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Vasi comunicanti
A proposito del rapporto tra critica e storia dell’arte

Al centro, il critico d’arte Filiberto Menna

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Nel 2002 la rivista «October», fondata da Rosalind Krauss e da Annette Michelson alla metà degli anni Settanta con la dichiarata intenzione di rovesciare il canone formalista, allora ancora dominante nella critica statunitense, scelse di festeggiare il suo centesimo numero con una tavola rotonda dal titolo sorprendentemente anodino: The Present Conditions of Art Criticism[1]. A rileggere a distanza di oltre vent’anni il resoconto della riflessione corale che vide coinvolti alcuni tra i protagonisti della critica e della teoria dell’arte tra i due secoli – tra gli altri, oltre a Krauss, Benjamin Buchloh, David Joselit, Robert Storr – ciò che emerge è, soprattutto, l’impressione che la crisi della critica d’arte, tante volte evocata e motivata nel corso della discussione, avesse agli inizi degli anni Duemila già consumato la sua paradossale carica eversiva. Quell’euforia liberatoria che negli anni Ottanta aveva travolto con disinvoltura e senza ‘inibizioni’, i metodi, le ideologie, quei ‘grandi racconti’ di cui nel 1979 aveva scritto Jean-François Lyotard nel suo molto citato e poco letto saggio La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere[2], all’alba del nuovo millennio sembrava ormai ridotta a una fiacca risacca, un rassegnato gioco linguistico più disposto alla nostalgia che alla proposta. A dominare, nei discorsi degli ‘octoberists’ era, insomma, la stanchezza nei confronti di una crisi della critica che appariva, proprio come l’analisi, interminabile e che però, a differenza dell’analisi, risultava improduttiva, bloccata in una ripetizione ben poco differente. George Baker, nelle battute d’esordio della tavola rotonda, aveva, a questo proposito, notato che il ciclo di obsolescenza della critica, iniziato nei tardi anni Sessanta, sembrava, a sua volta, essere ormai obsolescente, proponendo poi come via d’uscita l’esilio, anche temporale, della critica, un late criticism deciso a sottrarsi all’obbligo del presentismo, ma refrattario anche a cedere alle lusinghe del rimpianto. «Non più o non ancora», questo era, secondo Baker, il tempo della critica d’arte agli inizi degli anni Duemila. E, in effetti, come attestano, non senza sfumature, le diverse tesi discusse in occasione della tavola rotonda promossa da «October», il nuovo secolo della critica sembrava aprirsi in maniera piuttosto interlocutoria, lasciando aperte possibilità non ancora definite, affidandosi a una buona manutenzione del passato piuttosto che a una visione chiara del futuro. A dominare l’alba del XXI è soprattutto il presente luminoso delle mostre, la contagiosissima biennial fever, l’ascesa, oggi lo sappiamo, solo in apparenza inarrestabile, della figura del curatore, di cui filosofi e critici disegnavano con compiacimento e un po’ di cattiveria il ritratto mondano e fatuo (una vedette secondo Yves Michaud, tra i più feroci fustigatori del trionfo planetario del curator)[3]. Senza voler entrare nel merito del dibattito, molto animato ma, in fondo, piuttosto stereotipato, sulla figura del curatore, oggetto di voluminosi readers e di nuove cattedre (anche in Italia i curatorial studies si sono istituzionalizzati trovando spazio nelle accademie e nelle università), quello che appare certo è che oggi non è possibile riflettere sullo stato di salute della critica d’arte, sulla sua funzione e la sua eventuale efficacia, senza tener conto delle dinamiche del sistema espositivo, di cui il museo è attore protagonista.

Che il ruolo delle mostre o, meglio, dell’esposizione, sia centrale nella definizione del campo della critica d’arte è un dato che ai nostri occhi appare del tutto scontato eppure, vale la pena sottolinearlo, si tratta di un’acquisizione in fondo abbastanza recente: quando Filiberto Menna nel 1980 pubblicava il suo aureo (ed esigente) saggio Critica della critica, nella collana Scritture Letture di Feltrinelli, la stessa che aveva accolto testi di Peter Handke e Nanni Balestrini, la questione delle mostre non è neppure sfiorata e tutto il ragionamento di Menna, nutrito da Barthes, da Sontag, da Baudrillard, da Kubler, da Argan e Francastel, si giocava sui fondamenti teorici della critica, sulla necessità, quindi, di un atteggiamento autoriflessivo da parte della critica stessa, chiamata a una verifica del proprio statuto e, allo stesso tempo, a una valutazione dei modi in cui essa avvicina e allontana il proprio specifico oggetto di indagine. Pur avendo preso parte in maniera non casuale alla vita delle mostre (Menna è stato, tra l’altro, commissario alla X Quadriennale di Roma nel 1973), e rivendicando, in ogni contesto e in ogni autobiografia, il proprio essere militante, lo studioso non aveva ritenuto necessario confrontare il proprio discorso critico con le occasioni espositive, privilegiando lo spazio della teoria e il necessario confronto con la Storia e con la storia dell’arte. Un tema, questo, troppe volte eluso all’interno della riflessione più recente sulla critica e sul suo stato di salute, più attenta a ridefinire i confini, comunque labili, tra critica e curatela o a censire luoghi e figure già ampiamente riconosciuti della critica e della storia dell’arte del Novecento, come ha fatto lo scorso anno il convegno Armi improprie. Lo stato della critica d’arte in Italia[4]. Eppure la relazione tra critica, teoria e storia dell’arte è questione cruciale che proprio nel nostro Paese ha suscitato in passato polemiche aspre, a partire almeno da quelle celebri Proposte per una critica d’arte (1950) con cui Longhi aveva voluto aprire la rivista «Paragone», un testo programmatico negli ultimi anni più volte ripreso e riletto (nel 2014 è stato edito in volume con prefazione di Agamben), in cui lo storico dell’arte fin dalle prime battute prendeva le distanze, senza nominarlo, da Lionello Venturi che con la sua Storia della critica d’arte aveva portato la critica d’arte nell’alveo delle ‘dottrine filosofiche’ allontanandola dal rapporto diretto con le opere[5]. Si creò allora quello «schieramento di due parti avverse che si estese – ricordava Giuliano Briganti – dal campo specifico della storia dell’arte all’università e di conseguenza ai concorsi universitari, all’editoria, alle rubriche dei giornali e delle riviste, ai rapporti con l’arte contemporanea […]. Da una parte Lionello Venturi, dall’altra Roberto Longhi»[6]. Una faglia profonda che, al netto delle vicende personali, trovava le proprie ragioni proprio nella diversa interpretazione della relazione, comunque complessa, fra critica, teoria e storia dell’arte, un nodo che oggi non sembra più suscitare grandi passioni.

Le ragioni di questa disattenzione sono molteplici: sul versante della Storia, la messa in discussione del paradigma storicistico, il narrative turn che ha interessato tutte le discipline, l’affermarsi dei cultural studies e il conseguente moltiplicarsi delle storie, dell’arte e non solo e, sul versante della critica, lo «sfiorire del teorico»[7] diagnosticato per tempo da Angelo Trimarco, fra i più lucidi studiosi delle trasformazioni (della sparizione) della critica d’arte fra i due secoli, hanno senz’altro avuto un ruolo determinante nel raffreddare l’interesse per il rapporto tra critica e storia dell’arte. Eppure, la questione non ha affatto perduto di urgenza, anzi. Perché al di là delle posizioni che si possono assumere rispetto allo statuto della critica o a quello della storia dell’arte (agli inizi degli anni Ottanta, Hans Belting aveva suggerito «La fine della storia dell’arte»)[8], resta il fatto che le discipline che hanno come oggetto l’arte, i suoi linguaggi e i suoi significati, non disegnano percorsi paralleli ma vivono sempre in dinamica simbiosi. Critica e storia dell’arte sono, per dirla con Breton, vasi comunicanti, sono reciprocamente implicati e non ci si può illudere che il declino dell’una non abbia ricadute sull’altra.

Se l’atto critico negli ultimi anni è più un esercizio di stile che un giudizio (ma Dorfles, già nel 1978, al seminale convegno Teoria e pratiche della critica d’arte, si domandava se «è ancora possibile un giudizio assiologico»)[9]; se la scrittura dell’arte sembra da tempo collocarsi più sul versante della comunicazione che su quello dell’interpretazione, mentre il discorso teorico viene assorbito integralmente dall’opera – questa la tesi di Arnold Gehlen[10] ─ o resta consegnato alle pagine di saggi che fanno spesso a meno del confronto con l’attualità (Hal Foster ha scritto dell’autoisolamento di alcuni critici nelle stanze dell’Accademia)[11], a quali fonti si può e potrà in futuro rivolgere lo storico per affrontare l’analisi di un tempo, il nostro, che sarà presto passato prossimo ma che è già, comunque, storico? Certo, come il museo, la Storia è proteiforme e ogni volta che sembra condannata all’inefficacia, se non proprio all’oblio, sa trovare nuovi territori da percorrere e dissodare: le mostre, che sono da qualche anno divenute oggetto di una specifica e istituzionalizzata linea di studi nell’ambito della storia dell’arte, così come gli archivi dell’arte contemporanea, oggi sempre più spesso esposti, hanno indubbiamente offerto nuovi argomenti e temi agli storici dell’arte del presente. E però si tratta di un lavoro di rimessa, una strategia di utile annessione che non centra il nodo del problema: la questione è che non c’è Storia senza critica e non c’è critica senza Storia. «La funzione storica – ha scritto Menna ─ è stata ed è fondamentale in ogni fatto critico, anche quando è rivolto ai dati della più immediata contemporaneità. Essa coglie anzitutto la realtà concreta dei fatti, le loro relazioni verticali e orizzontali con il contesto in cui si manifestano e con quello più generale della cultura»[12]. Fare Storia è, insomma, uno dei compiti della critica, così come alla base di ogni archivio c’è il gesto della selezione, che è gesto di potere e, quindi, di responsabilità, e non si può delegare a chi verrà dopo il compito di riconoscere valori e ricostruire contesti. Non si tratta, ovviamente, di ridimensionare le funzioni della storia dell’arte ma di alimentarne, piuttosto, i discorsi: evidenziare e interpretare parzialità e omissioni sarà possibile solo se la critica d’arte eserciterà il proprio militante mestiere costruendo teorie (che sono, lo sappiamo, sguardi che individuano mondi), proiettando luci e ombre sulle opere, sui processi e sulle dinamiche del sistema dell’arte e, quindi (e forse) soprattutto, mettendo sotto osservazione il proprio stesso operare. Uno sforzo a cui non ci si può sottrarre, come da sempre la storia, dell’arte e della critica, ci insegna.


[1] AAVV, Round Table: The Present Conditions of Art Criticism, «October», C, Cambridge (MA), The MIT Press, 2002, pp. 200-228.
[2] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 2008. (I ed. 1981).
[3] Y. Michaud, L’artista e i commissari. Quattro saggi non sull’arte contemporanea ma su chi si occupa di arte contemporanea, Roma, Edizioni Idea, 2008.
[4] Armi improprie. Lo stato della critica d’arte in Italia, a cura di V. Trione (Milano, 2023). Gli atti del convegno sono stati pubblicati da Johan&Levi, Milano, 2024.
[5] R. Longhi, Proposte per una critica d’arte, in «Paragone», I, 1950, pp. 5-19. Il contributo è stato ripubblicato dalla casa editrice Portatori d’acqua, Pesaro, 2014, con una prefazione di Giorgio Agamben.
[6] G. Briganti, Caro Argan amico e nemico, in Id. Affinità, a cura di L. Laureati, Milano, Archinto, 2007, p. 75.
[7] A. Trimarco, La parabola del teorico. Sull’arte e la critica, Roma, Edizioni Kappa, 1982. È disponibile una versione online con un’introduzione di S. Zuliani, pubblicata da Arshake nel 2014: https://www.arshake.com/wp-content/uploads/2014/12/Critical-Grounds_A.Trimarco-La-parabola-del-teorico.pdf.
[8] H. Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, Torino, Einaudi, 1989.
[9] G. Dorfles, È ancora possibile un giudizio assiologico? In Teorie e pratiche della critica d’arte, Atti del Convegno di Montecatini (1978, Montecatini), a cura di E. Mucci e P. Tazzi, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 11-17.
[10] A. Gehlen, Quadri d’epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli, Guida Editori, 1989.
[11] H. Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Milano, postmedia books, 2006, p. 13.
[12] F. Menna, Critica della critica, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 77-78.