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La ricezione dell’arte italiana in America

Un dialogo con Carlos Basualdo

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È ormai dagli anni Cinquanta che l’arte italiana guarda agli Stati Uniti come il luogo di affermazione e internazionalizzazione par excellence. Nel momento in cui si cerca di capire quale sia la percezione della scena attuale al di fuori dei confini nazionali è, quindi, opportuno guardare alla situazione e alle dinamiche oltreoceano. Una discussione con Carlos Basualdo, The Keith L. and Katherine Sachs Curator of Contemporary Art del Philadelphia Museum of Art, e precedentemente Senior Curator al MAXXI di Roma, in questa sede aiuta a definire il livello di internazionalizzazione su cui l’arte italiana del XXI secolo può contare oggi.

Carlos, tu conosci a fondo l’arte italiana dal dopoguerra a oggi. Sei stato anche professore presso l’Università Iuav di Venezia dal 2004 fino al 2010. Che percezione si ha della scena artistica che si è sviluppata in questo Paese negli ultimi vent’anni all’estero e soprattutto negli Stati Uniti?

Io credo che si percepisca molto poco dello stato attuale della produzione artistica italiana; sicuramente manca la percezione di una produzione contestuale. È un tema complesso. Negli ultimi venti anni alcuni artisti italiani storici hanno avuto una ricezione e sono stati oggetto di una discussione critica molto importanti anche al di là dell’oceano: mi viene in mente Fontana (esposizione al Met Breuer, n.d.r.), Manzoni, Burri ma anche la mostra sul futurismo al Guggenheim nel 2014, che tuttavia purtroppo non penso abbia cambiato, o migliorato, la comprensione del futurismo da parte del mondo anglosassone. Accanto a questi nomi, certamente anche l’arte povera, in particolare alcune figure di rilievo, sono state oggetto di forte interesse: Boetti (con una mostra al MoMA nel 2012), Pistoletto (mostra al MAXXI e al Philadelphia Museum of Art nel 2010, n.d.r.) e ora Kounellis (al Walker Art Center, settembre 2022). Tuttavia, queste mostre, nonostante la proliferazione recente, sono state vincolate a un interesse di mercato, che è attualmente maggiormente ricettivo nei confronti di questo momento dell’arte italiana. Ciò non toglie che tale attenzione abbia fatto sì che, anche negli Stati Uniti, si fosse quasi sul punto di capire l’arte italiana in maniera più organica. Purtroppo, negli ultimi due anni, con la pandemia, il mondo statunitense si è chiuso su sé stesso; questo barlume di apertura si è interrotto e una certa chiusura verso l’arte italiana (ma anche europea) è andata a ricadere soprattutto sulla produzione giovanile.

Una cosa positiva da notare, qui oltreoceano, è tuttavia la presenza di spazi che lavorano esclusivamente con l’arte italiana e contribuiscono alla sua diffusione, come CIMA (Center for Italian Modern Art, n.d.r.) e Magazzino Italian Art, che pur con agende e focusdiversi stanno facendo una promozione molto importante sul territorio.

E anche a Filadelfia, aggiungerei, stai realizzando molti progetti relativi all’arte italiana dal dopoguerra in poi, come la mostra sui disegni di Penone a cui lavoriamo assieme, e hai acquisito anche delle opere per la collezione permanente del museo.

Sì. Sai, durante il mio incarico al MAXXI (2009-2012) ho avuto l’opportunità di lavorare in maniera più intensa con artisti giovani e ci sono alcune personalità molto interessanti come Rosa Barba, Elisabetta Benassi o Nico Vascellari, che si distinguono e spiccano come figure isolate. Ma c’è anche un contesto generale, una generazione che si appropria e rielabora i linguaggi appartenenti a quella che è stata definita arte povera e li traduce in termini contemporanei. Mi sembra che la generazione degli ultimi venti anni abbia sia la capacità di confrontarsi criticamente con l’arte del passato, sia una percezione molto chiara del contesto internazionale, e per questo sia in grado di intraprendere e mettere in atto un’efficace dialettica di negoziazione tra poli opposti. E lo fa in un modo molto più convincente rispetto alla generazione precedente. Sai, io penso che ci sia una generazione mancata in Italia dopo la generazione della transavanguardia…

A questo proposito, l’arte povera, sicuramente grazie a Celant, vero e proprio autore di un ‘brand’, è stato il movimento più esportato all’estero, soprattutto negli Stati Uniti ma non solo. Tu pensi che il fatto che l’arte italiana contemporanea venga ancora identificata quasi esclusivamente con l’arte povera abbia offuscato o prevenuto la ricezione di altri contesti o altri artisti sulla scena internazionale?

Sì, ma allo stesso tempo non bisogna fare l’errore di pensare che l’arte povera sia conosciuta in profondità negli Stati Uniti. Ci sono state mostre di collezioni private di arte povera, grazie per esempio a istituzioni come il Walker Art Center o Hauser&Wirth (a cura di Ingvild Goetz), ma non in una istituzione con una più ampia ricezione, e soprattutto non c’è mai stato un riesame critico importante dell’arte povera e della sua eredità.

Aggiungerei che questo è mancato non solo negli Stati Uniti, ma è mancato e manca anche in Italia: un approccio critico a quello che è stato il ’marchio’ arte povera.

Infatti, come tu sai, l’arte povera non è un movimento, i ‘poveristi’ non sono un gruppo. Sono più un insieme di artisti eterogenei messi insieme saggiamente da Germano Celant.

Un critico che aveva capito che per creare il ‘brand’ di sé stesso avrebbe prima dovuto creare un movimento che rispondesse e disponesse di certi requisiti di circolazione all’interno e oltre i confini nazionali.

Infatti, comprendere la profonda complessità dell’arte povera implica andare oltre questa logica del ‘movimento’ e capire l’eterogeneità degli artisti, i loro rapporti sia con la scena internazionale sia con l’eredità dell’arte italiana del primo Novecento. E tu sai che un punto fondamentale per l’arte italiana è il futurismo; e la ricezione del futurismo, della quale io e te abbiamo discusso tante volte, è purtroppo condizionata negli Stati Uniti da una presunta associazione con il fascismo. Come vedi, ci sono molti ostacoli nella ricezione dell’arte italiana, che hanno condizionato l’arte del primo Novecento, quella del dopoguerra e necessariamente la generazione attuale.

Sono convinta, infatti, che non si possa fare un esame accurato e critico della situazione odierna, senza guardare alla storia. La generazione attuale soffre anch’essa di molti ostacoli in termini di ricezione estera. Ma non si può prescindere dalla evidenziazione di una linea di continuità.

Si tratta di capire una serie di relazioni generazionali: per capire l’arte povera bisogna capire i presunti rapporti tra futurismo e fascismo; per capire la mancata (o quasi) internazionalizzazione della generazione attuale, bisogna capire i fenomeni di ricezione che hanno toccato l’arte povera.

Ogni tanto mi chiedo se il mondo accademico possa permettere un’uscita da questa serie di impasse…

Purtroppo, io vedo il mondo accademico e quello istituzionale e di mercato ancora molto separati tra loro. E la trovo una separazione assurda. E purtroppo il mondo accademico anglosassone è attualmente molto miope e con interessi per tematiche ben diverse…

Tu sai poi che c’è stato un forte pregiudizio, oltre che nei confronti del futurismo, anche nei confronti di Fontana da parte del mondo accademico anglosassone, poi più recentemente le cose hanno iniziato a cambiare. Ma mi chiedo: se non si riesce a comprendere né il futurismo né l’opera di Fontana, come è possibile costruire una ricezione per l’arte italiana anche più recente?

Se dovessi scegliere dei nomi che rappresentano l’arte italiana di oggi a chi penseresti? Questa generazione è capace di raccontarsi su una scena internazionale, globale? È capace di raccontarsi in Italia?

Questa è una domanda vincolata a una serie di progetti ai quali io ho lavorato. Il progetto del MAXXI, per esempio, cercava di produrre un contesto per l’arte italiana ‘giovane’. I nomi di spicco ci sono sempre, ma i nomi di spicco non ti dicono niente di un contesto. Lo scopo iniziale del MAXXI era proprio quello di far apparire il contesto, ma per questo c’è bisogno, appunto, di una rete istituzionale. Negli Stati Uniti, per dire, c’è una rete istituzionale che si è già affermata negli anni Sessanta-Settanta e che oltre a produrre personalità artistiche di spicco produce anche il relativo contesto. Per esempio, se si parla di Martine Syms non c’è bisogno di spiegare il contesto, il contesto c’è già, è evidente. Ma per quanto riguarda l’arte italiana, se io nomino un artista come Gian Maria Tosatti, non è chiaro sin dall’inizio quali siano le preoccupazioni a partire dalle quali un’opera come quella di Tosatti emerge. Quando tu vedi un’opera di Gian Maria, noti tante cose che sono ovviamente proprie della singola personalità dell’artista, ma poi noti anche altro, come il rapporto con Gino De Dominicis, con Ettore Spalletti. Questi aspetti relazionali sono invisibili negli Stati Uniti.

Vuoi dire che il contesto di provenienza della generazione attuale non è facilmente decodificabile o riconoscibile? Sono d’accordo.

Il contesto c’è. Ma non è abbastanza forte la rete istituzionale e di sistema che permette di fare emergere questo contesto, al punto che esso rimane impossibile da percepire dagli Stati Uniti. Non emergono le conversazioni, non emerge la Urdoxa, il sostrato a partire dal quale le figure emergono. Se il sostrato diventa visibile, è possibile acquisire le coordinate che ti permettono di vedere e capire gli interventi degli artisti singoli. C’è sempre una dialettica tra contesto e singolarità. E la singolarità non emerge se manca un vincolo al contesto. Bisogna prima capire il piano di generalità per poi comprendere come le singole personalità si muovono su questo piano, anche per contraddirlo e andare oltre.

Però un contesto forte, anche se invisibile dall’estero, c’è in Italia.

Io ho percepito la presenza molto forte di una generazione che guarda all’arte precedente. Francesco Arena ha un chiarissimo rapporto con l’arte povera, ma anche Marzia Migliora, Nico Vascellari, che ho già nominato.

E tu pensi che tutte queste singolarità siano riconducibili a un tentativo di negoziazione tra l’arte povera e la contemporaneità?

No, non voglio ‘ridurre’ la loro opera. Quello che voglio dire è che io vedo in loro la possibilità di digerire l’eredità di una certa arte italiana precedente e di declinarla, tradurla e articolarla in un contesto internazionale. È la prima generazione in Italia che vedo con questa potenzialità – o con l’interesse ad andare avanti in questa direzione. Però per far sì che questo sia possibile bisogna dare visibilità al contesto.

La capacità c’è, dunque, ma manca una rete istituzionale capace di promuoverne efficacemente la visibilità.

Sì. E siccome manca questa rete, alcune figure emergono come singolarità ma per fattori biografici. Come il caso di Rosa Barba. Rosa vive a Berlino e costruisce un altro percorso. Lo stesso Monica Bonvicini. Se però emergono come singolarità allora non si può parlare di ‘arte italiana’, perché quando parli di ‘arte italiana’ stai parlando del contesto.

Ma allora tu pensi si possa parlare di una arte italiana attuale?

Sì, io penso si possa, ma senza riferimenti esclusivi a questioni di nazionalità. Credo si possano trovare molti artisti che lavorano sul territorio che hanno una comunanza di linguaggio. Durante il mio incarico al MAXXI, sono stato molto sorpreso di scoprire come gli artisti avessero questo rapporto intenso con l’arte del loro passato recente.

Pensi che in Italia servano dei cambiamenti di tipo istituzionale che favoriscano una migliore ricezione e traduzione dei linguaggi che si sono sviluppati negli ultimi venti anni all’estero?

Guarda, io penso che il MAXXI, e ne parlo perché è il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, dovrebbe avere un ruolo da protagonista, con una attività programmatica destinata alla promozione dell’arte italiana (e non solo) attraverso una serie di mostre focalizzate a scadenza annuale. Anche per quanto riguarda le attività del Castello di Rivoli o del Museo Madre, manca un progetto istituzionale chiaramente articolato che riguarda l’arte italiana. Invece quello che sta facendo ora l’Italian Council, che si focalizza sulla promozione e diffusione all’estero, ha una portata e una rilevanza, secondo me, assolutamente notevoli.

Come vedi la situazione negli Stati Uniti nei prossimi anni, vedi una possibilità di inserimento dell’arte italiana?

Gli Stati Uniti dipendono tanto dal mercato e adesso tu sai che il mercato non sta guardando all’arte internazionale, sta guardando all’arte locale. Questo è un momento di profonda chiusura in questo Paese.