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La fine dell’inverno
Una prospettiva sugli anni Venti, tra riconoscimento e speranza

Marta Naturale, Meriggio, 2023, olio su ardesia, 18 x 24 cm

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Alcune settimane fa, il mensile di un quotidiano piuttosto diffuso mi dedicava un ampio spazio. Una bella intervista, a dir la verità, con alcuni fraintendimenti e con un paio di titoli a effetto. Uno di questi era «Cattelan è solo un bluff».

Andando, poi, a cercare il concetto nel testo, certo di imbattermi, per l’ennesima volta, in una forzatura del titolista, ho invece trovato la dose rincarata: «Cattelan e Vezzoli sono un bluff. Circondati da curatori che non stimo».

Deve essere stata certamente una sintesi estrema, fatta, in buona fede, dal giornalista che ha raccolto un’ora di discorsi e che, poi, ha dovuto provare a compattarli tutti in un testo leggibile. Ma, come in matematica, schiacciare un cerchio non produce un’ellisse, e, quindi, questa espressione ripetuta risulta nei fatti, non solo inutilmente polemica, ma anche non confacente al mio pensiero sull’argomento. Tuttavia, questo incidente frequente nell’editoria quotidiana, mi dà l’occasione per tornare su un argomento che, forse, varrebbe la pena di affrontare con maggiore respiro.

Ça va sans dire che Cattelan non sia un bluff. Penso fermamente che sia stato un artista importante che è riuscito a inserirsi – cosa più unica che rara dal 1990 in poi per un italiano – nel dibattito internazionale dell’arte con piena dignità, senza esotismi e senza complessi. E, effettivamente, se penso a quel decennio così particolare, credo che pochi come lui abbiano saputo interpretare lo spirito di una generazione – o almeno la sua parte irriverente – con altrettanta lucidità. Questo non vuol dire che ami Cattelan o che mi senta a lui vicino. Tutt’altro. Odio quegli anni. Odio quel clima e, quindi, in fondo, odio anche Cattelan, come odio certe mie opere che dicono l’opposto di quello che vorrei – e che pure non posso silenziare, perché il dovere dell’artista è dire la verità, non ciò che desidera.

E, forse, è proprio questo odio – questo sentimento vero, radicale, reale – a svelare come io non possa considerare un bluff né lui né il suo lavoro.

Discorso simile può valere per il lavoro di Francesco Vezzoli e per quello di un’altra amica che, certamente avrò citato nel discorso e che, per galanteria, il cronista che mi ha dedicato tanta attenzione non ha riportato, ossia Vanessa Beecroft.

Tre giganti degli anni Novanta, è vero. Ma è proprio questo il punto. Aver costruito su di loro una mitologia, averli resi figure ‘fuori dal comune’, titaniche e sole, che li ha estratti da un contesto e li ha resi ‘modelli’ irraggiungibili. E non perché fossero incomparabilmente più bravi di quelli che volevano provare a raggiungerli, ma perché quei modelli erano appunto un bluff. Erano stati costruiti ad arte, nel tentativo sbilenco di un sistema dell’arte piuttosto confuso, per dar vita all’ennesimo titanismo romantico che gonfia l’icona a discapito della sostanza.

Appartengo a una generazione che è stata educata a omaggiare i grandi solisti. Un po’ perché le avanguardie, le neoavanguardie e tutto il resto appresso avevano stufato (ancora oggi, nei discorsi sento colleghi critici o artisti che vorrebbero resuscitare i poveristi solo per poterli ammazzare con le loro mani – come se gli avessero fatto qualcosa di personale), un po’ perché, un sistema su cui mercato e familismo borghese avevano piazzato un’opa perentoria si controlla meglio con l’antica legge del divide et impera.

A farne le spese furono due intere generazioni, ma in modo diverso.

Quella di Cattelan, Beecroft e Vezzoli – che certamente non contava solo questi tre interpreti ─ venne trattata con sufficienza, in buona parte silenziata, ridotta a sfondo, per far emergere i ‘campioni’; quella successiva, che raggiunse la maturità negli anni Zero e negli anni Dieci, venne educata alla solitudine, un po’ come i detenuti al 41bis.

Il risultato – oggi lo si può vedere con una certa chiarezza – è stato quello di aver licenziato criticamente una generazione anzitempo, mancando di costruire una narrazione integrale, che sottraesse i suoi interpreti al destino dei ‘riscoperti’ con cadenza periodica, ma soprattutto rendesse giustizia a un fatto che contraddice diametralmente la narrazione dominante: ossia che gli anni Novanta furono tutto tranne che un decennio di solitudini.

A Roma, a Milano (che in questa storia fa la parte del leone), a Napoli in modo più complesso e interdisciplinare, ma anche in altre aree del Paese – pur se in maniera un poco più rarefatta – quegli anni registrano una diffusa pratica dello stare assieme, del condividere gli spazi e gli studi, dell’essere generazione. In realtà pur nella loro eccentricità Cattelan, Beecroft e Vezzoli sono il prodotto di un decennio che non si può capire senza Vedovamazzei, Stefano Arienti, Mario Airò, Massimo Bartolini, Liliana Moro e una lunghissima fila di altri interpreti che hanno costituito il terreno di riflessione artistica nel quale i tre ‘giganti’ citati hanno saputo piazzare zampate che hanno poi avuto la capacità di saper attaccare i nervi più sensibili di quel momento – ma non necessariamente i più profondi.

Le stanze sommerse di Bartolini, in quel momento di grande difficoltà civile e morale – siamo in un decennio che schizofrenicamente inizia una vera battaglia sui diritti civili post 1977 e, nel frattempo li infanga, cedendo alle peggiori derive della dialettica pubblicitaria e consumista, basata sullo sfruttamento dell’immagine dell’altro e, quindi, sulla delegittimazione dell’essere in funzione di una messa a profitto dell’apparire ─ non riflettono il sentimento di una intera generazione in modo meno incisivo delle prime performance di Vanessa Beecroft.

Ma, soprattutto, tutti questi esiti erano il risultato di un clima di dialogo che, in un qualche modo, una generazione di curatori che non ha prodotto libri – e, quindi, non ha prodotto riflessioni strutturate – ha deciso di non riconoscere, se non in modo sbrigativo.

Come ben si sa, il modo in cui ci raccontiamo un mondo finisce per determinare il mondo stesso. E così, quella galassia composita di identità e connessioni, ampiamente disconosciuta, ha finito per diventare lo sfondo grigio che ci veniva raccontato: Cattelan, Beecroft e Vezzoli, da simboli dell’artista solitario, sono diventati davvero artisti soli.

Negli anni Zero e, poi, negli anni Dieci mi è capitato di incontrarli. Tutti diversi, uno capace di costruirsi una corte un po’ come l’Enrico IV di Pirandello, l’altra un po’ ostaggio di una macchina crudele come è la società americana, l’ultimo, il più giovane, splendente nel suo dorato isolamento.

Nessuno di loro è molto più grande di me o dei miei colleghi nati anche all’inizio degli anni Settanta che, come me, hanno raggiunto la loro maturità artistica negli anni Dieci. Eppure, non mi è mai capitato, in nessun momento della mia intera vita nell’arte, di sentirli vicini, di sentirli fratelli nel fare. Mi sono sempre apparsi antenati e così continuo a percepirli ora che sono ancora vivi e vegeti e continuano a produrre.

Averli resi giganti dalla narrazione critica, li ha resi proprio come sono queste creature nel mondo letterario: soli e lontani. E credo che questa interpretazione del loro lavoro sia stata anche una condanna, una maledizione, qualcosa di cui nessuno come loro, credo, possa aver sofferto.

Non c’è, infatti, peggiore condanna per un artista che essere sé stesso e non essere un invisibile agente dello spirito del tempo. È questo il bluff: aver costruito una narrazione non vera storicamente, che ha poi comportato dei danni sugli stessi protagonisti di quella storia, su quelli che immeritatamente sono stati trattati da comprimari, da seconde file, e su quelli che poi, sono stati educati a voler essere giganti solitari in un mondo dell’arte in cui i modelli di crescita, in realtà, sono sempre stati collettivi, dalle botteghe alle avanguardie.

Ma il tempo è galantuomo e le bugie hanno le gambe corte. Così quella narrazione un po’ goffa, che mescolava alchemicamente, in chi ci credeva, ambizione e disimpegno intellettuale, ha finito per non convincere una generazione più giovane, quella che inizia ad articolare i suoi discorsi in questi anni Venti.

Per chi, come me, ha vissuto gli anni Zero e i Dieci, vedere la naturalezza con cui gli artisti emergenti si pensano sempre più come parte di un discorso collettivo, quali strumentisti di un’orchestra che consente a tutti di avere il proprio momento di assolo, ma sempre nelle maglie di una composizione unitaria, inclusiva e transidentitaria, è una sorta di commovente restituzione postuma di quanto a molti di noi è stato tolto.

La colpa non è di qualcuno di preciso, beninteso. Al massimo è di noi artisti, della nostra credulità ai miti giovanili che abbiamo male interpretato (eccolo il bluff).

Ormai è acqua passata. Oggi, frequento gli studi di ragazzi pieni di talento che talvolta lavorano assieme per una forte e radicale condivisione di orizzonti ideali ed estetici, altre volte, perché, semplicemente, condividere l’affitto di uno studio è un vantaggio.

Ma non importa. L’arte e il dialogo non hanno bisogno di pianificazioni, di titanismo della volontà. Esse dilagano naturalmente, portate dalla generosità di un’apertura o, forse, ancor più semplicemente, dal non concepire le ragioni di una chiusura. E così entrare negli studi anche di artiste e artisti con sensibilità differenti conduce alla scoperta non solo delle singolarità, ma all’immediato riconoscimento di qualcosa di ancora più interessante: una intelligenza collettiva al lavoro.

Mi è capitato in molte occasioni ultimamente. Due voglio citarle: lo studio di Chiara Enzo, Marta Naturale, Laura Omacini e Marta Spagnoli a Venezia e quello di Ludovica Anversa, Ambra Castagnetti, Filippo Chilelli e Yoshka a Milano. Sono due realtà molto diverse tra loro. Nella prima il trait d’union è stata la provenienza dall’Accademia di Belle Arti della città lagunare, nell’altra è l’adesione a un’estetica e a una filosofia che fa somigliare il gruppo a una specie di crew, spesso dedita a collaborazioni in cui un artista performa per l’altro. Ma al di là delle intenzioni e delle forme di dialogo, il risultato non cambia: emerge con evidenza nelle opere di ognuno, l’influenza del lavoro dei propri compagni, anche quando questo – come nel caso delle quattro artiste veneziane – sembra procedere per prospettive autonome e slegate da una estetica condivisa. Tornano regolarmente segni, ombre, dinamismi pittorici. Il pastello di una si fa olio, per osmosi con il lavoro dell’altra. O le vertebre collezionate da Anversa per essere impresse in opere pittoriche dall’aspetto radiografico, vengono fuse in calchi da Castagnetti che le trasforma in monconi fregiati sulle spalle delle sue sculture.

Tutto questo rappresenta un orizzonte di vitalità che i critici che collaborano con la Quadriennale, nel loro costante peregrinare su e giù per il Paese, stanno scoprendo come il segno di una nuova fioritura, come le gemme di una primavera dell’arte che s’attendeva da tempo e in cui, alla fine di questo inverno, qualcuno comincia a sperare veramente.