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Francesco Arena è un artista a cui pensiamo nell’orbita di una riflessione sull’identità artistica italiana. Cosa rappresenta secondo lui il concetto di identità? C’è un’identità nell’approccio, nel suo metodo, nei materiali che adotta per i propri lavori, in cui ricostruisce la storia recente italiana, attraverso una concettualizzazione di fatti, esperienze, luoghi e protagonisti? Arena, nelle sue riflessioni, si conferma artista che ragiona sulle temperature della realtà, attingendo a un patrimonio di citazioni, prospettive e analisi che appartengono alla Storia nella sua pluralità.
Cosa rappresenta per te il tema dell’identità nell’arte?
Identità è una di quelle parole che più di altre si presta a diversi tipi di interpretazione: c’è un’identità esclusivamente personale, l’identità di Francesco, di chi è Francesco, e di cosa pensa Francesco; c’è un’altra identità di tipo collettivo, un’identità condivisa. Questo genere di identità, in alcuni periodi storici ha dato vita a movimenti, manifesti, e penso che adesso sia più interna alle cose, sotterranea quasi. Oggi ci si riconosce parte di un’identità collettiva, in maniera del tutto inconscia, senza necessità di programmi, costituita da identità singole. L’arte, il lavoro dell’artista, è sempre identitario, è fatto da una persona con un suo pensiero, a volte preciso e delineato, molto più spesso confuso e opaco, che ‘rappresenta’ un’identità, quasi come se l’arte fosse sempre un autoritratto.
Identité italienne, la mostra del 1981 di Germano Celant al Centre Pompidou, metteva un punto sull’immaginario italiano dopo il 1959. Oggi cosa c’è di identitario nell’arte e nella cultura italiana?
Forse una certa idea di forma, una necessità di concentrare idee, suggestioni, ipotesi, in un oggetto che, alla fine, ha una sua forma, finita o non finita, ma comunque forma.
Recentemente leggevo un’intervista a un artista italiano ormai storicizzato, Mimmo Paladino, il quale lamentava come nella contemporaneità non ci sia più il fervido scambio tra artisti, poeti e scrittori che era naturale in passato. Perché? Cosa accade oggi di diverso nelle relazioni tra intellettuali? Forse anche quel dialogo tra artisti visivi e poeti era parte integrante di una identità.
Sicuramente c’è una differenza numerica tra il periodo di cui parla Paladino e l’attualità. All’epoca c’erano meno artisti, meno scrittori, più necessità di fare gruppo. Però non credo che questi legami tra artisti, scrittori, poeti, siano oggi inesistenti, anzi ci sono più ambiti in gioco: c’è la musica, il cinema, la moda, ci sono altri mondi che fanno parte della sfera intellettuale e che in qualche modo anni fa non erano contemplati. Io ho rapporti e scambi con molti intellettuali appartenenti ad altri ambiti, ma spesso questi scambi vengono assorbiti nel lavoro dei rispettivi attori, senza voler essere visibili.
Cosa c’è di identitario nel tuo lavoro, sia in termini concettuali che da un punto di vista processuale e di utilizzo dei materiali?
Il mio lavoro è quello che io sono, spesso le mie opere sono autoritratti dichiarati, a volte hanno anche il mio nome, molto più spesso la mia stessa persona è parte ‘costruente’ del lavoro nella sua forma finale. L’identità nel lavoro è nelle storie che lo informano, siano esse pubbliche o personali, nella voluta freddezza di un’esecuzione formale apparentemente dis-identitaria; ma l’identità per essere tale non deve essere precostituita e programmata, altrimenti è finzione, solo un’apparenza di identità, come quando vedi genitori sessantenni e figli trentenni tutti uguali, vestiti uguali, che parlano uguale, con uguali argomenti, tutti sempre giovani o tutti sempre morti.
Entriamo ulteriormente nel merito dei materiali identitari del tuo lavoro: quali sono, come agiscono, in che modo intervengono nella genesi dell’opera?
Non credo si possa parlare di materiali identitari e materiali non identitari, proprio per il discorso cui ho appena accennato, la non possibilità di programmare la questione identitaria. Se pensassi che alcuni materiali rientrino in un concetto di identitarietà rispetto ad altri, ciò porterebbe a una falsificazione circa il farsi dell’opera, mentre, per me, l’opera nasce da una sua verità concettuale, che si solidifica in una formalizzazione, la quale però rifiuta coscientemente il comodo rifugio dell’appartenenza.
Chi sono gli artisti italiani che pensi esprimano, attraverso la propria ricerca, una certa identità italiana?
Ti rispondo, ma credo che un aspetto fondamentale della nostra epoca sia una necessità di percorso del tutto personale, lontana dalla comodità del gruppo; si possono condividere obiettivi senza condividere percorsi, ed è quello che penso molti di noi stiano facendo da anni con un lavoro sui materiali (e con materiali non intendo solo quelli che costituiscono le opere, ma anche le suggestioni di cui le opere sono informate). Detto questo, credo che Giuseppe Gabellone, Diego Perrone, Rä di Martino, Rossella Biscotti, Gianni Caravaggio, Francesco Gennari, Giorgio Andreotta Calò, Ludovica Carbotta, Luca Francesconi, Gian Maria Tosatti, Pietro Roccasalva, Renato Leotta, riflettano, ciascuno a suo modo e alcuni con maggiori punti di contatto, su un’idea di identità italiana. Mi sono dato un limite sui nomi, ma potrebbero essere molti di più. L’enorme eredità nell’approccio, sia fisico sia etico, ai materiali e al fare, che gli esponenti dell’arte povera ci hanno lasciato, è sicuramente materia di confronto per moltissimi artisti delle generazioni successive; spesso sento ironie sulla mia generazione e sul suo rapporto con i poveristi, ma ignorare la qualità del lavoro realizzato da costoro negli anni Sessanta e Settanta è impossibile; e sarebbe stupido (così come pensare che gli artisti non abbiano padri e madri, per quanto a volte non li vorrebbero).
Negli ultimi anni hai viaggiato ed esposto molto all’estero. Come siamo osservati fuori dal perimetro italiano?
Per molti, all’estero, l’arte italiana è l’arte povera e, poi, con un grande salto, Maurizio Cattelan. Tra questi due momenti c’è un vuoto di cui ora musei e gallerie si iniziano a occupare, dedicando mostre ad artisti che non hanno avuto la fortuna dei poveristi. Per quanto riguarda la mia generazione e la precedente, inizia adesso un tentativo di ‘storicizzazione’, come nella recente mostra sull’arte italiana dopo gli anni Novanta, curata da Marco Scotini a Villa Arson di Nizza, in contemporanea con una mostra al MAMAC della stessa città, curata da Valérie Da Costa, sull’arte italiana degli anni Sessanta e Settanta. Poi ogni artista è il suo lavoro al di là del Paese di appartenenza, noi italiani non abbiamo l’appeal di artisti di altri Paesi, ma non credo che l’appeal o l’esotismo siano un buon metro di giudizio per il lavoro di un artista, che dura tutta una vita e spesso si può afferrare nella sua interezza solo con il tempo. I tempi brevi appartengono allo sport e alla stagionalità della moda; l’arte, come l’uomo, è caduta nella Storia, ma è una caduta che non incontra un fondo.
C’è, come dici, un tentativo di storicizzazione del lavoro degli artisti attivi sul finire dei Novanta e l’avvio dei Duemila. Chi sono invece gli autori della strettissima contemporaneità, i giovanissimi, che stimi e osservi?
No, io mi riferisco agli artisti che hanno lavorato tra anni Settanta e Ottanta. Penso che riguardo agli artisti italiani che hanno operato, o meglio, erano giovani, tra fine anni Novanta e inizio del nuovo millennio – la generazione di Mario Airò e Liliana Moro per intenderci, che conta autori con un lavoro complesso – sia stato fatto ancora poco. Tra i giovani e i giovanissimi, apprezzo molto Pamela Diamante, Diego Marcon, Namsal Siedlecki, Gaia De Megni, Gianluca Concialdi, Antonio Fiorentino, Valerio Nicolai.