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Italians a go go​

Note sulla (im)possibile identità italiana
Antonio Della Guardia, La luce dell’inchiostro ottenebra, 2018, veduta dell’installazione, Galleria Tiziana Di Caro, Napoli, foto di Danilo Donzelli

Era l’estate del 1986 quando i Righeira facevano ballare tutti con la loro hit Italians a go go, in un Paese che forse aveva smesso di essere quell’Ytalya subjecta contro cui aveva polemizzato, giustamente, Emilio Villa, e diventava, per l’ultima volta dopo il decennio 1968-1977, che aveva trasformato lo Stivale in un laboratorio politico e culturale internazionale, quella dell’intelligenza collettiva che conquistava il mondo con Valentino, Armani, Moschino, Versace, ecc. Ma in quegli anni Ottanta lo stile italiano non era solo quello della moda o del design, era anche, e forse soprattutto, quello dell’ultima, paradossale, avanguardia, che riusciva a portare l’Italia fuori dai confini nazionali, alla conquista dei musei e dei mercati dell’arte, proponendo un’interpretazione locale/globale dello spirito dei tempi, ovvero del postmoderno. Nel frattempo, Craxi rinverdiva il mito di Garibaldi, annunciava il ‘sorpasso’ che promuoveva l’Italia a quinto Paese più ricco del mondo e, a Sigonella, ne ristabiliva l’autonomia rispetto alla superpotenza americana: Italians a go go, appunto. La transavanguardia, e la sua teoria elaborata a partire dalla fine degli anni Settanta da ABO, di questo stiamo parlando, terremotava il sistema della cultura, proponendosi come paradossale attraversamento della memoria visiva del nostro recente passato, fondandosi su una reinterpretazione del mito del Genius loci, ovvero della, effettiva o inesistente, identità dell’arte italiana. A ricostruire anatomicamente questa vicenda è stato recentemente Stefano Chiodi in un aureo libretto pubblicato da Quodlibet, dal titolo Genius loci. Anatomia di un mito italiano, che giustamente prende l’abbrivio dall’omonima mostra organizzata da Bonito Oliva ad Acireale nel 1980. Insomma, se nel decennio Sessanta-Settanta il linguaggio dell’arte italiana si era internazionalizzato seguendo una logica darwiniana strutturalmente modernista, adesso – questa era l’idea del critico ‘partenopeo e parte romano’, ma cilentano di nascita – l’arte recuperava una felice manualità e l’istinto dell’opera senza progetto, a partire da un linguaggio vernacolare ironicamente radicato nelle diverse identità regionali degli artisti. Locale versus globale, potremmo dire, ma senza scordare la logica paradossale che attraversava quella proposta: non si trattava, infatti, di un malaugurato ritorno all’ordine di sarfattiana memoria, come all’epoca fu anche indicato, né di una periodica fase ‘implosiva’ dopo quella ‘esplosiva’ del decennio precedente, come da altri proposto, ma di una giocosa riproposizione della (im)possibile identità italiana. Nulla a che vedere, allora, con l’utilizzo del Genius loci in chiave strapaesana, piuttosto una riproposizione anti-autoriale e in forma di pastiche della memoria delle avanguardie e dei suoi stereotipi, senza nessun risentimento e in chiave parodistica e ludica. Un’operazione da interpretare all’interno di un postmoderno inteso come risposta ironica al lutto dell’utopia modernista. Anticipata, in tempi non sospetti, dal Pictor optimus de Chirico e poi, ancora in clima concettuale, da Salvo e Ontani, ma in parte anche da Kounellis e Paolini. L’identità che affonda le sue radici in un’origine, insomma, non è altro che un mito che si può ‘aggirare’ ‒ piuttosto che ‘decostruire’,cosa che forse risulterebbe più interessante ‒, giocando anche con l’orientalismo di quegli stereotipi che da sempre si proiettano dall’estero sul Belpaese, ‘giochiamo a fare che, vestiamoci da, facciamo finta che, e recuperiamo il dialetto contro una lingua maggiore che è da sempre e soltanto la lingua del potere’. Aveva un bel dire allora Dorazio, sferzante modernista, quando lamentava il ritorno alla Biennale, con Clemente e Paladino, della mesta tradizione del presepe di Avellino. Non di tradizione si trattava, ma di tradimento – o meglio di ‘ideologia’ del tradimento e quindi ‘del traditore’, come recitava il titolo di un libro seminale di ABO del 1976 – di chi sa che se non può fare nulla per cambiare il mondo almeno può nascondersi in un gioco di maschere per rendersi inafferrabile: «Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di rimanere lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti», lo aveva già detto Michel Foucault. Quella di Bonito Oliva risultava probabilmente l’elaborazione più coerente di un postmodernismo all’italiana (‘debole’ e quindi ideologico a sua volta, se per ‘forti’ intendiamo quelle elaborazioni che non hanno invece rinunciato a rintracciare l’origine materiale di quella svolta e quindi la natura politicamente conflittuale della transizione di fine secolo), che ‒ nonostante il successo negli stessi anni del mito del Genius loci in altri ambiti, come quello dell’architettura, e Chiodi ricorda giustamente le teorie di Christian Norberg-Schulz e la Strada novissima di Paolo Portoghesi – insistendo sul registro dello scetticismo come via di fuga da ogni rivendicazione identitaria, riusciva a fare egemonia a livello internazionale. Certo, ha ragione Denis Viva a sottolineare che si trattava di un’abile rielaborazione in chiave locale di istanze in realtà arrivate proprio da fuori e in particolare dagli Stati Uniti, il che rendeva tutta l’operazione ancora più paradossale e interessante. Il nostro, del resto, è da sempre un Paese che più che a una nazione in senso moderno somiglia a un arcipelago fatto di differenze irriducibili al principio unitario, è da sempre un territorio composto da comuni nati nel Medioevo insieme alla rete europea delle università, popolato da molte lingue anche profondamente diverse le une dalle altre, da culture e soprattutto dominazioni che, probabilmente e per fortuna, ci hanno vaccinati dall’ossessione identitaria, educandoci ad ‘arrangiare’ maschere, tanto che la storica debolezza italiana (ovvero la mancata e ritardata unificazione nazionale) potrebbe risultare una carta vincente nel mondo contemporaneo. È qui interessante un confronto con il recente successo globale, in ambito filosofico e non più artistico, della cosiddetta Italian Theory, che molto poco c’entra con la transavanguardia (non trattandosi di una forma di postmodernismo ‘debole’, al quale si potrebbe invece accostare il Pensiero debole di Vattimo, in effetti partner filosofico del postmoderno artistico italiano), ma che rimanda a un pensiero da sempre, o almeno dall’Umanesimo in poi, nato ‘fuori’ da un orizzonte nazionale e da sempre ‘fuori’ rispetto a sé stesso, perché indissolubilmente legato, come riflessione sulla vita, alla storia e alla politica. Quello dell’IT – che comprende autori contemporanei che vanno dalle femministe della differenza ad Agamben, Tronti e Negri – è un pensiero ‘impuro’ dunque, e costitutivamente conflittuale, ovvero politico e anti-identitario, non solo perché molti dei suoi esponenti sono stati esiliati e costretti a lavorare lontani dall’Italia, ma anche perché, come già era successo per la French Theory, si tratta di un complesso teorico che si costituisce passando per gli Stati Uniti e per la ricezione internazionale del pensiero italiano, per poi tornare indietro ed essere ulteriormente reinterpretato a domicilio, dopo essere stato (ri)visto attraverso lo sguardo degli altri. Un pensiero ‘da fuori’, insomma, per citare uno dei libri più importanti di Roberto Esposito, che, insieme alla teoria critica tedesca e al post-strutturalismo francese, diventa una delle chiavi di volta più interessanti per riuscire a leggere il nostro tempo. Un pensiero caratterizzato dal ‘dispatrio’ di cui parlò Luigi Meneghello, molto opportunamente ricordato da Stefano Chiodi, che sembra essere anche il tratto costitutivo dell’arte italiana contemporanea, soprattutto quella degli artisti più giovani. Un’arte fatta da ‘dispatriati’, che senza più neanche il problema di un distanziamento ironico rispetto all’identità, come invece per le generazioni precedenti, lavorano ‘fuori’ dai confini tradizionali dell’arte stessa, nel segno di una ‘impura molteplicità’. Una generazione, quella dei quarantenni, che segna una discontinuità e determina una originalità rispetto alle ultime generazioni del secolo precedente, perché recupera un rapporto con le questioni sociali e politiche che li proietta oltre un postmoderno ormai definitivamente alle nostre spalle. A questo aggiungiamo che l’ambito teorico a cui fanno riferimento gli artisti delle generazioni più giovani rimanda molto spesso all’area di pensiero e agli autori che abbiamo appena citato, e che non è raro che questi artisti lavorino fuori dall’Italia, formandosi in un contesto sempre più contaminato. Come accade, senza nessuna pretesa di esaustività e a mo’ di veloci flash esemplificativi di quanto proviamo a dire, in Francesco Arena, che mette al centro del suo lavoro la politica e il ripensamento della storia italiana recente, in Fiamma Montezemolo, che trasforma l’antropologia in pratica artistica e l’arte in antropologia, in Marta Roberti, che lega indissolubilmente il suo lavoro al ripensamento del vivente e quindi al superamento della divisione aristotelica dei regni, o ancora, nel più giovane Antonio Della Guardia, per il quale la ricerca artistica diventa indagine sociale sul lavoro contemporaneo, le sue trasformazioni e i suoi effetti sul nostro apparato cognitivo e affettivo. Un’arte ‘fuori’ e ‘da fuori’ insomma, e italiana solo nella sua paradossale anti-italianità. Italians a go go allora, e come cantava il duo torinese di finti fratelli brasiliani in uno spagnolo ‘arrangiato’: «Es muy muy latino amanecer teniendo el ritmo americano». Con buona pace del Genius loci.

 S. Chiodi, Genius loci. Anatomia di un mito italiano, Quodlibet, 2021.

 A. Bonito Oliva, L’ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo [1976], Electa, 2012.

 M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura [1969], Rizzoli, 2009, p. 25.

 Su Bonito Oliva e la transavanguardia si veda in particolare: ABO. Arte e le teorie di turno. Omaggio ad Achille Bonito Oliva, a cura di P. Balmas, A. Capasso, Electa, 2011, e A.B.O. Theatron. L’arte o la vita. Art or Life, a cura di A. Viliani, Skira, 2021.

 D. Viva, La critica a effetto: rileggendo la trans-avanguardia italiana (1979), Quodlibet, 2020.

 Sull’Italian Theory si vedano almeno: R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, 2010; Id., Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, 2016; D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, 2012. Un contributo più recente è quello di C. Claverini, La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi, Quodlibet, 2021.

 S. Chiodi, cit., p. 133.