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Gli occhi degli altri
Una riflessione di controparte

Sentimiento Nuevo. Un’antologia, a cura di D. Ferri, A. Grulli, Bologna, Edizioni MAMbo, 2013

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Nel suo articolo intitolato Come siamo silenziosi sullo stato dell’arte[1], Gian Maria Tosatti denuncia la scarsa produzione di testi critici dedicati alle arti visive in Italia. Pochi giorni dopo appaiono le prime due repliche: Christian Caliandro propone un elenco di libri di critica usciti in questi ultimi anni, sufficienti, a suo parere, a smentire affrettati giudizi catastrofisti; Michele Dantini ricorda, tra le altre cose, che la (ri)scrittura di pezzi di storia dell’arte è esercizio critico anch’esso, spesso più utile e durevole di una critica tutta affogata nel presente.

Obiezioni sensate. Dirò di più: nella lista stilata da Caliandro, inevitabilmente parziale, stupisce tuttavia l’assenza di Sentimiento Nuevo, il volume che raccoglie i contributi dell’omonimo convegno del 2011 dedicato alla nuova critica d’arte in Italia, evento unico nel suo genere, curato da Davide Ferri e Antonio Grulli[2]. Né vengono menzionati, nemmeno come categoria, i saggi critici pubblicati su cataloghi e monografie, come quelli ─ giusto per fare due soli esempi eccellenti ─ di Elena Volpato e Riccardo Venturi. E poi evidentemente ci sono i molti testi apparsi su riviste, cartacee e online, come «Mousse» o «Antinomie». Mi fa piacere ricordare anche gli sporadici interventi di alcuni artisti, tra cui Flavio Favelli, Sofia Silva o Flavio De Marco, o di scrittori come Emanuele Trevi e Tiziano Scarpa. Infine, lasciando un attimo da parte ogni considerazione sulle differenze di qualità, mettiamo nel conto anche i tanti interventi sui blog personali, di accademici o di battitori liberi come il facinoroso Luca Rossi.

Dunque, in Italia si scrive d’arte in tanti e vari modi, d’accordo. E tuttavia continuo a concordare con Tosatti su un punto: un segmento specifico della critica ─ per semplicità usiamo il termine recensione ─ pare essersi volatilizzato. Anni fa, prima che la conoscessi di persona, scrissi ad Alessandra Spranzi una e-mail di elogio per il suo lavoro. Mi rispose stupita: «Come sai ─ terminava ─ ormai siamo [noi artisti] abituati a muoverci in un deserto». Tosatti cita la mole di recensioni che troviamo riguardo all’attività di artisti ─ anche minori o di terz’ordine aggiungo io ─ attivi negli anni Venti o Trenta del Novecento, numeri neanche lontanamente paragonabili a quelli attuali. È vero che il numero complessivo di artisti, di gallerie private e dunque di mostre, è cresciuto enormemente, e sarebbe inverosimile se non addirittura angosciante un aumento proporzionale di recensioni. Ma il pericolo non sussiste. Da alcuni decenni il discorso ex post (recensione critica) è stato abbondantemente rimpiazzato da quello ex ante (il comunicato stampa). Gli artisti un po’ se ne lamentano e un po’ stanno al gioco: nella nuova concezione dell’artista manager di sé stesso, che fornisce il pacchetto completo (opera, foto, spiegazione), l’assenza di contraddittorio (vero) sembra pagare, almeno sul breve termine.

La questione non riguarda solo l’Italia. In Critical Mess: Art Critics on The State of Their Practice, una collettanea curata dal critico d’arte americano Raphael Rubinstein nel 2006, i titoli degli interventi sono già molto eloquenti: A Quiet Crisis (Rubinstein), What Happened to the Art Critics? (James Elkins), Art Criticism, Bound to Fail (Nancy Princenthal). Tra le molte cause di questa graduale perdita di rilievo della critica d’arte, ne riprendo solo una, citata anche da Dantini: il ruolo giocato dalla (assenza di) committenza. La critica è un esercizio di pensiero e di scrittura che richiede capacità e tempo superiori a quanto ne serva per le domande di un’intervista o per rimaneggiare un comunicato stampa. E se questo ‘extra’ non è considerato un valore aggiunto (e premiato con un giusto compenso economico) o viene addirittura ostacolato («Se critichi quell’artista, la sua galleria non acquisterà più le nostre pagine pubblicitarie!»), il ruolo di critico, già di per sé ingrato, si riduce a un’opzione per masochisti.

Anche un curatore giudica continuamente, lo fa ogni volta che seleziona un artista o delle opere. E tuttavia, in forza della sua main mission ─ ideare e articolare delle mostre ─ non è necessariamente tenuto a giustificare le proprie scelte. Al contrario il (curatore in veste di) critico ha propriamente il compito di rispondere in sede pubblica delle sue passioni o avversioni, argomentando esclusioni, proponendo confronti. «Crìtica s.f. [dal gr. κριτική (τέχνη) “arte del giudicare”, facoltà intellettuale che rende capaci di esaminare e valutare gli uomini nel loro operato e il risultato o i risultati della loro attività per scegliere, selezionare, distinguere il vero dal falso, il certo dal probabile, il bello dal meno bello o dal brutto […]»[3]. L’attività critica comporta l’assegnazione di un certo valore a qualsiasi cosa che sia oggetto della sua attenzione. Negli ultimi anni il côté culturale occidentale è diventato istericamente sospettoso verso ogni valutazione e persino interpretazione (da quale pulpito? Non puoi capire una certa estetica se non sei tu stesso/a una donna afroamericana; non puoi giudicare quella tale performance ignorando le opinioni dei pastori di renne Sami). È sorprendente che ciò avvenga in un mondo in cui centinaia di milioni di persone ‘comuni’ esprimono quotidianamente giudizi su tutto e tutti: scorrete le recensioni dei ristoranti su TripAdvisor, i commenti a un brano di Amy Winehouse su Youtube, le critiche furibonde ai medici nei gruppi No Vax su Telegram. Che ci piaccia o meno, molto prima di codificarsi in specifici generi letterari (critica d’arte, critica letteraria ecc.) l’atteggiamento critico ─ distinguere, fare preferenze ─ è connaturato all’esistenza dell’essere umano e forse ha origine in un’ancestrale lotta per la sopravvivenza. Anche se non esprimiamo i nostri giudizi, distinguiamo in continuazione, per quanto stupide siano le conclusioni cui giungiamo o false le premesse da cui partiamo.

Ma torniamo alla critica d’arte, le cui varie declinazioni ─ selezione, giudizio di valore, interpretazione ─ non necessariamente devono coesistere. L’eminente filosofo americano Arthur Danto, per esempio, dichiarava di lasciare volentieri ad altri (critici, direttori di musei) il lavoro sporco ─ la selezione di chi o cosa valga la pena parlare ─ per potersi tranquillamente dedicare alle raffinatezze dell’esegesi. Ora, c’è una domanda non banale cui vorrei provare a rispondere in quanto artista: cosa me ne faccio dell’opinione di qualcun altro su una mia opera, di cui in fondo sono l’unico a dover rispondere? Grazie ai commenti che mi vengono rivolti mentre sto ancora lavorando a un’opera, riesco a individuare elementi, qualità, (s)proporzioni, simbologie che non vedevo fino a quel momento, o scopro analogie con opere di altri artisti che non conoscevo; raramente, ma mi capita anche di accogliere dei suggerimenti specifici. In generale, un giudizio compiuto o un’interpretazione articolata arrivano, se arrivano, a lavoro concluso, ed è sempre emozionante per me osservare che effetto esso abbia su altre persone, altre biografie, altre sensibilità. È un po’ come guardare sé stessi con altri occhi, sdoppiarsi alla maniera dell’inquietante Monsieur Teste di Paul Valéry. Ora, quando qualcuno si emoziona davanti a un mio quadro provo un brivido e mi godo per un po’ l’illusione che quel che faccio abbia un senso anche per gli altri. Diverso è il caso di chi dedica sensibilità, intelligenza e tempo alle mie opere e ne ricava un pensiero: questa cosa provoca in me un senso di gratitudine. Non è buonismo: certi commenti mi irritano, certe interpretazioni mi sembrano assurde, troppo semplici o troppo complicate. Il punto cruciale ─ va sempre ripetuto ─ è che l’autore non detiene alcun monopolio sulla ‘giusta’ interpretazione di una sua opera. L’opera sta al suo autore come un figlio alla propria madre: si assomigliano ma ognuno dei due ha un’identità autonoma, in costante trasformazione. E una buona madre desidera, per doloroso che sia, che il proprio figlio a un certo punto esca di casa e vada a fare esperienza nel mondo. Così l’interpretazione, come l’analisi secondo Freud, non hai mai fine. «Leggerli [i testi critici di Cesare Garboli su Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Antonio Delfini] significa aprire scrigni ricchi di tesori e ritrovarsi a guardare da prospettive inattese autori su cui sembrava di avere già capito tutto: un’esperienza corroborante»[4].

È indubbio che ci voglia una certa dose di arroganza per formulare un giudizio, negativo o positivo che sia. Argomentare pubblicamente un’opinione è però anche un atto con cui ci si assume una responsabilità di fronte a un gruppo sociale, piccolo o grande. Inoltre, contrariamente a quanto accade con le teorie scientifiche, la rilevanza di un giudizio di valore dipende anche da chi lo proferisce. E questa autorevolezza (auctoritas veniva chiamatonel Medioevo un autore o un testo d’incontestabile prestigio) uno se la guadagna sul campo. Voglio dire che se qualche mese fa invece del mio amico Pierpaolo Campanini, che stimo come pittore e come persona di rara sensibilità, fosse stato qualcun altro a fare le sue stesse osservazioni, forse non mi sarei lasciato convincere, o non così velocemente, a modificare un mio quadro.

Bologna, settembre 2023. Esami di ammissione all’Accademia di Belle Arti. Domanda: Quali artisti il/la candidato/a ritiene più significativi in questo momento della sua vita? Nell’80% delle risposte compaiono Klimt, Van Gogh o Caravaggio. Niente Tiziano, Cézanne, Picasso o Cattelan, una sola occorrenza di Duchamp. In compenso pullulano nomi a me sconosciuti: Denis Sarazhin (271K), Nicolai Ganichev (69K), Chris Hong (340K), Mariusz Lewandowski (113K). Sono artisti (o illustratori) che questi ventenni ‘seguono’. Li cerco su Instagram e metto tra parentesi il numero dei loro followers ─ in migliaia. Benvenuti nel regno della pura orizzontalità! Giusto per ricordarci che un denso iperspazio avviluppa quel piccolo pianeta chiamato «sistema dell’arte contemporanea», un pianeta terribilmente bisognoso di sentirsi esclusivo mentre ripete il mantra dell’inclusività.

L’arte è lunatica e stupida. La critica ci fa intravvedere quanta intelligenza vi sia nascosta sotto. Quando c’è. E quando è buona critica.


[1] G.M. Tosatti, Come siamo silenziosi sullo stato dell’arte, in «Il Sole 24 Ore», domenica 3 settembre 2023.
[2] Sentimiento Nuevo. Un’antologia, a cura di D. Ferri, A. Grulli, Bologna, Edizioni MAMbo, 2013. Il libro documentagli incontri informali in alcuni bar bolognesi e la successiva serie di tavole rotonde ospitate al MAMbo, volti a indagare l’ultima generazione della critica italiana e le nuove forme di scrittura d’arte. Il volume raccoglie i contributi di quasi cinquanta tra artisti, curatori e critici.
[3] Vocabolario Treccani online.
[4] G. Amitrano, postfazione a C. Garboli, Scritti servili, Roma, Minimum Fax, 2023.