, di uomini e donne che uccidevano i vicini di casa che conoscevano da una vita, degli elenchi di persone risalenti alla colonizzazione belga, cataloghi di nomi, che hanno facilitato lo sterminio. Poi aggiunge una frase, «la gente era come se fosse ubriaca!». Questa frase mi fa gelare il sangue. La riconosco. È successa la stessa cosa alla Somalia. Un’ubriacatura generale, quasi nello stesso periodo del genocidio ruandese, nata da storture portate dal colonialismo e dal postcolonialismo, da una quantità spropositata di leader incapaci e di disponibilità estrema di AK-47. La tragedia è stata così servita al popolo somalo. E non è stato un pranzo di gala. Trent’anni di guerra civile, una guerra perpetua che da alta intensità si è trasformata in uno stillicidio a media intensità, fatta di corruzione, terrorismo e mancanza di politica. Ripenso alle opere di Francis Offman che ho visto prima di intavolare una conversazione con lui. In quei segni impastati di caffè, acqua, gesso, colore, c’è una parte di autobiografia sua e del Paese che ha lasciato. Sembrano graffi nella cartografia del mondo. Segni astratti che forse parlano di passato o, chissà, di futuro. Non mi spingo a sovrainterpretare le sue opere. Ma lo incalzo con altre domande. Voglio arrivare alla sua scelta artistica. Sono sempre stata curiosa di sapere quante difficoltà deve superare un afro-discendente per diventare e poi essere riconosciuto come artista. Questo sia all’esterno che all’interno del proprio nucleo famigliare. «Quando hai cominciato a capire?», gli chiedo. E inizio a seguire la sua traiettoria biografica che lo ha portato, dopo il genocidio, che ha vissuto per intero in Ruanda, prima in Uganda e poi in Italia, a Bergamo. È qui che scopre quella che con un eufemismo definisce «invenzione del razzismo» nella «impegnativa» – così la incornicia – Bergamo. Il genocidio gli aveva già divorato l’infanzia, il razzismo non poteva far altro che fortificare la sua volontà già cementata. Ed è in questa parentesi tra Uganda e Italia che scopre prima i cartoni animati e poi le figure, il disegno. Nasce una piccola passione, che i genitori sembrano all’inizio incoraggiare. Nella sua middle class family, l’istruzione non è mai mancata, come non è mai mancata una certa routine di ascolto di telegiornali (ancora oggi, mi confessa, segue canali di news, dalla CNN alla BBC). L’ambiente familiare era di fatto molto propizio alle scoperte, alle avventure dello spirito. Ma nessuno in famiglia è stato mai sfiorato dall’idea che quella sua passione potesse trasformarsi in una vocazione da inseguire. È lì che cominciano i primi screzi, i primi no, le prime imposizioni. Francis ha fatto degli studi universitari lontani dalla sua vocazione artistica perché così voleva il padre, perché l’arte non era considerata un mestiere, e la figura dell’artista era sì osannata, ma poco supportata a livello pecuniario e di immaginario. Per seguire la sua strada ha dovuto rompere qualche ponte, fare affidamento sulle sue risorse interiori e cominciare un percorso tardivo verso l’accademia. Ha avuto buoni consigli in questo percorso accidentato. È stato a ‘bottega’ presso un artista bergamasco che gli aveva detto di non perdere mai d’occhio l’Africa, e l’accademia gli ha dato uno spazio sicuro dove sperimentare, conoscere gente, entrare di fatto con il proprio corpo e le proprie opere in un circuito artistico. Per fare questo ha lasciato Bergamo per Bologna. E la frase che mi ripete con un certo rammarico misto a orgoglio è «ci ho messo del tempo per fare tutto questo». Di fatto, ha lottato duro per fare il mestiere che fa. Anche in questo sento Francis molto vicino alla mia esperienza. Non ho rotto ponti, ma ogni volta ho dovuto tradurre il mio lavoro d’artista alla mia famiglia, rassicurarli che non sarei morta di fame. I miei genitori, e non solo loro, mi avrebbero preferito dottore, ingegnere, architetto. Vedermi incollata a un computer a battere sui tasti, dalla cucina della casa lillipuziana (questo mi permetteva il mio tenore di vita) in cui vivevo, o correre in edicola o in libreria all’uscita di qualche mio scritto, all’inizio lo trovavano incomprensibile. La svolta è arrivata con un testo, La mia casa è dove sono, dove illuminavo la loro esperienza; quel libro ha permesso alla mia famiglia di capire che il mio mestiere non era di passaggio. Che la mia intenzione era durare o almeno provare a farlo. Inoltre, le sfide venivano anche dal mondo esterno. La letteratura è fatta di contenuto e di forma. Io passo molto del mio tempo a capire in che struttura mettere contenuti delicati come guerra, razzismo, colonialismo. È un lavoro non di testimonianza, ma di scavo storico e artistico. Ma ho dovuto difendere il mio lavoro da etichette che tendevano a squalificare la matrice della mia arte o, peggio, a inferiorizzarne le intenzioni. Ho lottato per essere definita artista. Continuavano a definirmi, ed è durato per anni, testimone. È qualcosa che non è successo solo a me. Per duecento anni, e con questo voglio fare un esempio concreto, l’editoria che conta ha negato l’arte ai libri degli afro-discendenti americani, definendola testimonianza e spesso negando l’autorialità alle persone nere, chiedendo loro a gran voce di tirare fuori il bianco che aveva composto quell’opera. Si negava l’immaginazione e, in parte, duecento anni dopo, è successo anche a me e a molti altri. Anche su questo punto Francis Offman ha trovato una strategia. Lui non si chiama Francis Offman (Offman, badate bene, senza H), ha un altro nome che conosce solo lui e ovviamente il suo nucleo stretto. Ma le opere le firma con questo nome, che definire neutro forse è un errore, ma è un nome che di primo acchito, ecco, non ci fa pensare all’Africa. Le persone, all’inizio, non sanno nulla della sua storia. Si godono l’opera senza sapere nulla del suo percorso. In un certo senso il suo nome è già parte del suo lavoro artistico. Non è un nome che nasconde l’identità, non è un nome da confondere con un processo di sbiancamento, ma è un nome che agisce sul pre-giudizio del prossimo, che lavora sul suo immaginario. Opere e nome giocano su un terreno minato e riescono con grande eleganza a far diventare chi guarda parte di un’operazione artistica.

Quando la conversazione con Francis Offman finisce, sento che avrei ancora altre mille cose da chiedere. Ma mi impongo il silenzio. È giunto il momento di far parlare le opere. Di lasciare l’arte fluttuare nel vento.