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Comunità informali e inoperose
Modelli pedagogici e luoghi d’idee

Oreste Uno, Paliano 1998, courtesy archivio Giancarlo Norese

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La comunità ci è data con l’essere e come l’essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile. Anche se la società è il meno comunitaria possibile, non è possibile che nel deserto sociale non ci sia, infima o persino inaccessibile, comunità. Noi non possiamo non comparire.

Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa

L’avvertimento di Nancy, del filosofo del corpo, della ‘sessistenza’, della comunità, della co-ontologia e dell’essere in comune, arriva con audacia quando, alla fine degli anni Ottanta, gli intellettuali devono registrare i gradi di separazione che allontanano l’ideale comunista dal cosiddetto comunismo reale. Quello che colpisce della proposta di Nancy, che appare ancora più radicale alla luce delle letture successive, è che l’esperienza dell’essere in-comune non è mai slegata dalla corporeità, dall’idea di una prossimità dei corpi e da un necessario contatto. In una condizione di dissoluzione della comunità che, come si è letto, «infima o persino inaccessibile», resta comunque a essere una comunità, l’individuo di cui scrive Nancy si rivela essere solo «il risultato astratto di una decomposizione»[1]. «Ma l’esperienza che, almeno dopo Hegel, questo individuo attraversa […] è l’esperienza del fatto che egli è origine e la certezza soltanto della sua propria morte».

Il profilo dell’artista, se non lo consideriamo un individuo speciale e privilegiato e per questo estraneo al meccanismo dell’individualismo di cui Nancy offre un referto conciso e inequivocabile, risponde esattamente all’identikit del filosofo, qualora pensassimo la sua azione nel reale come estranea alla comunità, seppur intesa come temporanea. Viene da sé che solo l’individuo e, nel nostro caso, l’artista «inclinato fuori di sé, su quel bordo che è il suo essere in comune»[2], rivolto alla comunità e cioè al luogo che per eccellenza può ospitare il ‘singolare plurale’ ─ per utilizzare un’altra celebre espressione del filosofo ─ si emancipa dal senso di estraneità.

Per tutto il Novecento sono tanti gli artisti che appaiono impegnati sul fronte di questa mediazione tra il sé e la comunità, benché l’atelier continui per molti a essere uno dei luoghi cruciali della produzione. La dimensione comunitaria della ricerca artistica in alcuni casi diventa determinante per gli indirizzi individuali, e penso in particolare all’esperienza pedagogica del Black Mountain College, una scuola o meglio un ‘luogo di utopia vivente’ fondata nel 1933 da Andrew Rice e Theodore Dreier in North Carolina, chiusa definitivamente nel 1957, che ha annoverato tra i professori, la cui attività è rimasta celebre, Anni Albers, Josef Albers e Xanti Schawinsky e, tra gli studenti, l’architetto Buckminster Fuller, John Cage, Merce Cunnigham, Cy Twombly e Robert Rauschenberg.

Non solo la scuola inaugurava un metodo pedagogico rivoluzionario che solo in parte guardava all’esperienza della Bauhaus, ma soprattutto l’insegnamento, o meglio la fase di costruzione della conoscenza, era raggiunta attraverso la vita comunitaria, che vedeva professori e studenti impegnati in una forma di esperienza e sperimentazione totale in cui il quotidiano non era estraneo alla ricerca artistica. La vita comunitaria era il contesto pedagogico e il luogo della sperimentazione percettiva e sui materiali. In quell’occasione, nel 1952 nasce Theater Piece n.1, che vede la collaborazione di Cage, Cunningham e Rauschenberg e la partecipazione, tra gli altri, di Charles Olson, poeta e ultimo direttore della scuola, e David Tudor.

Tracce persistenti delle questioni sperimentate al Black Mountain College restano a lungo nel lavoro degli artisti: si pensi alle continue collaborazioni tra Cunningham e Rauschenberg per tutto il decennio successivo. È particolarmente efficace una dichiarazione che Robert Rauschenberg scrive in una nota per il volume a cura di James Klosty su Merce Cunningham: «I don’t want to examine and flatten by classification, and description, a continuous moment of collaboration that exists in a group soul. Details are fickle and political and tend to destroy the total events […] All of us worked totally committed, shared every intense emotion I think performed miracles, for love only»[3]. L’impossibilità di descrivere la qualità della collaborazione senza distruggere la totalità dell’evento è pari solo all’intensità della condivisione di idee tra i due artisti, che si esprime in una tensione produttiva particolarmente evidente in lavori celebri come Minutiae (1954). Quello che Rauschenberg nella nota autografa definisce un miracolo, probabilmente è da interpretare come una produttiva sintonia tra i due artisti, nata a partire proprio dalla comune frequentazione del Black Mountain College. La proposta pedagogica così rivoluzionaria è stata di recente oggetto di studio, punto di partenza per un ripensamento dei modelli di insegnamento dell’arte contemporanea e oggetto di un ampio progetto dell’University of the Arts di Zurigo, Revisiting Black Mountain, indirizzato a proporre un modello pedagogico di superamento di quelli esistenti a partire dall’esempio di democratizzazione radicale offerta dal caso storico[4]. È interessante che proprio la forma comunitaria negli ultimi anni sia stata adottata come riferimento per progetti volti a ripensare l’aspetto educativo legato alle arti quale motore centrale per un’artisticità diffusa nella collettività e nello spazio pubblico[5].

La dimensione pedagogica della comunità artistica è centrale in un’altra comunità che non nasce come luogo degli artisti e per gli artisti, ma raccoglie, anche molto dopo la chiusura del centro di aggregazione, personalità da tutto il mondo.

Nel 1987 Jimmie Durham e Maria Thereza Alves si trasferiscono in Messico, a Cuernavaca, nella città dove tra il 1961 e il 1976 Ivan Illich aveva svolto la sua attività ‘diseducativa’, prima fondando il CIF, Center for Intercultural Formation, e poi, emancipandosi dalla Chiesa che ne contestava la mancata ortodossia alle indicazioni che venivano da Roma, il centro CIDOC. Illich sosteneva la necessità di ‘descolarizzare la società’ ─ titolo di un suo celebre volume programmatico ─ e non di riformare i modelli pedagogici esistenti, cosicché nei centri da lui fondati gli insegnamenti non venivano impartiti frontalmente ma attraverso un processo informale di contatto e di condivisione tra i partecipanti.

Cuernavaca era divenuta negli anni, per la presenza di Illich, una tappa obbligata non solo per i cattolici dissidenti ma per tutta la sinistra statunitense impegnata nei diritti civili. Benché fin dalla fine degli anni Settanta non fossero più presenti a Cuernavaca alcuni tra gli amici di Alves e Durham, come Cedric Belfrage o l’attivista Sergio Méndez Arceo, i due artisti vi si trasferirono e certamente la vita comunitaria influenzò la produzione di Durham che, in quello stesso anno, realizzò la performance I Want to Say Something (Bilingual Education), in cui l’artista leggeva alcuni suoi versi in francese indossando una maschera di coyote e danzando come un ‘autentico indiano’[6]. In questo senso, la vita nella città così segnata dall’indirizzo teorico radicale di Illich probabilmente fu un approdo più che un nuovo orizzonte nella pratica dell’artista.

L’idea o il modello comunitario per eccellenza probabilmente è stato poi quello della colonia di Ascona, Monte Verità, in Svizzera. Una colonia, un sanatorio che raccoglieva filosofi, artisti, interessati a una vita alternativa rispetto a quella borghese delle città industriali europee. Divenne, per gli artisti, un luogo emblematico dove recarsi. La storia della colonia, che va dai primi anni del 1900 fino alla morte nel 1964 del barone von der Heydt che l’aveva acquistata negli anni Venti, è costellata della presenza di artisti d’avanguardia a partire da Marianne von Werefkin (arrivata nel 1918 con Alexej Jawlensky), Hugo Ball e Hans Arp (che erano a Zurigo) e, per citarne altri, Gropius, Albers, Schlemmer, Breuer.

L’interesse per la colonia negli anni ha intercettato, non senza un significato simbolico evidente, la pratica curatoriale di Harald Szeemann che, reduce dall’enorme sforzo curatoriale della mostra The Bachelor Machine realizzata presso la Kunsthalle di Berna nel 1975, cura la poderosa mostra documentaria diffusa in più sedi Monte Verità. Le mammelle della verità, dal 7 luglio al 30 agosto presso la Casa Anatta ─ l’albergo costruito contro la parete rocciosa voluto dal barone e che aveva ospitato gli artisti e gli architetti del Bauhaus ─ , presso il Museo comunale di Ascona e presso altre sedi sul territorio limitrofo[7]. La mostra, che documenta le pratiche di vita alternativa condotte nella colonia che ospitava ecologisti, vegetariani, nudisti, anarchici e intellettuali che credevano nella possibilità di riformare la vita quotidiana in modo radicalmente alternativo, era interamente prodotta dalla Kunsthaus di Zurigo e segna in qualche modo anche la fine della collaborazione permanente del curatore con il museo.

L’idea comunitaria in qualche modo è interna alla stessa pratica curatoriale di Harald Szeemann che, nel 1969, aveva fondato persino un’agenzia per proporre mostre e progetti alle istituzioni culturali. «Agency for intellectual Guest Labor, which is seasonal, even mercenary, because the labor can be exported. We call it simply the Agency. Open as it is to every suggestion and stimulus, filtered through a single ego, the Agency combines all authorities (legislative, executive, administrative etc..) and all specialized departments»[8]. L’unica mostra prodotta dall’Agenzia è The Bachelor Machine del 1975.

Il problema della comunità di artisti e del collettivo artistico i cui differenti soggetti sono legati da una poetica condivisa si scontra con la necessità di affermazione dell’autorialità del gesto artistico quanto di quello curatoriale. Non è un caso che Szeemann sia in bilico tra le due polarità, da un lato di aderire a una forma collettiva, dall’altro di affermare la necessità per il pubblico di riconoscere nella mostra il «profilo personale di un exhibition maker»[9].

La mostra Monte Verità ha segnato un punto di rottura che, nei fatti, afferma una specifica modalità curatoriale basata sulla scelta di oggetti complessi, dispositivi di conoscenza, che il curatore contribuisce a mettere in spazio. La comunità di Ascona, nella scrittura espositiva di Szeemann era raccontata attraverso il dettaglio del documento o del singolo oggetto come luogo di produzione di una conoscenza collettiva ma pur sempre singolare, interpretando quel paradosso da cui siamo partiti attraverso le parole del filosofo Nancy.

Seppure il decennio degli anni Novanta venga abitualmente raccontato come il momento della radicalizzazione dell’individualismo anche nell’arte contemporanea, dopo la stagione ‘eroica’ del decennio precedente (si pensi alla sezione Aperto 80 di Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann, che presentava per la prima volta alla Biennale di Venezia le opere di Chia, Clemente, Cucchi, De Maria e Paladino e alla documenta 7 del 1982, a cura di Rudi Fuchs, il cui intento era ripristinare il discorso sulla ‘bellezza’ e su ‘valori artistici individuali’) vi è, da un lato, la ripresa di istanze movimentiste da un punto di vista politico, dall’altro la saturazione del discorso critico intorno alla generazione dei pittori; a partire dalla celebre mostra curata da Bourriaud e Troncy, It faut construire l’hacienda, si registrano nuove prospettive e approcci che troveranno sistematizzazione alla fine del decennio[10].

In Italia, il progetto Oreste probabilmente risponde con precisione all’idea di una comunità artistica. «Oreste è l’espressione di una collettività ampia di artisti che comprende una fetta significativa delle più recenti generazioni dell’arte italiana, nella quale la proposta di aggregazione non nasce dall’intento di sviluppare una poetica comune o di guadagnare visibilità agli occhi del sistema, quanto piuttosto dall’esigenza di aggirare l’insensatezza del programma narrativo nella quale è intrappolato il loro contesto di esperienza»[11]. Così Pierluigi Sacco introduce il volume che documenta le attività tenute in occasione del secondo incontro a Paliano nel 1998. È comune in tutti gli interventi pubblicati la registrazione della mancanza di spazi e di dibattito condiviso e collettivo, e la scelta di produrre «un’alternativa alla prerogativa individuale che generalmente caratterizza la nostra professione»[12], scrivono le curatrici del collettivo torinese a.titolo. Il progetto ha avuto una vita abbastanza breve (dal 1997 al 2001 grosso modo, passando per la Biennale di Venezia del 1999), ma segna, in una storia ─ ancora non scritta ─ delle esperienze degli ultimi decenni accadute in Italia, un chiaro spartiacque tra due modalità diverse: una che intende il professionismo dell’arte come un percorso individuale, l’altra che lo considera come un tragitto, anche incidentato, costruito su incontri e scambi.

Probabilmente per raccontare la seconda ipotesi sarebbero necessari altri strumenti, altre fonti, in particolare quelle che hanno, oppure avrebbero dovuto, registrare gli scambi di idee, i discorsi, le chiacchierate o le divergenze di prospettive tra i partecipanti, a volte ignari, di una comunità informale e ‘inoperosa’[13].


[1] J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, trad. it.,Cronopio 1992, p. 23.
[2] Ibidem.
[3] «Non voglio esaminare e appiattire con una classificazione e descrizione un momento continuo di collaborazione che esiste in un gruppo d’anime.  I dettagli sono volubili e politici e tendono a distruggere l’insieme degli eventi […] Tutti noi abbiamo lavorato con impegno totale, abbiamo condiviso ogni emozione intensa e credo che abbiamo fatto dei miracoli, solo per amore», J. Klosty (a cura di), Merce Cunningham, Saturday Review Press, 1975, p. 83.
[4] D. Richter, R. Kolb, Editorial, «OnCurating», 2019, 43, https://www.on-curating.org/issue-43.html#.Y_Ym2OzMJmo (22 feb. 2022).
[5] Si veda a questo proposito la conversazione tra Chto Delat e Martina Angelotti, nell’ambito del progetto Visible: C. Delat, M. Angelotti, Organizing New Forms of Collectivity. A Conversation on School of Engaged Art, «Visible», https://www.visibleproject.org/blog/text/organizing-new-forms-of-collectivity-a-conversation-between-chto-delat-and-martina-angelotti-on-school-of-engaged-art/ (22 feb. 2022).
[6] L’ironia tipica della pratica di Durham era esplicita nella locandina disegnata a mano che accompagnava la performance nell’ambito del festival presso La MaMa Theater di New York, in cui compare, in largo anticipo sulle polemiche recenti sulla sua identità nativa e a garanzia autoriale, la scritta «Authentic Hand-made Indian Announcement».
[7] T. Bezzola e R. Kurzmeyer (a cura di), Harald Szeemann. With By Through Because Towards Despite, Edition Voldemeer, 2007, p. 407.
[8] F. Pinaroli, The Agency for Intellectual Guest Labour, in F. Derieux (ed.), Harald Szeemann, Individual Methodology, jrp ringier, 2007, p. 63.
[9] U. Graf, Interview with Harald Szeeman, December 28, 1970, ivi,p. 83.
[10] Di recente Roberto Pinto si è occupato di ricostruire la storia del collettivo Premiata Ditta e del progetto Undo.net offrendo così una panoramica sul decennio: R. Pinto, Da Premiata Ditta a Undo.net. La smaterializzazione dell’artista, «Piano b. Arti e culture visive», 2023, vol. 7, n. 2, https://pianob.unibo.it/article/view/16355 (22 feb. 2023).
[11] P. Sacco, Introduzione, in Progetto Oreste Uno. Un programma di residenza per artisti presso la Foresteria Comunale di Paliano, 1-28 luglio 1998, a cura di G. Norese, Charta, 1999, p. 10.
[12] a.titolo, Dopo Paliano, ivi, p. 15.
[13] È suggestiva l’annotazione con cui si conclude il contributo di Sabrina Mezzaqui al volume su Oreste Uno: «Vorrei registrare la storia orale dell’arte di questi ultimi dieci anni raccontata dagli amici durante i viaggi in macchina in autostrada o di notte al tavolino di un bar»: S. Mezzaqui, Festa, in Progetto Oreste Uno, cit., p. 82.